Mille papaveri rossi. Prima che Piero andasse in guerra

Luigi Oliveto

15/12/2023

“Dormi sepolto in un campo di grano / non è la rosa, non è il tulipano / che ti fan veglia dall’ombra dei fossi / ma sono mille papaveri rossi”. Ormai da sessant’anni questi versi di Fabrizio De André risuonano, ammonitori, come voce antimilitarista e di pace. La canzone (“La guerra di Piero”) racconta di un antieroe che alla vista del nemico (un uomo uguale a lui, ma con la divisa di un altro colore) ha un attimo di incertezza prima di sparargli, pensando cosa significhi troncare un’esistenza (“E se gli sparo in fronte o nel cuore / soltanto il tempo avrà per morire”), mentre a lui resterebbe tutto il tempo “per vedere gli occhi di un uomo che muore”. L’indecisione per Piero risulterà fatale, poiché l’altro, più per paura che per odio, imbraccia il fucile e “non ricambia la cortesia”. A cadere a terra sarà dunque Piero, appena in tempo per rivolgere un ultimo pensiero alla sua Ninetta e morire tra le spighe di grano. Le suggestioni di questa canzone hanno talmente fatto breccia nel cuore e nell’immaginazione di Sergio Badino – sceneggiatore e scrittore di nitida penna – da ricavarne un romanzo (“Mille papaveri rossi”) che si propone come prequel della storia cantata da De André. Ecco, allora, Piero e Nina (voce narrante) che, insieme a Luigi, sono tre ragazzini, poi adolescenti, legati da grande amicizia. Vivono la spensieratezza dei loro anni giovanili in un paesino del Monferrato. Piero è il più timido e il più povero, è figlio di contadini. Luigi è invece benestante, suo padre, proprietario terriero, produce uno dei migliori Barbera. I genitori di Nina sono ebrei, gestiscono la drogheria del paese. Siamo negli anni che precedono la seconda guerra mondiale. I tre ragazzi crescono insieme, uniti da comuni passioni, come quella per la musica jazz ascoltata sul grammofono nella bottega del padre di Nina, avvolti dal profumo di spezie. “A papà piacevano i jazzisti statunitensi: Jelly Roll Morton, Louis Armstrong, Duke Ellington… soprattutto i neri, ma ascoltava volentieri anche Bix Beiderbecke e George Gershwin. […] Il rituale di papà era sempre lo stesso: arrivava con uno dei suoi 78 giri e, con un sorriso, lo estraeva in un soffio dalla confezione. Precisione e delicatezza adoperate per maneggiare il vinile erano le stesse con cui pesava la merce e la imbustava per i clienti. Movimenti lenti, cadenzati, solidi e nitidi come lo spostamento di una gru da carico, rassicuranti”. Le scoperte e le inquietudini dell’adolescenza vedono Piero, Nina e Luigi ancora uniti. Il timido Piero si innamora di Nina. Ma inquietudini ben più grandi attraversano il mondo al di là e fin dentro il loro rassicurante, minuscolo universo. Nei discorsi degli adulti si avverte preoccupazione. Il regime fascista incupisce gli animi. Non si può nemmeno ascoltare musica straniera. E sì che a Nina piacerebbe cantare con Duke Ellington “It don't mean a thing if it ain't got that swing…, non significa niente se non hai lo swing, non significa niente se tutto quello che fai è cantare”. Vengono promulgate le leggi razziali e la famiglia di Nina deve fuggire. Piero è costretto a partire per la guerra. L’epilogo è noto. È racchiuso in una canzone che ha gli accenti della commossa indignazione: contro tutte le guerre, dove a vincere è sempre e comunque la morte.
 
***
 
Non ricordo di preciso come tutto sia cominciato. La nostra non era un’amicizia con una data d’inizio, come a volte succede, e nemmeno avevamo mai pensato potesse averne una di scadenza. Diverse volte mi è capitato di sentire raccontare da qualcuno, o di dire io stessa di altre persone, “Sì, ci siamo conosciuti il tale giorno, a quella festa”, oppure a Natale, o al mare, in vacanza. Con Piero e Luigi ci conoscevamo da sempre. Siamo nati insieme, nel medesimo anno, il 1923, e insieme siamo cresciuti nello stesso paese, Monfiglioli, tra le colline del Monferrato.
Però, se devo pensare al primo ricordo che ho di loro due – anzi, di noi tre insieme – le cose cambiano. L’immagine è qui, davanti a me: appare in un istante come se uscisse da un album di fotografie. Mi basta chiudere gli occhi per vedere quel lieve pendio coltivato a grano, prima della mietitura, in un pomeriggio di fine giugno. È già estate e il sole brucia, ma a noi, a quell’età, non importava: giravamo anche nelle ore in cui picchiava di più, infischiandocene delle raccomandazioni degli adulti. Quel giorno – lo ricordo come fosse ieri – eravamo usciti subito dopo pranzo. I grandi, a casa, facevano il pisolino e, dopo aver provato come sempre a convincere anche noi a riposarci un po’ (inutilmente, manco a dirlo), avevano desistito e russavano al piano di sopra o sul divano. Per via della canicola che stritolava, in pochi a quell’ora si avvicinavano alle amache nei cortili e nei giardini, anche se legate tra le frasche di qualche melo o di una coppia di platani. L’unico suono che si sentiva intorno alle due del pomeriggio, insieme ai rintocchi di una pendola da soggiorno, era l’incessante protesta delle cicale, che sembrava si lamentassero di tutto quel silenzio.
Ed eccoci lì, tre monelli di sei o sette anni, con bastoni, guanti e cappelli, vestiti con quelli che oggi chiunque chiamerebbe stracci, ma che i miei si sforzavano di farmi indossare con un minimo di grazia, essendo io, oltre che femmina, anche figlia del droghiere. Portavo, credo senza null’altro sotto, una specie di salopette di un qualche tessuto coriaceo, per evitare di strapparla tra i rovi, e le mie immancabili treccine, che a fine giornata erano rigide come stecche di liquirizia, impregnate di terra e di fango.
Luigi era quello meglio vestito: suo padre, Fiorenzo Ravera, era uno degli uomini più ricchi e in vista del paese. Proprietario terriero e viticoltore, cavava dalle sue colline la migliore Barbera che avessi mai assaggiato – sì, a sei anni l’avevo già gustata più volte – e ancora, a quei tempi, era una persona per lo più rispettata.
Luigi, con i suoi calzoncini tenuti su dalle bretelle e la camicina stirata. Aveva perfino i sandali e i capelli pettinati.
– Via, ora questi me li levo, – diceva, sfilandosi le scarpe, dopo essersi guardato intorno, e nel frattempo scompigliandosi il ciuffo nero – ma se lo sa mio padre, dovrò andare a nascondermi!
E poi c’era Piero. Di noi tre era il più timido, il più sensibile. Stava sempre un passo indietro, ti guardava dal basso verso l’alto con la testa un po’ inclinata, quasi si stesse scusando. Per che cosa non lo so. Anzi, che dico, sì che lo so. Lo so eccome, e lo sapevano tutti, ma nessuno ne parlava. Piero era anche il più povero: i suoi erano contadini e non potevano offrirgli molto, ma a lui non importava, felice com’era di avere loro.
Ecco, in quegli anni il nostro mondo era così. Un piccolo universo di fiori, neve, giochi, ore all’aria aperta, legna nel caminetto, amicizia, caramelle in enormi contenitori di vetro nel negozio di mio padre, risate. Un mondo che cominciava nelle nostre camere da letto, proseguiva sui banchi di scuola e finiva ai confini del paese, dove tutto ciò che era ignoto e lontano era invisibile, come i grandi continenti oltre il mare. Dove ciò che non conoscevamo faceva paura, come il lupo che aveva squartato la mucca di Donna Antonina, e come la sorellina di Luigi, morta nella culla. Un mondo in cui ci era concesso di andare dove volevamo, bastava non oltrepassare il dirupo del torrente e il grande prato a ovest, e tornare a casa per cena. Un mondo che allora ci appariva semplice per quello che era e che non ci aveva ancora mostrato il suo lato più duro, la sua maschera cattiva.
 
[da Mille papaveri rossi di Sergio Badino, Piemme, 2023]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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