Marco Balzano. Parole come zattere di salvezza

Luigi Oliveto

05/04/2018

La copertina dell’ultimo libro di Marco Balzano, “Resto qui”, mostra un’immagine tristemente nota: un campanile che emerge da una distesa d’acqua. E’ il lago di Resia (il più grande dell’Alto Adige) nato artificialmente nel 1950, quando con la costruzione di una diga, lo si unì ad altri due specchi d’acqua, il Curon e il San Valentino. Impresa (a giudizio di molti, folle e inutile) che significò sommergere totalmente l’antico centro abitato di Curon, compresa la chiesa trecentesca il cui campanile – per forza di leggenda e sentimenti – nelle rigide notti d’inverno farebbe sentire ancora il suono delle sue campane.
E‘ in questo luogo di confine, tra Sudtirolo e Svizzera, che si svolge la storia raccontata da Balzano: “In quelle valli di confine, la vita era scandita dai ritmi delle stagioni. Sembrava che quassù la storia non arrivasse. Era un’eco che si perdeva. La lingua era il tedesco, la religione quella cristiana, il lavoro quello nei campi e nelle stalle”.
Qui, nel 1923, la protagonista Trina si diploma maestra, sposa Erich Hauser, hanno due figli, Michael e Marica. La bambina, poco più che decenne, lascia la famiglia con la zia paterna (forse alla volta della Germania). Di lei, piccola e determinata, resta alla mamma solo una lettera in cui dice di non voler vivere in quel buco di mondo stretto tra le montagne; non avrà più notizie. Arriva la guerra, il nazismo. Erich diventa disertore, fugge in montagna insieme a Trina, mesi di fame e freddo. Finisce finalmente la guerra, ma con il ritorno della pace non ci sarà pace per gli abitanti di Curon. La Società Montecatini, nonostante le lotte dei residenti (giunsero a invocare anche l’intervento del papa) riprende il vecchio progetto di costruzione di una grande diga facendo sparire nell’acqua l’intero paese. Il dramma di una comunità (l’acqua non sommergerà solo pietre, ma una storia, ricordi, memorie comuni) per Trina va a sovramettersi all’intima pena che da sempre la tormenta, il pensiero della figlia. Dinanzi al sopruso, al dolore privato e condiviso, ella adopera la sola arma che possiede: le parole. Quelle parole che per una vita ha insegnato e attraverso cui può tentarsi di dire ciò che sembrerebbe indicibile.

<< Non sai niente di me, eppure sai tanto perché sei mia figlia. L’odore della pelle, il calore del fiato, i nervi tesi, te li ho dati io. Dunque ti parlerò come a chi mi ha visto dentro. Saprei descriverti nei minimi particolari. Anzi, certe mattine che la neve è alta e la casa è avvolta da un silenzio che mozza il respiro mi vengono in mente nuovi dettagli. Qualche settimana fa mi sono ricordata di un piccolo neo che avevi sulla spalla e che quando ti facevo il bagno nella tinozza mi indicavi sempre. Ti ossessionava. O quel boccolo dietro l’orecchio, l’unico in quei capelli color miele.
Le poche fotografie che conservo le tiro fuori con prudenza, col tempo si diventa di lacrima facile. E io odio piangere. Odio piangere perché è da idioti, e perché non mi consola. Mi fa solo sentire spossata, senza più voglia di mandare giù un boccone o di infilarmi la camicia da notte prima di andare a dormire. Invece bisogna curarsi, stringere i pugni anche quando la pelle delle mani si copre di macchie. Lottare a prescindere. Questo mi ha insegnato tuo padre.
In tutti questi anni mi sono sempre immaginata come una buona madre. Sicura, brillante, amichevole… aggettivi che non mi calzano proprio. In paese mi chiamano ancora signora maestra, ma mi salutano da lontano. Sanno che non sono un tipo affabile. A volte mi torna in mente il gioco che facevo fare ai bambini di prima elementare. “Disegnate l’animale che vi assomiglia di più”. Adesso disegnerei una tartaruga con la testa nel guscio.
Mi piace pensare che non sarei stata una madre invadente. Non ti avrei chiesto, come ha sempre fatto la mia, chi era questo o quell’altro, se gli davi retta o se ti ci volevi fidanzare. Ma forse è un’altra delle storie che mi racconto e se ti avessi avuta qui ti avrei tempestata di domande, guardandoti di sghimbescio a ogni risposta evasiva. Più passano gli anni e meno ci si sente migliori dei genitori. Se faccio paragoni adesso, poi, sono in netto svantaggio. Tua nonna era spigolosa e severa, aveva le idee chiare su tutto, distingueva facilmente il bianco dal nero e non si faceva problemi a tagliare con l’accetta. Io invece mi sono persa in un scala di grigi. Secondo lei era colpa dello studio. Considerava chiunque fosse istruito una persona inutilmente difficile. Uno scioperato, un saccente, uno che sta a spaccare il capello in quattro. Io invece credevo che il sapere più grande, specie per una donna, fossero le parole. Fatti, storie, fantasie, ciò che contava era averne fame e tenersele strette per quando la vita si complicava o si faceva spoglia. Credevo che mi potessero salvare, le parole. >>
 
[da Resto qui di Marco Balzano, Einaudi, 2018]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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