Mia madre è un fiume. L’aspro romanzo di Donatella Di Pietrantonio

Luigi Oliveto

10/02/2022

Dopo dodici anni dalla prima uscita, l’editore Einaudi ripropone il romanzo d’esordio di Donatella Di Pietrantonio “Mia madre è un fiume”. Una storia aspra – come la terra in cui è ambientata, l’Abruzzo – e che, senza ritrosia alcuna, mette a nudo un difficile rapporto madre-figlia. Di una figlia che ricorda di avere avuto “una madre inaccessibile, separata, non per disamore, per fretta, quest’altra forma del disamore” e che lei era costretta a inseguire “con l’andatura dimessa del cane pulcioso che esala disperazione dal muso”. Questa madre si chiama Esperina. Nel fiore dei suoi anni aveva addosso “l’odore di contadina giovane e sana”. Ma quello è un tempo ormai lontano, reso evanescente dalla malattia che progressivamente le sottrae memoria (“Certi giorni la malattia si mangia anche i sentimenti. È un corpo apatico, emana l’assenza che lo svuota. Ha perso la capacità di provare. Allora non soffre, non vive”) Cosi, in una assunzione di maternità a parti rovesciate, la figlia deve farsi carico della mamma per accudirla anche nelle cose più elementari, per cercare di ancorarla a ricordi sempre più sfuggenti. Nel vano tentativo di mantenere connesso il passato al presente, insieme a lei ripercorre anni, spezzoni di vita, bagliori di dolcezza e di brutalità. La figlia rivolge domande, talvolta è presa da sconforto, compassione; a momenti tentata dalla rivalsa: “Ora posso dirle tutto di noi, senza pietà. Poi dimenticherebbe. Le infliggerei una ferita effimera. Ci fantastico intorno e non me lo invento il coraggio di essere così vigliacca.” Scorrono dunque le memorie di famiglia, dagli anni della guerra fino ad oggi. Si rievocano figure, scene di un universo contadino dove gli affetti si manifestavano (quando si manifestavano) con la stessa ruvidezza delle zolle e della montagna circostante. Una società rurale gradualmente affrancatasi dall’analfabetismo e dalla sottomissione femminile. Il racconto – anch’esso contraddistinto da una prosa tanto spigolosa quanto ricercata, a tratti solenne – procede fino a diventare un gioco di specchi tra madre e figlia, i sentimenti dell’una rivelano quelli dell’altra. Esperina, svuotata dai ricordi e dagli affetti, si avvia a perdere la consapevolezza di sé, la figlia l’acquista: “Poco prima dell’alba mi ha sopraffatto l’amore per lei, ostinato e terribile, colpevole di non aver saputo trovare le vie del suo”.
 
***

Certi giorni la malattia si mangia anche i sentimenti. È un corpo apatico, emana l’assenza che lo svuota. Ha perso la capacità di provare. Allora non soffre, non vive.
Le visite di controllo servono a me. Mi rassicurano, non l’ho ammalata io e l’evoluzione è lenta. Alcune abilità sono in parte conservate. L’accompagno, mi occupo di lei, sono una figlia sufficientemente buona.
Il lungomare è deserto a quest’ora, arriva il rumore buio delle onde e l’acqua della risacca che macina sabbia e conchiglie. Ho parcheggiato lontano per passeggiare un po’ insieme. Mia madre cammina separata, ma ha rallentato il ritmo. La prendo sottobraccio, la manica della giacca sa di Adriatico. Sulla sponda opposta Fioravante prigioniero soffriva la fame di una patata lessa al giorno.
Si rilassa, accordiamo l’andatura. Chiedo se le piace l’odore del mare. Dice che sì insomma, ma lei è nata in montagna, preferisce il profumo delle erbe, dei fiori, non si è mai distesa su una spiaggia. Le avrebbe fatto bene alle ossa, osservo. Ride, adesso è tardi, non se lo metterebbe un costume da bagno.
Dall’altro lato della strada ammiccano le luci dei ristoranti. Propongo un finale a sorpresa: fermiamoci a mangiare il pesce. No, meglio di no, ci aspettano per cena. Un’altra volta, promesso.
Ti chiami Esperia Viola, detta Esperina.
Come una viola sei nata il venticinque marzo millenovecentoquarantadue, in una casa al confine tra i comuni di Colledara e Tossicia. Era l’ultima abitazione prima dei monti, un piccolo sasso rotolato per sbaglio dal fianco orientale dell’Appennino abruzzese.
Apparteneva ai tuoi nonni paterni e lì sono cresciute le famiglie dei loro due figli maschi.
Fioravante, il maggiore, era basso, con il torace largo e piatto, le braccia forti e le gambe un po’ divaricate. Guarda le fotografie. Un corpo piantato, adatto a lavorare la terra o la terra l’aveva voluto così perché faticava fin da bambino, che dici?
Era intelligente e appassionato, ecco, qui si vedono gli occhi nero intenso, e da giovane aveva la rissa facile. Lo ricordava sempre di quando accoltellò il confinante ladro di due vitelle grasse sui pascoli estivi. Fioravante si diede poi alla macchia per mesi sperando che quello non crepasse. Scendeva dal bosco a notte fonda, a prendere il pane e il formaggio legati nella mappina bianca col rigo blu che la madre gli aveva lasciato sul tavolo prima di coricarsi. Annusava gli odori in casa, socchiudeva un momento la porta della camera e si assicurava di due sagome addormentate nel buio reso imperfetto dalla finestra stellata. Poi via di nuovo, con il mulo per compagno, lungo sentieri sicuri che solo lui conosceva.
Era una testa calda, Fioravante.
Tu sei figlia della sua prima licenza di soldato in guerra. Tornò tre volte in tutto. Aveva sposato Serafina in ottobre e a febbraio già partiva per il fronte. Una bella giovenca, diceva di lei per farle un complimento. Alta, snella e soda, conservava una postura dritta ed elegante malgrado le fatiche della campagna, degli animali e della casa. Delle bambine, poi. Si era allenata fin da piccola portando in capo il canestro con il pranzo per i familiari che zappavano o mietevano lontano. Si sfidava a camminare sul terreno impervio tenendolo in equilibrio senza l’aiuto delle mani. Anche tu l’hai fatto, poi. E le tue sorelle. Di rado vi capitava un incidente, ed erano guai. Serafina lo raccontava di una volta che inciampò e le si rovesciarono i maccheroni sull’erba. Li rimise dentro e zitta, nessuno si accorse di niente.
Solo da vecchia si è piegata, all’improvviso e di molti gradi, come se tutti quei pesi l’avessero abbattuta d’un colpo, a distanza. Se ne vergognava dolorosamente, credo sia morta di quello. Certo, non soltanto di quello. Di una somma. Ma curvarsi è stata una ferita decisiva alla sua dignità, sempre guardata e difesa, specchiata nel portamento.
Vuoi sapere perché rido? Perché camminava da modella tua madre, ma poi se doveva pisciare all’aperto si tirava un po’ la gonna sulle cosce, scostava le mutande di lato, allargava le gambe e via. In piedi, come una cavalla. L’ho vista, l’ho vista. Lo so che dopo non lo faceva più, ma io l’ho conosciuta da giovane. Dopo, aveva capito.
L’Italia, scovato il riservista Fioravante per la guerra in quel suo luogo remoto, assicurava a lui e Serafina, a malapena alfabetizzati, l’efficienza delle poste. Lei gli scrisse che stava bene ed era incinta di una Scialomè, il soprannome della famiglia di lui. Il cognome vero non contava, serviva solo per le carte.
Serafina non ha mai fallito il pronostico del sesso delle sue figlie. Le sentiva. Anche quel primo feto maschio se l’era sentito, aveva pianto tutto il tempo, perché sapeva che l’avrebbe perso. Il suo utero era stregato per i maschi. Li accoglieva, ma non li nutriva a lungo, se li lasciava morire dentro quando avevano già le fattezze di pupi. Ne abortì un altro dopo la terza bambina e ancora uno dopo la sesta. Erano così le sue gravidanze, simmetriche.
Come non ci sia rimasta, una di quelle volte, è un mistero. Le veniva il sangue, i dolori del parto, poi le contrazioni espellevano il morticino senza nome dal ventre che non era per lui. Per qualche giorno Serafina perdeva la parola e l’appetito, beveva soltanto, acqua e decotto di malva, a compenso delle lacrime. Poi si alzava e riprendeva a lavorare, cioè a vivere.
Alla lettera della moglie, Fioravante soldato ne rispose una con solo il tuo nome. Lei rise e accettò. Esperia era la carbonaia dalla chioma zingara che anni prima era venuta a bruciare legna insieme ai fratelli e stupiva il bosco di tuo nonno con voce di sirena silvestre. Chiunque l’ascoltava se ne invaghiva, Fioravante compreso. Con il nome chiamò sulla figlia tutta quella bellezza e tu hai sempre cantato e fischiettato, accompagnandoti la vita.
Ti esibivi al pubblico delle tue sorelle con alcune canzoni nostre, come Vola vola e Tutte le funtanelle se so’ seccate. Ricordi solo qualche verso di Vola vola. No, non è perché non hai più memoria, l’altra non ti piaceva, era troppo triste per i tuoi gusti. Se vuoi cerco il testo. Magari facciamo un duetto, però non sono brava come te.
Nella tua vita la seconda rivoluzione la fece la radio. Della prima ti parlo un’altra volta.
Arrivò che avevi sedici o diciassette anni, perché Fioravante era un contadino pastore subappenninico e povero, ma troppo curioso del Progresso. Lo nominava sempre, con la maiuscola.
Vendette qualche animale e la comprò, in principio una a batteria e dopo la grande radio a dischi, marrone e giallina, con le manopole davanti e il piatto per i trentatre giri sopra, protetto dal coperchio. Il mondo irrompeva in casa. Casa vostra ormai, non più con i nonni, gli zii e i cugini, troppi attriti. Casa vostra, a due chilometri. La radio la riempì di fischi e ronzii, voci slave, austriache, severe. Era difficile sintonizzarsi su quelle italiane, dovevate esercitarvi a rotazioni infinitesimali e la volta dopo la stazione non era lì. Arrivavano cantanti e strofe, le imparavi subito a memoria e le intonavi felice. Ti torna qualche nome? Oggi sì. Luciano Tajoli, Nilla Pizzi e poi Claudio Villa, Domenico Modugno. Impazzivi per il festival di Sanremo, ci campavi di rendita tutto l’anno. Vi compraste anche dischi di storie d’amore tragiche, contrastate fino alla morte. Gli interpreti erano patetici sulle note dell’organetto. Peppino e Rosetta te li ho sentiti allo sfinimento. Lo so che ci sei affezionata, ogni tanto provi ancora, sottovoce, non dire di no.
Accompagnami nell’orto, adesso. Certo che è tempo di pomodori, è agosto. Portiamo due cassette, una per quelli maturi e una per gli acerbi. Si procede per file, comincia dalla prima e io dall’ultima. Tu riempi la cassetta gialla con i pomodori per l’insalata, io la blu con quelli da sugo. A metà lavoro ci incontriamo e ci salutiamo. No, non ti piace così. Allora insieme, tu prendi i verdi e io i rossi, così siamo abbastanza vicine per chiacchierare. Non fa niente se si mischiano un po’, poi li dividiamo in cucina. Sì, me l’hai detto che a Grazietta si è seccato l’orto. Prima. Non importa.
 
[da Mia madre è un fiume di Donatella Di Pietrantonio, Einaudi, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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