Cesare Rossi (1887-1967) tipografo e quindi giornalista, divenne, fra il 1905 ed il 1915, collaboratore di giornali socialisti e direttore della «Voce proletaria» di Piacenza; passò in seguito alla redazione del «Popolo d'Italia» (1915-1924), inizialmente specializzato, come egli stesso dichiara, nella «polemica antisocialneutralista». Capo dell'Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio dopo l'avvento al potere di Mussolini, si dimise a seguito del delitto Matteotti e redasse un memoriale (nel quale attribuiva al duce la responsabilità del misfatto), che circolò clandestinamente fino dal giugno 1924, prima di essere pubblicato da «Il Mondo» di Amendola il 27 dicembre. Fuggito in Francia nel '26, due anni più tardi cadde in un tranello tesogli dalla polizia fascista a Campione e, rimpatriato, fu condannato dal Tribunale Speciale a trent'anni di reclusione. Nel dopoguerra oltre a Mussolini com'era, rievocazione della vita politica di Mussolini dal 1909 al 1924 scritta in carcere («senza l'aiuto né di un libro, né di un giornale [...]. Sono stato assistito soltanto dalla mia memoria») e pubblicata nel 1947 (donde il brano che segue) ha dato alle stampe altri libri sul ventennio: Il tribunale speciale (1952), Il delitto Matteotti (1955) e Trentadue vicende mussoliniane (1958).
«... Se Giolitti torna al potere siamo f... Ricordati che a Fiume ha fatto cannnoneggiare d'Annunzio. Bisogna bruciare le tappe. Non la volevano capire quelli là... Ma ho puntato i piedi. Entro questo mese bisogna che tutti i preparativi siano ultimati». Così mi disse Mussolini, venuto nel mio ufficio della Segreteria politica del Fascio milanese dopo la riunione del Quadriumvirato tenutasi il 18 ottobre del 1922 nella sala del Direttorio. In questa sua concitata riflessione si riassumono tutti gli elementi indicatori della fragilità della situazione italiana in quei giorni ed il successo dell'abilissima tattica di Mussolini. La inconcludenza ed il bizantismo del regime parlamentare, la ignavia, spinta fino al suicidio, del Ministero Facta, la passività dei partiti proletari si congiunsero per spianare la via alle camicie nere. Una storia obbiettiva e documentaria della marcia su Roma non è stata ancora scritta, ma se qualcuno la tentasse, fissati i presupposti dell'insufficienza della classe politica dell'epoca e la latitanza dell'opposizione antifascista, ne risulterebbe che il successo mussoliniano fu un autentico terno al lotto.
I più stupiti della vincita furono i collaboratori ed i luogotenenti dell'audace e fortunato giocatore, i quali fino al pomeriggio inoltrato del 28 ottobre non pensavano affatto ad una soluzione totalitaria della crisi. Solo una persona ci pensava e lavorava per tale sbocco: Mussolini. Il fallimento dello sciopero generale cosiddetto «legalitario» dell'agosto precedente e la riuscita dell'occupazione fascista di Bolzano avevano convinto Mussolini che l'antifascismo aveva ormai avuto la sua Waterloo e che lo Stato liberale non aveva davvero l'animo disposto alla resistenza. «Quando uno Stato non sa più difendersi e non sa resistere non ha diritto di esistere» - ripeteva Mussolini in quei giorni. Per cui si può dedurre che se al posto del pavido Facta si fosse trovato un qualsiasi Presidente, magari appunto un Giolitti deciso al contrattacco, Mussolini non soltanto avrebbe retroceduto dalla sua azione, ma avrebbe finito in cuor suo per ammirare - come aveva fatto di fronte al «natale di sangue» fiumano - l'energico fautore della «ragione di Stato».
Mussolini non aveva ancora scoperto la frase di La Rochejaquelein, il capo vandeano - frase che poi tanti italiani hanno attribuito a lui: «Se avanzo seguitemi, se muoio vendicatemi, se retrocedo uccidetemi». Non avrebbe avanzato, non sarebbe morto e naturalmente nessuno avrebbe pensato ad ucciderlo. Come i veri fondatori del fascismo non furono quei sessanta poveri diavoli dei «sansepolcristi» - dalla mitica storiografia del regime trasformati più tardi in una specie di dodici apostoli laici moltiplicati per cinque - sibbene i socialneutralisti nostrani, cocciuti denigratori della guerra vittoriosa, cosi i responsabili del successo mussoliniano dell'ottobre 1922 vanno obbiettivamente ricercati fra gli uomini politici dell'Italia democratica e liberale, suicidi convinti e voluttuosi. Da questa responsabilità non vanno peraltro esenti i partiti di sinistra che nulla fecero per attraversare la strada alle camicie nere.
«E pensare - dice Mussolini qualche tempo dopo - che anche uno sciopero generale purchessia gettato fra le nostre gambe ci avrebbe assai entravés!». Il che in definitiva dimostra che la crisi italiana era giunta al suo apice e che a risolverla poteva bastare un qualsiasi uomo deciso che disponesse di un po' di seguito. I meno disposti a fare sul serio erano i quadriumviri, se se ne toglie forse Michele Bianchi, che si illudeva di essere riservato a grandi cose. Italo Balbo non disponeva nel 1922 di quella volontà autonoma ed energica che più tardi certi gruppi fascisti pare gli abbiano attribuito; allora era un tipo assetato di azione, ma senza precisi orizzonti politici. De Vecchi era stato sempre intimamente un po' frondista. Un giorno avrebbe perfino detto: «Se Mussolini vorrà fare il Cesare, ebbene io sarò il suo Bruto». Ma si tratta forse di chiacchiere, perché nel firmamento mussoliniano fu sempre uno degli astri maggiori e non risulta un suo qualsiasi atto di pubblico e preciso dissenso. De Bono aveva nel 1922 una sola aspirazione, la stessa perseguita fino alla fossa di Verona: diventare, con qualsiasi governo e, con qualsiasi partito, ministro della guerra. È questa l'ossessione che prende certi generali quando finiscono, magari per caso, nella politica. Il fascismo lo fece Capo della Polizia, Comandante generale della Milizia, Senatore, Ministro delle Colonie, Maresciallo, Collare dell'Annunziata, ma egli è morto con la voglia di «mettere a posto» il ministero di via XX Settembre. È l'unica voglia che Mussolini non ha voluto mai soddisfare. Egli soleva dire: «L'esercito non ama De Bono».
Per il Quadriumvirato ed i suoi aggregati minori (generali Fara, Ceccherini, Zamboni e lo squadrista Igliori), dunque, la Marcia su Roma altro non doveva essere, nel loro pensiero e proposito, che una delle solite mobilitazioni di camicie nere, questa volta più estesa e più preparata. Obbiettivo: la formazione di un governo in cui, insieme a Salandra, Orlando e Federzoni, si dovevano dare alcuni ministeri ai fascisti, e fra questi uno a Mussolini, magari senza portafoglio. Niente di più. Mussolini, invece, era più lungimirante e pretenzioso. Quando quel giorno a Milano - il 18 ottobre, in Via S. Marco - precisò i suoi obbiettivi De Bono e De Vecchi, che non avevano alcuna voglia d'imbarcarsi in imprese arrischiate, sollevarono una infinità di obbiezioni d'ordine pratico: «Le camicie nere, allora divise in prìncipi e triarii, erano all'inizio dell'inquadramento; mancavano comandanti forniti di qualche qualità militare; zero, l'equipaggiamento; inadeguato fino al ridicolo l'armamento; di là da venire il finanziamento. Era perciò indispensabile un rinvio di varie settimane». Mussolini, fornito di un fiuto politico che gli doveva venir meno solo il 24 luglio 1943, ma che allora faceva assolutamente difetto agli altri, respinse ogni indugio prospettando i pericoli che un cambiamento del governo avrebbe determinato. Finì così per ottenere, sia pure controvoglia, il consenso dei due dissidenti.
Quando, come ho detto prima, finita la riunione del Quadriumvirato ed appendici annesse, egli entrò nel mio ufficio era furente a causa di queste tergiversazioni e delle resistenze che aveva dovuto superare. Fece allontanare la mia dattilografa, eppoi, camminando tutt'agitato per la stanza andava ripetendo: «Mancano i bottoni alle uose... Capisci?!». Io, che da molti anni avevo dimenticato questo linguaggio di caserma, non capivo affatto. Ed alla mia muta interrogazione di maggiori lumi: «Ma sì, credono di dover organizzare una parata di onore. Dicono che non sono pronte le divise, ecco. E non capiscono che se passa questo momento favorevole è finita per noi». E qui la frase su Giolitti già riprodotta. L'Adunata dei Fasci di tutta Italia che si svolse il 24 ottobre a Napoli con il discreto concorso di quelli della Sicilia e del Mezzogiorno, passò attraverso un'atmosfera di vibrante consenso popolare. Solo una città come Napoli, i cui abitanti sono dotati di un temperamento così esuberante e comunicativo, poteva riservare tale accoglienza sempre a disposizione di chi ecciti, con le pittoresche pompe esteriori, la sua accesa fantasia.
Questo indiscutibile entusiasmo dei napoletani tonificò lo stato maggiore del fascismo colà convenuto e ringalluzzì i Quadriumviri, compresi De Vecchi e De Bono. I quali finirono per improvvisare, in una riunione notturna all'Hotel Vésuve, un piano di operazioni per l'imminente Marcia su Roma. A Perugia fu fissata la sede del Quadriumvirato e furono pure fissati i luoghi di concentramento: Tivoli, Civitavecchia, Monterotondo, Foligno e Qualiano (Napoli). Furono scelti anche i comandanti di colonna. Poche ore prima in Piazza Plebiscito, stipata di fascisti bardati nelle foggie più strane - c'erano anche varie decine di squadristi pugliesi a cavallo - Mussolini, che sulla camicia nera portava a tracolla una larga sciarpa gialla e rossa dai colori di Roma, aveva detto in un'arringa ardentissima: «... prenderemo per la gola la vecchia classe politica italiana» e la folla a gran voce aveva scandito: «A Roma! A Roma!».
AA.VV., “Dossier Mussolini”, Le Lettere, 2019, pp. 110 – 114
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