04/11/2010
Le architetture hanno un destino poco tranquillo, e quelle del Novecento in modo particolare. Agli occhi dei più non hanno assunto la dignità che, bene o male, viene attribuita a quelle più famose del passato, fino, tanto per fissare un termine, all’età neoclassica. Sono esposte agli interventi di restauro o manutentivi più disinvolti, e non di rado con la scusa di recuperi o ristrutturazioni funzionali sono disinvoltamente stravolte. Del resto chi e quando ha insegnato a guardare un’architettura con un minimo di consapevolezza grammaticale e tecnica? Chi e quando ne ha spiegato le dinamiche strutturali e gli elementi stilistici? Così i giudizi più disparati finiscono per avere eguali diritti di cittadinanza e un canone plausibile e condiviso resta in buona misura impossibile. La mostra aperta al Santa Maria della Scala su “Architetti nelle terre di Siena. La prima metà del Novecento” propone un viaggio che aiuta finalmente ad acquisire informazioni di base e invita a soffermarsi su alcune opere tipiche del primo cinquantennio del XX secolo e ritenute qualitativamente rilevanti. Ogni scelta antologica è discutibile e non sono certo mancati dissensi o distinguo. Ma si deve riconoscere all’iniziativa della Fondazione Musei Senesi e al curatore di mostra e catalogo, Luca Quattrocchi, il merito incontrovertibile di aver impostato con rigore e avviato con sistematicità un lavoro di analisi degno della massima attenzione, anche da parte di chi non è del mestiere: sono occorsi tre anni per la preparazione, sono stati impegnati 30 studiosi, 50 le opere studiate, 23 gli autori dei quali si offre un dettagliato profilo biografico: tra i quali, oltre a quelli più avanti menzionati Enzo Cesarini, Guido Dringoli, Bettino Marchetti, Vittorio Mariani, Fulvio Rocchigiani, Agenore Socini e altri non meno importanti. Per apprezzare i risultati conviene, come capita per mostre di questo genere, esaminare a dovere il bel catalogo Silvana. Anche un tempo di visita abbastanza lungo rende difficoltoso scrutare con agio disegni o immagini e tentar di capire uno per uno elaborati che si succedono in affollata sequenza.
La partizione in cinque grandi capitoli ordina la materia in termini di didattica chiarezza, ma lascia molti vuoti e suscita qualche interrogativo. Ad esempio la formazione in architettura quale emerge dall’insegnamento dell’Istituto d’arte o dai benemeriti alunnati della Società di esecutori di Pie Disposizioni è un discorso a sé, che ha un riflesso molto labile nell’architettura praticata. Così come lo spazio accordato a Virgilio Marchi e alle sue ingegnose scenografie, pensate con fantasia e coerenza per l’allestimento – dal 1933 al 1939 – di quattro edizioni della Mostra mercato dei vini tipici, potrebbe costituire il nucleo di una monografia autonoma, da sviluppare e approfondire.
Quanto all’architettura reale i molti contributi in catalogo investono di nuova luce edifici e monumenti, case e ville che, magari, abbiamo visto centinaia di volte con distratta superficialità e d’ora in avanti saremo in grado di apprezzare con qualche consapevolezza. Nell’insieme è più che confermato un atteggiamento ostile se non sospettoso verso la modernità. Le soluzioni eclettiche son tenute a freno. Un sapore di prudente tradizionalismo o un accorto neomedievalismo si avvertono anche quando l’architetto deve collocare un suo edificio fuori dal contesto storico. Si pensi alle villette che sorgono a San Prospero e alla tipologia prediletta, a due piani, con la torretta angolare in bella vista, e balconi e decorazioni che conferiscono un’eleganza per così dire in costume. Villa Buccianti, forse del prolifico Egisto Bellini, portata a termine nel 1923, è un vero e proprio paradigma: la finestra tripartita allude ad un trifora, il grande arco a tutto sesto è di ascendenza romanica, i fregi delle facciate riprendono elementi quattrocenteschi. Il nuovo per farsi accettare doveva parlare la lingua del passato. “Le maestranze e gli architetti senesi – va giù dura Felicia Rotundo – non riescono a varcare i confini del provincialismo e restano fermamente subordinati a una committenza per lo più conservatrice e legata alle tradizioni locali”
L’episodio di Salicotto è sintomatico della rilettura che si fa del Medioevo. Si punta, osserva Fabio Gabbrielli, su “una libera mescolanza di forme prenovesche e quattrocentesche”, scartando del tutto la sintassi della pur mitizzata Età dell’oro. Secondo Gustavo Giovannoni il quartiere fu rinnovato ispirandosi al “sano concetto dell’ambientamento”: dove “ambientamento” sta per rapporto fantasiosamente analogico con l’eredità storica. Non diversa era la cultura che alimentava l’artificioso e distruttivo piano regolatore predisposto dal podestà Fabio Bargagli Petrucci nel ’31-’32 e per fortuna accantonato.
Più che ad una dimensione urbanistica le schede e i profili in catalogo attengono a singole architetture e lumeggiano l’attività di professionisti davvero egemoni. Spicca tra tutti la personalità di Armando Sabatini, al quale si devono molte realizzazioni tra le più audaci: a Siena ma anche a Rapolano, a Gaiole, ad Asciano. Dove la Casa del Fascio (1935-38) fonde in una clamorosa monumentalità l’uso di materiali locali e l’enfasi simbolica di una torre littoria che gareggia in altezza col campanile della vicina Sant’Agata. Se, in coincidenza con la crisi economica, “il fascismo sviluppò maggiormente – ha osservato Emilio Gentile in “Fascismo di pietra” – la funzione modernista del mito romano”, non per questo il regime impedì di reinterpretare moduli e temi delle tradizioni locali, talvolta giovandosi di autori di sicuro prestigio già affermatisi sul piano nazionale. La stazione ferroviaria inaugurata il 25 novembre 1935 è secondo Quattrocchi “l’architettura più significativa in area senese di tutto il XX secolo”. Come tale avrebbe meritato più rispetto, bombardamenti a parte. Torna la riflessione che si abbozzava sul destino ingrato dell’architettura. Oggi non è più percepibile la geometria spaziale che Angiolo Mazzoni, appoggiandosi anche all’intelligente collaborazione di Sabatini, stabilì: il rapporto dei quattro corpi con la piazza antistante era necessario e calcolatissimo. Il gioco cromatico dei materiali impiegati si è quasi completamente dissolto. La metafisica torre di luce è sopravvissuta, ma abbuiata goffamente. Le foto in mostra, provenienti dall’Archivio Mazzoni e ristampate ottimamente per l’occasione da Federico Pacini – al quale si devono anche magistrali scatti di rara pertinenza – consentono di immaginare l’opera per come appariva all’origine. Meglio non ripetere le amare riflessioni che vengono in mente. Non si deve credere che il progetto avesse da subito le forme che poi furono concretizzate. La committenza fu esigente: le discussioni si protrassero a lungo. Solo il terzo progetto (con due grosse varianti) fu ritenuto valido. Mazzoni aveva disegnato perfino le opere di giardinaggio e enumerato una per una le piante da utilizzare. Quando si dice un progetto! Eppure, solida e squadrata, snodata nelle sue varie parti come una macchina in perfetto equilibrio, la stazione che il ministro Benni proclamò “degna del fulgido passato e del sicuro avvenire della città della Lupa” ha avuto una sorte non dissimile da quella delle effimere apparecchiature da set cinematografico con le quali Marchi mutava la severa Fortezza in luogo di mondano svago, tra un brindisi e l’altro.
Articolo pubblicato su Il Corriere di Siena del 4 novembre 2010 (pag. 6)
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