Lorenzo Marone, storia di una donna (non più) in fuga

Luigi Oliveto

26/11/2020

“Sono stata donna in fuga. In me c’era l’inquietudine della partenza, la vulnerabilità del sopravvissuto, camminavo con il passo spezzato. Mi costruivo le ritirate che non ho preso, ho accettato gli allontanamenti che non ho scelto, ho accolto chi è entrato nella mia vita per evadere dalla sua, sono stata fuggiasca e non vincitrice, rincorsa ma perdente. Ora inseguo l’amor proprio, coltivo il piccolo ambizioso progetto di non restare dove non c’è amore.” Questo confida la protagonista dell’ultimo romanzo di Lorenzo Marone, “La donna degli alberi” (Feltrinelli). E’ una donna sola, per niente in pace con sé stessa, ancora meno con gli altri. Decide dunque di lasciare la città degli individualismi, delle finte irrinunciabili necessità, delle alienanti frette, dello smog e della plastica per rifugiarsi sul Monte, nella baita di quando era bambina. Lassù dovrà misurarsi con una solitudine che non concede alibi, confrontarsi con paure reali come reale è il freddo da cui difendersi. Si tratta di attraversare un inverno vero e metaforico, ritrovare in un tempo sospeso il senso di sé anche in rapporto al mondo. E tutto ciò seguendo le cadenze della natura, che sa essere aspra e dolce, intransigente e benevola, umile e stupefacente. Il paese è a mezz’ora di cammino, poche le persone che se ne stanno in quel defilato universo e che, a loro modo, hanno trovato un modo (talvolta una ragione) di vita: lo Straniero dal giaccone rosso, che restaura un rifugio e pianta alberi per proteggere la montagna; la Guaritrice sordomuta che fa nascere i bambini e sa ascoltare la lingua delle piante; la locandiera detta la Rossa che non le fa mancare cibo e simpatia; la premurosa Benefattrice che sa darle attenzioni. Verrà dunque l’inverno, e con i ritmi pazienti delle stagioni anche il disgelo, i bucaneve, le prime fioriture. E poi un altro inverno, ancora più freddo in corpo e anima. Ma la donna fragile ora è corroborata, non più in fuga, non più perdente. E’ lei, adesso, che con ostinato fervore prende a piantare alberi, tanto da essere soprannominata, a sua insaputa, “la donna degli alberi”. Si riprende così la sua vita, in modalità nuova: “Lascio la mia vita, per costruire un nuovo pezzetto di terra da abitare, da seminare e far fiorire. Imparo a stare, senza rimpianti, senza voler essere continuamente altrove. Questo è il mio onesto patto da onorare. Il mio piccolo contributo.” E la sua partenza non sarà più una fuga. In questa bella metafora che Marone allestisce con intensi toni lirici, risiede una persuasiva (certo, non facile) lezione su quanto sia vitale riuscire ad essere sé stessi; che poi è la maniera migliore per sentirsi finalmente nel giusto della vita.
 
***
 
Il freddo mi ha preso le mani. Chiudo i pugni e cerco il sangue che riscaldi le falangi, porto le dita alla bocca, l’alito caldo mi dà sollievo. L’inverno è a un passo e io non sono preparata. Dal vetro sporco del soggiorno entra un flebile sole che non riscalda. La baita scricchiola, mi vede ostile, io che manco da troppo. Nel mio rifugio di bambina mi sento rifugiata, stanotte l’ho trascorsa accanto al camino, non avevo la forza di fare il letto, e le lenzuola erano bagnate per l’umidità. Nel mutismo delle prime ore dopo l’assestamento ci siamo ritrovate, la casa ha ricominciato a parlarmi, mi fa compagnia con i suoi piccoli lamenti, sussurri di vecchiaia. Il gocciolio del rubinetto in bagno riempie il tempo e lo spazio con un ritmo cadenzato che la notte toglie i pensieri dalla testa. Il cellulare prende male, ma tanto non ho chi chiamare. Sul display comparivano due sms pubblicitari, l’ho spento e l’ho lasciato nel cassetto del comodino.
Sono arrivata ieri, verso l’ora di pranzo, con me avevo uno zaino con due maglioni pesanti, due pantaloni, un paio di jeans, due calzamaglie, biancheria intima, un pigiama di flanella, scarponi, un cappello e un girocollo, poco altro. Ricordavo che nel comò della camera da letto dovevano esserci ancora i vecchi pullover di papà, la sua attrezzatura da montagna. Ho trovato calzettoni robusti, alcune maglie, cose così. Ho aperto i cassetti e l’aria si è fatta acida di naftalina, ha preso l’odore delle cose vecchie. In verità di palline fra gli abiti non ce n’erano, è il legno che in questi anni si è tenuto addosso gli odori non suoi, così che fra i maglioni non ho sentito il profumo di papà, anche inspirando a lungo. C’erano poi dei vecchi guanti da sci e un berretto con i paraorecchie, che immagino torneranno utili.
L’odore di papà proveniva invece dal caminetto di pietra annerito. Mi muovevo nella stanza come il cane che annusa le tracce, sul fondo del posacenere c’era un mucchietto di polvere scura, il residuo di una pipa fumata e svuotata chissà quanto tempo fa, con i soliti gesti che ho provato ad abbozzare con uno schizzo su queste prime pagine di diario. Accanto al camino c’è la sedia a dondolo che papà costruì con non poca fatica in un’estate piovigginosa, e sulla seduta un cuscino di lana fatto da mamma, e che adesso sa di muffa.
Attorno a me il fitto bosco, so di lui ogni sfumatura, mi avvolgono gli abeti e gli aceri, i faggi e i pioppi che ho imparato a contare da bambina, vagando curiosa fra i sentieri fangosi di inizio primavera che mi sporcavano le caviglie, il fogliame umido che portavo in casa, incollato alle scarpe. Le rocce amiche mi segnano il cammino, nel caso desiderassi allontanarmi dalla baita, un picchio cerca il verme sulla corteccia di un larice vicino, e si incaponisce, uno scoiattolo qualche ramo più su sfrega le zampe sul muso e corre via. Dentro la finestra il Monte che mi è caro, la vetta avvolta da un cumulo di nebbia lascia solo ipotesi.
Il paese è a mezz’ora di cammino. Sono sola, sola davvero, finalmente.
Non chiedo che di essere dimenticata.
Stamattina ho preso presto la via del bosco, un tremolio autunnale di diverse tonalità mi faceva da cielo, sento il bisogno di perdermi fra i grovigli di rami, cerco la fatica dello sforzo fisico, contrappongo ai piccoli e fastidiosi pensieri la potenza del fiato spezzato. Mi sono arrampicata sul pendio di fronte a casa, l’aria ancora umida della notte nelle narici e lo scricchiolio degli aghi sotto gli scarponi, volevo la cima per osservare la Valle, che fuligginosa sonnecchiava al riparo dei monti di sempre. La foresta intontita rumoreggiava al mio passaggio, il terreno era un tappeto di pigne rosse. Indosso avevo solo una felpa, e mi è sembrato poco.
A metà della salita c’era un albero caduto, un maestoso faggio con il legno fradicio ancora vivo, la corteccia era priva di muffa, licheni, o muschio. Rovinando aveva schiacciato sotto di sé due giovani abeti. Ho trovato riposo sulla base dell’albero spezzato, piccole folate di vento spostavano il fogliame mostrandomi sprazzi di cielo, un mosaico di ocra e azzurro. Il tronco portava dentro di sé i suoi passaggi d’età, tanti anelli partivano dal centro e si propagavano regolari verso l’esterno, come il sasso che rompe la stabilità del lago. Ogni anello è un anno di vita della pianta, racconta come questa ha vissuto, quali eventi ha dovuto superare. Mio padre mi spiegava che gli anelli più larghi indicano annate prospere, con piogge abbondanti e climi temperati, quelli più stretti sono invece gli anni difficili, nei quali l’albero ha dovuto resistere. Nel tronco che avevo davanti erano più gli anelli stretti che quelli larghi, il faggio non deve aver avuto una vita facile, e la sua prematura scomparsa mi ha ricordato il ruolo che la fortuna gioca nelle esistenze.
Gli anni lasciano tracce anche dentro di noi. Il primo fiato che ci dà forma e sostanza è nascosto sotto spessi strati di vita, che col tempo induriscono e si fanno corteccia, per proteggerci. Quello che siamo oggi, e che mostriamo, è solo l’ultimo dei nostri cerchi, che come gli altri passati sta tra le tempeste, e resiste.
Fin quando riesce.
Di tanto in tanto mi capita di pensare a un figlio, immagino la mia vita con lui. Dove sarei, e con chi. L’avrei chiamato come mio padre, forse. Mi accorgo di rivolgere lo sguardo al passato, a volte, al fiato primordiale di cui parlavo. Un aneddoto, un ricordo, mi spingono indietro senza che io lo voglia, ai tempi in cui tutto era possibile, quando ero in grado di percepire ogni secondo vissuto, e di dargli valore con i miei perché. Una voce, un profumo, il calpestio del bosco producono sussulti in me. Avevo bisogno di ritrovare questo, più di quanto pensassi. I bilanci non sono per la nostra ultima parte di vita, stanno invece nel mezzo, sono per chi ha ancora tempo da tessere, mia nonna non si perdeva dietro ai bilanci, aveva da tirare avanti con dignità.
 
[da La donna degli alberi di Lorenzo Marone, Feltrinelli, 2020]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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