Succede. Aggirarsi per casa, guardare i libri, i quadri, gli oggetti messi insieme nell’arco di una vita. Ciascuno a fare memoria di un’età, stati d’animo, rimpianti. Lì in sequenza se ne stanno: rassicurante siepe posta tra un ‘dentro’ e un ‘fuori’; orgoglio riflesso per ciò che siamo o avremmo voluto essere; manifesto politico, visione del mondo, approdo di tenere nevrosi. Non è chiaro se siamo noi a possederli o sono loro a possedere noi. Comunque sia, il solo pensiero di doversene distaccare conduce a immagini mortifere, all’inaccettabile idea di non-più-essere. Inutile negarlo: siamo ciò che ci appartiene; e ciò è parte integrale e sostanziale della nostra identità. Da qui l’angoscia di perderlo, di esserne privati. Il parossismo che può sbrigliare un simile pensiero lo troviamo argutamente inscenato nel libro di Michele Mari, “Locus desperatus”. Romanzo che in un crescente, studiato viluppo distorce la realtà fino al surreale, laddove innocenti fisime possono deflagrare in paranoia. Il protagonista è persona raffinata. Lo si vede da come ha sistemato l’appartamento in cui abita, perfetta proiezione di sé, sancta sanctorum delle proprie manie e feticci: “ero re: delle mie cose, delle mie collezioni, dunque di me, che in quelle collezioni avevo sistematicamente trasferito ogni mia più intima particola”. Questa carezzevole autoreferenzialità comincia a scombussolarsi la mattina in cui il re di sé stesso vede tracciata sulla porta di casa una piccola croce che lui si affretta a cancellare, ma subito ricompare. Segno dunque di una maledizione che diviene palese quando chissà quale agente ultraterreno ingiunge lo sfratto al residente. In quella casa dovrà subentrare altra persona, e pure le molte cose presenti nell’appartamento dovranno decidere se seguire il loro ‘legittimo’ proprietario o macchiarsi di tradimento restando con l’usurpatore. Ecco allora sconvolgersi un’esistenza: “Io avevo dato senso e vita alle cose, scegliendole, collezionandole, amandole, considerandole parte di me, immettendovi la mia energia, e loro mi avevano sempre restituito tutto contribuendo alla mia identità e alla mia biografia, modulando i miei pensieri e i miei sogni… Senza le mie cose io non sarei stato più io, e senza di me loro non sarebbero state più loro”. In questa storia – che nell’anno di Kafka risulta un degno omaggio al praghese – Michele Mari conferma le sue qualità di scrittore colto, ricco di invenzione fantastica e di sottile humour. Già il titolo del romanzo, locus desperatus, attinge alla sfera dell’erudizione: per i filologi è un’ammissione di sconfitta, allorché, dinanzi a un’irrecuperabile lacuna di testo, tocca arrendersi e così segnare quel punto con la cosiddetta “croce della disperazione”. Non è certo un caso che la bizzarra vicenda su cui ha fantasticato Mari muova da una croce che per il protagonista diviene quanto mai segno disperante. In un gioco di specchi, di doppi, di esondazioni oniriche, Mari costruisce il racconto del più traumatizzante sfratto che possa accaderci: sloggiare da noi stessi. Gli strani emissari che intimano di lasciare libero l’alloggio si permettono anche una tirata morale: “A furia di circondarvi di cose, amandole, collezionandole, vi ci siete a poco a poco trasferito, regalando loro quote sempre più consistenti della vostra personalità. Le avete personificate, giusto? e nel contempo vi siete spersonalizzato. Credevate di possedere, e sarà stato pur vero: solo, vi siete spossessato. Sicché noi – noi – io o il buffone di prima o certi altri che non oso nemmeno nominare, per prendervi l’anima non dobbiamo fare altro che prendere le vostre cose.” Meditiamo gente, meditiamo.
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Quattro tavole originali del Necron di Magnus, due del Dick Tracy di Chester Gould, due del Li’l Abner di Al Capp, un Cocco Bill dedicatomi da Jacovitti; una calcografia di Piranesi, altrettanto originale; una madonna lignea del Cinquecento, con tracce dell’antica doratura; l’Oca di Enzo Mari; la lampada Toio di Achille Castiglioni; la prima edizione dell’Ortis foscoliano, quella dei Canti orfici di Dino Campana, quella del Voyage au bout de la nuit autografata dall’autore… Quel certo oggettino, in cui si rapprendeva una tenerezza lontana, quei testimoni fraterni ormai radioattivi… Contemplai qualche altra beltà, indugiando del guardo come a sussumerla nelle avide entragne, e questa, e quest’altra, e quelle che non vedevo ma sapevo esserci in giro, nelle altre stanze, o al chiuso; poi, quasi strappandomi a me stesso, spensi la luce e uscii. Girai la chiave secondo l’immutabile rito, quattro mandate a destra, una indietro, un’altra a destra, poi tre conati di spinta a saggiare l’avvenuta chiusura, per un totale di nove operazioni: undici con l’inserimento e il disinserimento.
Potevo dunque andare, ma in quella, alzando lo sguardo, vidi una cosa strana. Sulla porta, subito sopra lo spioncino, un segno fatto con il gesso: una croce, cm. 10 x 10 all’incirca. Non una X: una croce, ciò che rendeva quel segno, già di per sé inquietante nel suo abuso vigliacco, ancora piú spiacevole. Non infatti un segno, ma IL segno: e che segno! Ancorché anacronistico, se riferito al testamento antico… Cercai di ricordare il passo preciso, i due angeli segnavano le case che dovevano essere distrutte o quelle che sarebbero state risparmiate? La Bibbia del Diodati, dovevo controllare, ma intanto non potevo sfuggire alla domanda che mi rintronava in capo siccome tempesta: ero un giusto, io? Potevo sperare di essere considerato tale? Ne dubitavo, e comunque un controllo: salii e scesi le scale per esaminare le altre porte, su cui niente, nessun tipo di segno. Così ero io, il prescelto, ma prescelto per cosa? Non volevo saperlo, reinfilai la chiave nella toppa e aprii senza rispettare il rituale, corsi in cucina, inumidii una spugna e tornai fuori, a cancellare lo stigma.
Rientrato, a scanso di periglio, aprii poi un cassettino, ne tolsi una scatola di gessetti colorati conservati dalla mia infanzia, ne scelsi uno, rosa, e con quello, silente e furtivo, tornai sulle scale, salii al piano di sopra, e sulla porta dell’interno 8 disegnai una croce, volutamente sghemba. Quindi, la debolezza di un capriccio: sulla porta dell’interno 7, in basso a destra, un piccolo cazzillo, in puro stile da cesso pubblico, cosí, tanto per creare una variabile che scompaginasse il progetto… il progetto di chi? Chiunque fosse il crucifero, lo avrei atteso, sempre che le mie puerili manovre non lo confondessero, cosa peraltro improbabile. Lo avrei atteso, e sarei stato distrutto con tutte le cose mie, oppure sarebbero stati distrutti gli altri, tutti eccetto me. Ma catapecchia con catapecchia, a quei tempi remoti, fra la sabbia e le pietre, si poteva immaginare, formarsene un quadro: ora invece, lí, come sarebbe stato possibile, folgorare un appartamento senza compromettere gli altri, o viceversa, ancora piú impensabile, piú bello e piú giusto ma tecnicamente più impensabile…
Mi accoccolai sotto la trapunta, implodendo nell’attesa, fasciato della mia formidabile tristezza. La mia vera forza, la tristezza, inattingibile ai nesci ma anche ai più consci, come uno stato di impermanenza, affatato. Lì dentro, lì sotto, gli orrori più vari si mescolavano alle immagini belle dell’arte, contaminandole, certo, trasformando la grazia in raccapriccio, ma desumendone anche una forma, a suo modo decorativa, pensabile e ripensabile, ludicamente, fino allo stordimento e all’oblio. Ridotto così, ero re: delle mie cose, delle mie collezioni, dunque di me, che in quelle collezioni avevo sistematicamente trasferito ogni mia più intima particola, fino a ricomporvi un’analitica e dissociata entelechia.
Passò la notte. All’alba, discinto, mi affrettai all’uscio, dove, all’esterno, di nuovo campeggiava sulla mia porta l’infame crucizio. Lo stesso gesso bianco, gli stessi cm. 10 x 10 (una croce greca, dunque, con quanto di pignolo omometria comporta). Verificai gli interni 7 e 8: i segni rosa erano ancora lí, nessuno si era preoccupato di toglierli, indizio della loro insignificanza. Rientrato e riuscito, li appesantii con un gessetto verde: là una X sovrapposta alla croce, a formare un asterisco, possibile e raggrinzito sfintere; qui un ampliamento del fallo promosso a sagoma-zeppelin. Poi, soddisfatto, scompigliai con la mano la mia croce, stupendomi alla sua consistenza non pulvisco-farinosa ma granulare: portato un polpastrello alla lingua, lo scoprii salato. La moglie di Lot, un annegato di Poe, un emissario di Innsmouth, chi poteva essersi preso la briga di tante suggestioni congiunte? Ispezionai con cura lo zerbino in cerca di alghe, di altro sale, di squame, ma nulla.
Restava poi, e di quella giornata fu il pensiero precipuo, la questione del tempo, del lasso previsto fra l’avviso e l’evento, salvifico o catastrofico fosse. A sera, stremato, nell’impossibilità di fermare il cigolío della mente su qualcosa di certo, decisi di appostarmi. Accostai la porta senza chiuderla a chiave, misi un cuscino per terra e sedetti con le spalle contro l’uscio, pronto a cogliere la minima vibrazione, il più sordo fruscìo; a portata di mano, una mannaia e una mazza. Due volte, nel dormiveglia, balzai di soprassalto spalancando la porta, ma non c’era nessuno, tantomeno il segno. La mattina, invece, eccolo! Un po’ più grande, ma uguale.
«Cosa vuoi? Chi sei?» gridai nella tromba delle scale. «Sei un angelo? Che angelo sei? Appalésati!» Ma non si appalesò.
Interrogai il portinaio, senz’esito. Assicurò anzi, il solerte, che nessun estraneo aveva avuto accesso alle scale negli ultimi due giorni. Dunque, riflettei fra me e me, si doveva pensare allo scherzo di qualche condòmino, o in alternativa all’ipotesi estrema di un fatto sovrannaturale. Oscillai fra i due corni per alcuni giorni, poi, a poco a poco, me ne dimenticai.
Ricaddi in quel gorgo un mattino, dirigendomi ancora semiaddormentato alla macchinetta del caffè: il mazzo di chiavi, che rimaneva sempre inserito nella serratura, era caduto a terra.
Qualcosa, evidentemente, lo aveva spinto fuori dall’esterno. Ora, prima di tutto il caffè: quindi l’azzardo, rimettendo e rigirando la chiave e aprendo di colpo per non dar tempo di formarsi a incubose visioni. Il pianerottolo, in ogni caso, era deserto, tracce di effrazione nessuna, nemmeno altre croci. Osservando meglio, tuttavia, notai sulla toppa qualcosa di verdastro, qualcosa che al tocco, e allo sfregamento fra i polpastrelli, aveva la consistenza di uno spinacio bollito. Quante volte, sognando, avevo patito la frustrazione di non poter colpire il nemico per colpa di una rivoltella o di una lama che si afflosciavano come asparagi molli, oh quante! E adesso pareva che quella nemesi fosse toccata al misterioso avversario, un duplicato di chiave, un passepartout, una forcina per violare la serratura, ed ecco alchimia! il metallo converso in ridicolo vegetale inteso al proprio spiaccichìo… Non prima di aver spinto fuori la chiave, però, il pericolo c’era stato… Per il futuro meglio non concludere l’ultima mandata, lasciare la chiave di traverso (e ne ghignai, quasi, a tacitare il terrore)…
[da Locus desperatus di Michele Mari, Einaudi, 2024]
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