Meglio dirsi vedove che zitelle. L’ironia terapeutica di Chiara Moscardelli

Luigi Oliveto

06/06/2019

Eccome se si può ridere con intelligenza! È ciò che Chiara Moscardelli invita fare con il suo nuovo romanzo “Volevo essere una vedova” (Einaudi) a dieci anni da un altrettanto eloquente titolo, “Volevo essere una gatta morta”. La protagonista è la stessa e porta il nome dell’autrice, Chiara. Ai tempi in cui invidiava le gatte morte aveva 30 anni, oggi ne ha 45 e continua a non possedere uno straccio d’uomo, salvo deprimenti tentativi con maschi fin troppo stracci e poco uomini. Dunque, single a vita? Lei i suoi sforzi li ha fatti. Si è pure trasferita da Roma a Milano, sperando che un cambio d’aria e di mentalità le giovasse. Ma, almeno per quanto la riguarda, ha trovato soltanto una città di zitelle, gay, raccolta differenziata e ossessione per la puntualità. Insomma: “Milano è un bel posto per morire. Sole”. Peraltro, tutto congiura contro di lei: una menopausa precoce, un rapporto impacciato con il proprio corpo (esilarante il capitolo in cui racconta la ‘ceretta total’ cui si è sottoposta) e soprattutto il fatto che tutti, proprio tutti, le chiedano come mai sia single. Per cessare lo strazio, decide di ricorrere a un espediente, dichiararsi vedova. Così che, acquisito uno status socialmente riconosciuto, potrà essere considerata in modo diverso. Poiché passare dalla condizione di zitella a quella di giovane vedova fa cambiare completamente il punto di vista degli altri su di te. Una vedova quarantacinquenne (poverina, qualcuno se l’era presa) è decisamente altra cosa da una zitella quarantacinquenne (poverina, ma chi se la prende questa). Ecco quanto ci racconta Chiara raccontandolo allo psicologo (“Per questo ero seduta di fronte al dottor Marco Mortisio, Mortimer, o Morti, per me, e lo osservavo scettica. Molto scettica.”). Il libro è giustamente dedicato “a noi donne, grasse, magre, forti, fragili, giovani, vecchie”, nella ferma consapevolezza che “siamo noi la nostra forza”. Una lettura, però, è consigliata pure a noi maschietti. Molte di quelle risate ci riguardano da vicino.
 
***
 
Incredibile come a un certo grado di consapevolezza ci si arrivi spesso per vie traverse. Trascorri il tuo tempo a credere di averne molto altro. Per crescere, per cambiare, per innamorarti, per essere amata, per avere dei figli e mettere su la famiglia del Mulino Bianco. E rimandi. Posticipi la crescita, i cambiamenti, l’amore e la famiglia del Mulino Bianco. Non te l’aspettavi, non l’avevi cercata e invece eccola là: odiosa, irritante, dirompente. La consapevolezza.
– Lei ha a disposizione ciò che hanno tutti: una sola vita.
Ero andata dallo psicologo. Non di mia volontà, sia chiaro. Elisa mi aveva praticamente obbligata. Perché un conto era capire di avere bisogno di aiuto, un conto era avere il coraggio di chiederlo.
– Lo so, – avevo risposto seccata. – Bella scoperta.
– Ma la cosa importante da sapere, – aveva proseguito, implacabile, – non è se questa vita sia lunga o corta…
– Insomma…
– Importa ciò che ne farà e il punto di vista con cui decide di guardare le cose.
Non ci si libera dei problemi evitandoli, ma attraversandoli. Non è facile, si impara a farlo con il tempo. Il più delle volte l’istinto ci suggerisce di scappare per allontanarli. Ma quei problemi, piantati dentro di noi, si sedimentano, crescono, ci bloccano e influenzano i nostri gesti quotidiani, contaminano i rapporti, spesso fino a distruggerli.
Non siamo perfetti e tutti noi portiamo addosso, cercando di nasconderli, i segni di qualcosa che ci ha marcato. Eppure è proprio quel qualcosa che definisce chi siamo davvero.
Fare ordine nel caos della vita e trovare il proprio posto nel mondo vale almeno un tentativo.
Ma non sapevo da che parte cominciare.
Avevo cercato di non pensarci per anni, sperando che, così, i problemi potessero andarsene da soli.
Se la mia professoressa di Greco del liceo, che forse era morta, per fortuna, mi avesse visto adesso, che avrebbe detto?
L’avevo incrociata al mio terzo anno universitario, o forse era il quarto, in un bar vicino alla vecchia scuola.
«Professoressa! – l’avevo chiamata. – Sono Chiara Moscardelli, si ricorda?»
«Certo, cara. Come stai?»
«Bene».
«Ti sei laureata?»
«Ancora no».
«Sposata?»
«No».
«Almeno fidanzata?»
«No».
«Figli…?»
«No», e qui stavo per scoppiare in singhiozzi.
«Moscardelli, un fallimento sotto tutti i punti di vista!»
Mio Dio, come avrebbe commentato ora che erano passati quanti, vent’anni?
Già era stato tanto riuscire a laurearmi!
Eppure mi ero impegnata, avevo cambiato città, lavoro, taglio di capelli, uomini!
No, quelli no, scusate, mi sono fatta prendere dalla foga.
Nonostante l’impegno, niente. Io, Chiara Moscardelli, non mi sentivo bene anche se lavoravo sodo e trovavo persino il tempo di scrivere romanzi.
Cosa c’era che non andava in me?
Capii di avere bisogno di aiuto. Le mie insicurezze dovevano avere radici profonde. Avevo sempre puntato sul cavallo sbagliato, ma non sapevo orientarmi per scovare quello giusto, non da sola.
Per questo ero seduta di fronte al dottor Marco Mortisio, Mortimer, o Morti, per me, e lo osservavo scettica.
Molto scettica.
Deglutii ed ebbi la conferma che non era stata una grande pensata andare lì. Facile per lui parlarmi così. Aveva idea di come ci si sentisse a vivere una vita nel modo in cui l’avevo vissuta io?
– Mi sta ascoltando? – domandò Morti.
– Certo, ma si metta nei miei panni…
– No no.
Appunto.
– Era per dire… insomma, vivo a Milano da quasi dieci anni. No, dico, dieci…
– Non sono meno?
– Be’, sette. È lo stesso. Comunque non ho conosciuto nessuno! Almeno, non qualcuno per cui valesse la pena di vivere! In questa città la gente non si ferma neanche quando ti investe, figuriamoci se lo fa per salutarti. E non dica che non è così perché ho le prove! Sono caduta dalla bici e mi sono rotta una caviglia. Non mi ha soccorso nessuno!
– Quella sera però giocava l’Italia.
– Che fa? Li difende?
– Sto cercando di spiegarle che c’è un altro modo di vedere lo stesso evento.
– Vado al cinema da sola, si rende conto?
– E non lo trova rilassante?
– Abbastanza, in effetti.
– Vede, Chiara, lei ha superato i quaranta e la parte più importante della sua vita l’ha già vissuta. Male, se vuole il mio parere.
– Lo so!
– E allora? Che ne vogliamo fare dell’altra metà? Perché dipende da lei, ne è consapevole, vero?
Alzai le spalle, desolata. Non ne avevo davvero idea.
– Dico solo che se mia madre mi avesse detto quello che la madre di Woody Allen diceva sempre a lui quando era piccolo, io adesso starei molto meglio.
– E sarebbe?
– «Se uno sconosciuto ti avvicina, ti offre le caramelle e ti invita a salire in macchina con lui, vacci!» – recitai orgogliosa!
– Chiara, se sua madre le avesse detto una cosa del genere e lei avesse obbedito, ora non starebbe qui, ma probabilmente in Arabia Saudita.
– Ci sarei stata magnificamente, secondo me. Voglio dire, avrei avuto bisogno di più libertà, più leggerezza! Una vita intera soffocata da questo senso del dovere… Andare bene a scuola, poi all’università, trovare subito un lavoro… Non ho mai disubbidito, non ho mai bigiato, non ho mai mentito dicendo che andavo a dormire da un’amica per andare invece a casa del fidanzato. Forse perché non ce l’avevo, un fidanzato, ma sono sottigliezze. Non ho mai fumato una canna, le pare normale???
– Nessuno le impedisce di farlo adesso.
– A quasi cinquant’anni? Non sarebbe ridicolo?
– Direi di sì. Il fatto è che non si è mai abbastanza felici, abbastanza soddisfatti. I nostri genitori non sono mai quelli che avremmo voluto…
– Esatto!
– Tutte scuse.
– Insomma…
– Ovvio che noi siamo il risultato dell’educazione sentimentale che abbiamo ricevuto quando eravamo bambini. Paure, insicurezze, carenze affettive o eccessivo amore hanno contribuito a formare le persone che siamo diventate oggi, nel bene e nel male. Ma si deve crescere, e farlo significa riuscire a travalicare i confini dell’educazione sentimentale. Il tempo corre, Chiara. La smetta di comportarsi come una liceale al primo appuntamento.
– Ma se sono anni che non ho un primo appuntamento!
– Se la invitassero a uscire, neanche se ne accorgerebbe, presa com’è a compiangersi.
– Lei è molto cattivo…
– Qualcuno deve pur esserlo.
E fu in quel momento che compresi che mi trovavo a un bivio, compresi che se fossi riuscita a cambiare il mio punto di vista, forse, la mia vita sarebbe potuta ricominciare.
Perché, in fondo, non è mai davvero finita, anche se temi che sia così. Si può sempre ripartire e guardare avanti, mai indietro, né restare fermi per paura di avanzare. Ma nessuno te lo dice. Almeno non con chiarezza.
Mortimer invece lo fece e io avanzai.
 
[da Volevo essere una vedova di Chiara Moscardelli, Einaudi, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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