“Le rovine dei terremoti somigliano a quelle delle guerre”.
“Le rovine sono rovine. E poi non lo sa che la natura ce l’ha con noi?”.
Sladjo si voltò. Credeva di essere solo. Doveva toglierselo quel vizio di pensare a voce alta. L’uomo si avvicinò e gli tese la mano.
“Piacere, Giovanni. È qui per la ricostruzione?”.
L’uomo fece un ultimo tiro, spense la sigaretta contro un pilastro di cemento rimasto in piedi ma non la buttò a terra. La passò nella mano sinistra e rispose al saluto. Portava a tracolla un borsone di tela blu che faceva rumore di ferraglia.
“Non so”, rispose, “in qualche modo, si”.
Due occhi azzurro intenso disegnati come se avessero attorno una linea di matita lo studiarono.
“C’è ancora parecchio da fare, qui. Il problema è che Campotosto è un paese quasi tutto di seconde case. I romani ci vengono d’estate, quando giù l’asfalto diventa appiccicoso. Ci venivano, anzi. C’è l’aria del lago e poi da Roma non ci si mette tanto”.
L’uomo incrociò le braccia. La camicia di lino era un po’ consumata ma pulita e in ordine. I pantaloni da lavoro pieni di polvere. Non portava un cappello anche se il sole a quell’ora non era piacevole.
“Lei non è di Roma?”, chiese Sladjo, che aveva riconosciuto l’inflessione dell’uomo. Giovanni sorrise. Era difficile, evidentemente, camuffare la cadenza pigra e disillusa del romano, anche se si usavano parole e sintassi perfettamente italiane.
“Venga, le offro un caffè”.
Sedettero su due panche, una di plastica e una di legno, nel bar arrangiato, sotto a un ombrellone di tela gialla che faceva pensare al mare degli anni sessanta più che alle montagne che li circondavano silenziose. Una piccola tendopoli di prefabbricati era da qualche anno la piazza. Un paio di bandiere al vento. Due alimentari, per i panini, la frutta e prodotti del posto più o meno autentici, a seconda della confezione: quelli che erano abituati a vendere agli escursionisti.
“A quest’ora veramente sarebbe meglio un panino e una birra. Li conosce i coglioni di mulo?”.
L’uomo scosse la testa sollevando un sopracciglio.
“No, non pensi male, niente di strano. È una specie di salame: lo chiamano così per la forma. In effetti sembra un sacchetto di pelle spiegazzata. C’è dentro, in mezzo, un pezzo di lardo. È buono. Un po’ grasso forse per chi fa ormai una vita da scrivania come me. Ma lei è giovane” Doveva avere poco più di una trentina d’anni. Lo guardò, sperando che gli raccontasse qualcosa. Si trovava bene coi suoi libri ma da qualche giorno si annoiava perché gli ex colleghi, dopo il terremoto, non erano più saliti. Aveva voglia di parlare.
“Un caffè va benissimo”, disse, “devo fare alcune cose e poi rimettermi in macchina”.
“È con qualche ditta per la ricostruzione?”.
“No. Faccio l’architetto per uno studio a Roma. Ma in realtà oggi non sono qui per lavoro”.
Fece un cenno verso la grande casa quadrata che era rimasta isolata, su una collinetta di macerie.
“Era sua?”.
Sladjo scosse la testa. Un ragazzo, poco più di un bambino, con un grembiule bianco che arrivava sotto alle ginocchia, si era accostato e aveva preso le ordinazioni. Si spicciò perché la madre lo chiamava dal bancone dove erano appoggiati due vassoi pronti per gli altri tavoli.
Mia sorella è venuta qui a fare una camminata in montagna con un gruppo di amici, tanti anni fa, e ha visto che quella la vendevano. Ha fatto di tutto per comprarla, perché le ricordava casa di nostra madre vicino a Blagaj.
“Dove?”.
“In Bosnia. Era in un posto in mezzo alla campagna non lontano da Blagaj. Ma io penso che le piacesse anche guardare il lago laggiù. Magari era quello che le ricordava il fiume e la sorgente”.
Le nuvole proiettavano ombre alla base della montagna. La parte di sopra però continuava a riflettere la luce.
“Da quando siete qui?”.
“Dalla fine del 1992. Abitavamo a Mostar, coi nostri genitori. Sembra una vita fa. Forse è una vita fa”.
“Mi ricordo le cronache. Quando hanno minato il ponte”.
“Lo Stari Most”.
Una nuvola velò per qualche istante il sole. Sladjo guardò verso le montagne. Il ragazzo appoggiò sul tavolo i caffè e un piattino con quattro ciambelline al vino pallide e irregolari. Giovanni versò mezza bustina di zucchero nel caffè.
“All’inizio ero addolorato. E impaurito. Non riuscivo a pensare che non avrei più avuto attorno mio padre e mia madre, che erano morti veramente. Poi è venuta la rabbia. Avrei voluto poter sparare in faccia a quegli assassini. Ma non ai cecchini. Ai padroni dei cecchini. A quelli che giocano con la vita degli altri. Stati Uniti, Italia. Perché lasciarci in un bagno di sangue? Poi dopo ci mandano i patroni per la ricostruzione, quelli che ci insegnano il restauro e ci scrivono le linee guida per la conservazione del patrimonio architettonico. Dopo aver lasciato che lo bombardassero”.
Pensò al ponte che aveva rivisto solo nei servizi alla tv. Una copia tutta nuova. Una copia ipocrita. Gli venne improvvisamente voglia di baklava. Gli era tornato alla mente, quel sapore di miele fresco e nocciole, assieme all’odore della polvere e del metallo di quando erano scappati. Spezzò una ciambellina e ne mangiò un frammento.
“Le guerre seguono logiche loro. Se ne sbattono della buona architettura. Se ne sbattono della storia. E poi che avete fatto?”.
“Poi ho conosciuto Emilio, che stava con un gruppo di medici italiani. Quando i miei sono stati portati in ospedale l’ho visto al pronto soccorso che armeggiava con fili e guanti in mezzo a una pozza di sangue per salvare una bambina. La bambina è morta. Lui è sparito. Sono uscito per far prendere aria a mia sorella e l’ho visto in un angolo, nell’intercapedine tra due pareti alte, dove stavano le caldaie e le prese d’aria dell’ospedale. Stava appoggiato a un muro e piangeva. Piangeva come se fosse la figlia. Mi sa che non aveva ancora tanta esperienza come medico”.
Accese una sigaretta e fece un tiro, guardando la casa smezzata all’orizzonte.
“È lui che ci ha portati qua. Non so ancora bene come c’è riuscito ma lo ha fatto. Io avevo diciassette anni e lei venti”.
“Anche sua sorella è venuta a vivere a Roma?”.
Scosse la testa. “Ana abitava a L’Aquila”.
Giovanni si morse l’interno della guancia.
“Deve scusarmi. Questo modo di chiedere cose può dare fastidio. È un mio difetto. Mi viene voglia di scoprire, di sapere cose che sono difficili da scoprire e da raccontare. Penso che per quello ho scelto di fare l’archeologo quando ero giovane. Avevo la ricerca del detective ma non l’assillo del dover mettere in galera un colpevole. E adesso che sono in pensione mi manca la terra. Posso stare tante ore in archivio, e lo faccio. Ma l’odore della terra. Lo sporco della terra. Sentirsi sfiancati la sera, al tramonto, anche solo per il gusto di farsi una doccia. Veder venire fuori le cose. E imbastirci sopra un racconto, perché, alla fine, molte sono congetture, prove o non prove”.
“Viene con me a vedere?”, Giovanni sorrise.
Sladjo prese il portafogli, ma Giovanni lo fermò con un cenno e lasciò cinque euro sul tavolo salutando da lontano i gestori.
“Quindi viene da Mostar… aspetti, le mostro una cosa buffa. Venga, tanto è qua dietro”.
Lo portò nella direzione opposta a quella della casa di Ana e si infilò in un vicolo. Si vedevano puntelli di legno. I puntelli salivano lungo la facciata e si piegavano a sostenere il balcone di un caseggiato degli anni venti del Novecento ingabbiandolo in un telaio di legno che ne trasformava la percezione. Da diverse angolazioni quella puntellatura trasformava una casa abruzzese in una casa ottomana. Sladjo si mise a ridere.
“Assurdo no? Uno fa una puntellatura contro il crollo e una casa abruzzese, un blocco parallelepipedo con un balconcino appena accennato, diventa una casa tradizionale balcanica”.
Sladjo incrociò le braccia. “È stato all’est?”.
“Solo in Turchia. Quando viaggiavo ancora con mia moglie. Ma so che da voi la tradizione costruttiva è simile”.
Sladjo si fermò a guardare un altro edificio, più grande, all’angolo della via principale, con un porticato a grandi arcate. Doveva avere una sua dignità, in origine. Si chiese se avesse abbastanza tempo per avvicinarsi e guardare meglio la pietra, un calcare marnoso con una sfumatura nocciola. Ora, a parte le lesioni a “x” portate dalle scosse forti, mostrava i segni di un riuso a ribasso, indifferente a qualunque forma di coerenza e di armonia: intonaco di cattiva qualità, rinzaffi di cemento tra le pietre, tirate fuori senza motivo nella parte bassa, le solette di cemento dei balconcini e infissi che il porticato non riusciva a nascondere – se fosse stato più profondo almeno li avrebbe accolti in un’ombra pietosa- messi forse negli anni Settanta, probabilmente al posto dei grandi portoni in legno da rimessa che proteggevano gli ambienti al piano terra. Si accarezzò la barba di un giorno.
“Secondo lei ha fatto più danni il terremoto o l’alluminio anodizzato?”.
“Touché”, rispose Giovanni ridendo.
Ripresero a camminare lungo il marciapiedi, diretti verso la casa di Ana. Passarono di nuovo davanti alla piazza provvisoria. Sladjo si mise a guardare la parete massiccia di un edificio in pietra di fattura nuova, rimasta in piedi assieme alla scala. Solo un pezzo di facciata con la scala. Il resto era raso a terra. Da lì, almeno, le macerie le avevano tolte.
“Non era una casa, era un hotel. Bello nuovo, sistemato da poco. Guardi là. Graniti”. Indicò una sala di cui restava intatto il pavimento. Un rivestimento diverso saliva lungo le pareti, mozzate a cinquanta centimetri dal piano di calpestio.
“Aspetti, ce ne ho un altro, di confronto interessante”.
Si mise a cercare sul telefono. “Spero di non averla cancellata. Ecco”. Gli mostrò lo schermo. C’era un buco, in mezzo a palazzi nuovi, di cemento. Cinque o sei piani. E nel buco muri rasati, pile di mattoni. Un apparente disordine.
“Cos’è?”.
“Aspetti”.
Allargò la foto coi polpastrelli. “È Beirut, ma non un posto bombardato e neanche crollato per il terremoto. Sono le terme romane. Guardi questa parete…”. Indicò i resti di un muro alto meno di un metro da terra. Un rivestimento in marmo chiaro venato correva su pavimento e parete.
“Non è il risultato di una guerra, è uno scavo archeologico. Ce ne sono tanti, così, dappertutto: il pavimento resta intatto, magari spaccato, ma è tutto là, perché il crollo lo ricopre e andarsi a prendere i materiali per riusarli e difficile e faticoso. Allora chi viene dopo che il posto è stato abbandonato stacca fino dove può staccare, se restano in piedi le pareti, oppure cerca in superficie. Invece quando si fa uno scavo archeologico succede come qua: arriva qualcuno con un camion e la pala meccanica e tira su le macerie, e lo scavo rimane vuoto. Di crolli e di persone”.
Sladjo si mise a ridere.
“Non mi fraintenda: ovviamente la tecnica è diversa, nello scavo si va più lenti per ricostruire la storia del posto, strato per strato, senza le pale meccaniche. Qui il terremoto c’è stato appena adesso, sono due anni, e non c’è molta storia da ricostruire. E per fortuna in questo caso neanche gente da tirare fuori. Però stanno tardando a intervenire. I ragazzini si sono abituati a giocare in mezzo alle macerie. Per loro è normale come fare i castelli di sabbia in riva al mare”.
“Che strano. Anche il Libano è un posto dove convivevano diverse genti con diverse religioni. E anche là a loro è venuto facile innescare una guerra”, disse Sladjo, quasi a sé stesso.
“C’è da ricostruire le case”, aggiunse ad alta voce, come a dare a sé stesso una spinta verso l’ottimismo. Poi gli venne in mente che anche la ricostruzione era un business.
“Beh, in qualche caso a dire la verità è successo che le bombe tirassero fuori i resti antichi. Come a Palestrina. C’è stato?”.
“No. Mi piacerebbe”.
“Le bombe hanno distrutto le case moderne e sotto sono venuti fuori i resti del santuario. Uno dei più importanti dell’antichità”.
“Sì, il Santuario della Fortuna. Questo lo so”.
“A quel punto hanno deciso di non ricostruire”.
Guardarono da lontano la casa, alta sul suo mucchio di macerie, pareva un piccolo castello su una collina. Dietro la montagna, coperta di boschi e ombre.
“Qui però non sono venuti fuori santuari”.
Girarono a destra, dopo il bar. Scesero lungo una stradina fino alla via parallela. Da là in giù la via ricoperta da un asfalto svogliato che si sfaldava in buche diventava un viottolo di campagna coperto di ciottoli calcarei e bordato da campi incolti. In fondo alla stradina c’era il lago. La luce calda faceva i verdi più verdi e l’azzurro denso contro le montagne sovrapposte all’infinito nella prospettiva aerea perfetta di un quadro quattrocentesco senza protagonisti. Si fermarono di fronte al cancello. Era in piedi, tra due colonnette di tufelli. A fianco c’era una finestra col telaio reso sbilenco dal peso. Dietro al vetro crepato e spaccato nel mezzo c’erano pezzi di pareti e solai, le frattaglie, le budella dell’edificio, assieme alle membra scomposte del crollo.
“Mi sa tanto che la chiave non serve”, disse Sladjo.
Giovanni scosse la testa. “Non è facile avere attorno queste cose. Però alla fine uno rimane ipnotizzato”. Fissò il quadro elettrico, intatto, appoggiato su pietre e pezzi di pavimento. Su uno di quei pezzi si leggevano gli strati: l’allettamento di cemento, le vecchie piastrelle, poi uno strato di colla recente e un parquet di quelli economici fatti da tanti listelli incollati assieme.
“Pensa di poterla rimettere su?”. Silenzio.
“Tutto, si può rimettere su. Sono ancora vivo, no? L’unica cosa…”.
“L’unica cosa?”.
“Non so se sarà già a posto per quando mia sorella uscirà dall’ospedale. Mi piacerebbe farle una sorpresa. Ma ci vuole tempo. E soldi”. Giovanni rise.
“Se ha bisogno di un operaio per scavare via queste macerie non faccia complimenti: mi fa piacere darle una mano. Così faccio un po’ di movimento”.
“Le hanno dovuto ingessare tutte e due le gambe dopo il terremoto a l’Aquila. Però poi qualcosa è andato storto e adesso l’hanno dovuta operare di nuovo per sistemare un pezzo che si era saldato male. Ana non era contenta, di rientrare in ospedale. E ancora meno di dover stare di nuovo immobile. Sono felice che non sia mai venuta a vedere questo posto né dopo il 2009 né dopo il 2017. L’Aquila era già abbastanza”.
Camminarono per qualche metro senza parlare. Sladjo prese il pacchetto e offrì una sigaretta a Giovanni che la rifiutò. Si fermò ad accenderla e rimise il pacchetto nella tasca della camicia. Giovanni pensò alle cronache sulla guerra in Bosnia Tanti anni fa. Una vita fa. Cecchini appostati sui tetti. Macerie.
“I terremoti, il tempo. Non sono già abbastanza? Perché pure la guerra?”.
“Perché ci hanno progettati male”, rispose Sladjo, guardando il cielo in mezzo a due pareti in rovina dove era rimasta sospesa una nuvola bianca come un pezzo di cotone idrofilo. Guardò verso il mucchio di macerie della casa. I tondini stavano nudi, sospesi nell’aria come bastoncini di liquirizia. Qualcuno penzolava in basso, frammenti di forati attaccati a distanza, come perline di una gigantesca collana. Giovanni pensò a certe opere di Kounellis.
“Mi sa che qui non c’è rimasto più niente”, disse Sladjo.
“A volte le cose non sono quelle che sembrano”, rispose Giovanni, alzando le spalle. Si arrampicò sulle macerie, nella parte in cui il muro era più basso, si chinò a raccogliere. Gli tese una cornice col vetro spaccato e dentro una fotografia con due bambini davanti al ponte di Mostar.
Appendice - Lo Stari Most, ponte che attraversa la Neretva e che dà il nome alla città di Mostar nell’attuale Bosnia, era stato costruito a metà Cinquecento per volere di Solimano I. Simbolo della città e della convivenza pacifica di culture diverse fu fatto saltare nel 1993 durante il corso della guerra della Bosnia-Erzegovina. La ricostruzione, finanziata dall’UNESCO, ha restituito alla città un simbolo ma non il vero monumento. Campotosto (AQ) sorge presso il lago artificiale omonimo. L’area è attraversata dalla faglia di Gorzano. Ad oggi non sono stati avviati lavori di ricostruzione dopo il sisma del 2017 che ha raso al suolo gran parte del paese.
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