Mille lune. Quando perfino vivere è un atto di coraggio

Luigi Oliveto

15/09/2022

Sebastian Barry, nato poeta e drammaturgo, è oggi affermato romanziere. Basti ricordare il successo conseguito con il romanzo “Il segreto” (2008), diventato otto anni dopo un film diretto da Jim Sheridan. Barry, nelle sue storie, del drammaturgo sa portare tutti gli elementi, le connessioni interne che producono la ‘messa in scena’; del poeta, quella tensione lirica che sottostà al racconto più intimo. Nel romanzo “Mille lune”, pubblicato da Einaudi con la traduzione di Anna Rusconi, l’autore ripropone alcuni personaggi e spaccati di storia americana che già avevamo conosciuto nel precedente “Giorni senza fine” (2016), del quale Kazuo Ishiguro ebbe a dire: “Questo è il mio romanzo preferito dell'anno: un'epopea americana straordinaria, a volte violenta, a volte tenera, che racconta con grande lirismo il destino di due giovani uomini». Con “Mille lune” siamo nell’America del 1870, in Tennessee. Protagonista della vicenda è Winona, un’indiana lakota rimasta orfana che, fin da piccola, dovrà lottare per conquistarsi il diritto a vivere. Non è un caso che l’autore ponga in esergo la frase di Seneca: “A volte perfino vivere è un atto di coraggio”. In questa fatica, Winona trova sostegno in due ex soldati dell’Unione, Thomas McNulty e John Cole, che la crescono come una coppia di genitori. Per lei non è comunque facile rimarginare le ferite del passato, anche perché se ne aprono di nuove quando subisce un’ennesima violenza. Ad una fase di rimozione dell’accaduto subentra l’impeto della vendetta. Irrompe il desiderio di volersi fare giustizia da sola, a qualsiasi prezzo e con ogni mezzo: si traveste da uomo, si arma di coltello, da vittima rischia di diventare colpevole. È qui che il romanzo rende molto bene lo spaccato sociale e antropologico del tempo, il contesto angusto e disperante. La vicenda di Winona è quella di una donna determinata a costruirsi futuro, libertà, rispetto degli altri. Una storia lontana nel tempo, ma quanto mai attuale per situazioni, drammi, sentimenti che hanno a che fare con l’amore, la guerra, con ciò che oggi si chiama gender fluidity.  
 
***
 
Sono Winona.
All’inizio ero Ojinjintka, che significa rosa. Thomas McNulty ci aveva provato e riprovato ma non riusciva a dirlo, così alla fine mi diede il nome di mia cugina morta perché in bocca gli veniva più facile. Winona significa la primogenita. Io non ero la primogenita.
Mia madre, mia sorella maggiore, i miei cugini, le mie zie, li avevano ammazzati tutti. Erano anime dei lakota che vivevano in quelle vecchie pianure. Io non ero troppo piccola per ricordare, avrò avuto sei o sette anni, però non me lo ricordavo lo stesso. Sapevo che era successo perché dopo i soldati mi portarono al forte e là ero orfana.
A una bambina possono succedere tante di quelle cose. Quando rientrai fra la mia gente non ero neanche più capace di parlare. Ricordo che ero seduta nel tepee con le altre donne e non riuscivo a rispondergli. Avrò avuto più o meno sui tredici anni. Dopo un po’ di giorni mi tornarono le parole, allora le donne si buttarono ad abbracciarmi come se fossi arrivata in quel momento. Solo quando avevo parlato la nostra lingua mi avevano vista davvero. Poi Thomas McNulty tornò a prendermi e mi riportò in Tennessee.
Alla fine anche se sei uscita da un massacro o una tragedia devi imparare a vivere. Devi guardarti intorno, vedere come funziona, coltivarti le cose o comprarle, a seconda.
[…]
La cittadina più vicino a noi in Tennessee si chiamava Paris. La fattoria di Lige Magan stava a circa sette miglia. Erano passati un po’ di anni dalla guerra ma in città era ancora pieno di sfaccendata soldataglia dell’Unione, e anche senza l’uniforme color topo i confederati sconfitti erano una specie di presenza segreta. Sulle strade fuori mano, vagabondi. E la milizia statale a caccia dei vagabondi.
Era una città di tanti occhi che comunque ti guardavano sempre, un posto che ci stavi a disagio.
[…]
Picchiare un’indiana non era un reato.
John Cole non importa se aveva fatto il soldato ed era un bravo agricoltore, in città lo trattavano male perché sua nonna o quella prima ancora era un’indiana. Quindi lui ce l’aveva un po’ scritto in faccia. Neanche l’inglese bastava a proteggerlo. Forse non poteva sperare sempre nella misericordia perché era un adulto grande e grosso. Aveva una bella faccia, come dicevano tutti e specialmente Thomas McNulty, ma mi sa che alle volte in città gli uomini ci vedevano dentro l’indiano. Allora lo picchiavano in un modo selvaggio e lui si ritrovava piallato a letto come un’asse dolorante, con Thomas McNulty che giurava che andava a uccidere qualcuno.
Ma Thomas McNulty aveva il difetto di essere povero. Lo eravamo tutti. Lige Magan era già povero avendo la fattoria, e noi eravamo poveri sotto di lui.
Più poveri di Lige.
Quando un povero fa qualcosa deve stare attento. Se uccide, per esempio, deve stare molto ma molto attento e correre veloce come quei cerbiatti che con un salto sbucano fuori dal bosco.
Thomas era anche stato in prigione a Leavenworth come disertore, perciò quando in città vedeva le uniformi diventava nervoso, anche se diceva sempre che lui l’esercito lo amava.
Quanto a me stavo più in basso di Rosalee Bouguereau. Credetemi, con la sua pelle nera era proprio una santa donna. Usciva e andava nei boschi dietro la fattoria di Lige a sparare ai conigli con la carabina del fratello. Nel famoso scontro con Tach Petrie, famoso per noi, almeno, quando lui e i suoi complici avevano tentato di rapinarci e avevano accerchiato la casa con intento implacabile, lei si era distinta ricaricando i fucili più svelta che mai, così raccontava John Cole.
Ma prima della guerra era una schiava e naturalmente per dei bianchi una schiava sta molto in basso.
E io ancora più in basso.
Agli occhi della città non ero che cenere di un falò indiano. Dalla Henry County gli indiani se n’erano andati via in massa da un pezzo. Cherokee. Chickasaw. Alla gente non piaceva veder volare indietro pezzi di brace.
Per il Grande Mistero eravamo tutti uguali, anime che cercavano di strizzarsi abbastanza da riuscire a sgusciare in paradiso, ecco cosa diceva mia madre. Quel che ricordo di lei starebbe nel fagottino delle cose più preziose di una bambina. Quando la Morte ti tocca un amore del genere, nel cuore ti viene una cosa ancora più brutta della Morte stessa. Mia madre ci circondava di attenzioni, a me e a mia sorella. Ci teneva a vedere come correvamo forte e come saltavamo in alto, e non si stancava mai di ripeterci quant’eravamo belle. Là sulle pianure, sotto le stelle, eravamo soltanto bambine.
Ogni tanto a Thomas McNulty piaceva dirmi che ero bella come le cose che per lui erano belle, tipo le rose, i pettirossi e via di seguito. Diceva quello che direbbe una madre, perché allora io una madre non ce l’avevo. Era strano che quando era un soldato nelle vecchie guerre avesse ammazzato tante persone della mia gente. Poteva aver ammazzato anche dei miei parenti, mica lo sapeva.
«Io ero troppo piccola, non me lo ricordo», gli dicevo. Non era vero, naturalmente, ma alla fine era la stessa cosa.
 
[da “Mille lune” di Sebastian Barry, trad. di Anna Rusconi, Einaudi, 2022]

 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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