“Vicente era un giovane ebreo. O un giovane polacco. O un giovane argentino. In realtà, quel 13 settembre 1940 Vicente Rosenberg non sapeva ancora di preciso chi fosse.” Questo scrive Santiago H. Amigorena nelle prime righe del romanzo “Il ghetto interiore” (Neri Pozza) per raccontare di una identità ritrovata non per scelta – perché la scelta, più o meno consapevole, era stata tutt’altra – ma per sopraffazione della Storia; perché capita spesso che la Storia vada a segnare, di prepotenza, le storie dei singoli. Tutto inizia nel 1928, quando l’ebreo polacco Vicente Rosenberg emigra in Argentina, magari con l’idea di ritornare un giorno o l’altro a riabbracciare sua madre, la sorella, il fratello. Si stabilisce a Buenos Aires, sposa Rosita, figlia di esuli ebrei russi, con la quale mette al mondo tre figli. Vive piuttosto bene con i guadagni ricavati da un negozio di mobili. Quando la sera rientra a casa i bambini gridano contenti: “Mamma, mamma! È arrivato il capitano!”. E Rosita, seduta sul dondolo a leggere un libro, attende che il marito le si avvicini “per circondarla con le braccia e baciarla sul collo”. Insomma, Vicente è un uomo soddisfatto; e la distanza con ciò che ha lasciato non è solo geografica, ma pure mentale, affettiva. Questa tranquillità comincia però a scalfirsi quando, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la Germania invade la Polonia e cominciano a giungergli stringate, ma drammatiche lettere della madre, che, dal ghetto di Varsavia, racconta di reclusione, fame, sofferenze. In principio Vicente ha una sorta di rifiuto: non si informa, non vuole sapere né parlare di quanto accade in Polonia. Ma, tormentato da un crescente senso di colpa, arriva a chiudersi in un silenzio che lo rende completamente estraneo alla realtà. Eccolo, allora, prigioniero di un ghetto interiore, a scontare anche lui la colpa di una identità. Lui che si chiedeva: “Come mai a volte diciamo di essere ebrei, argentini, polacchi, francesi, inglesi, avvocati, medici, professori, cantanti di tango o calciatori? Come mai a volte parliamo di noi stessi con la certezza di essere un’unica cosa, semplice, fissa, immutabile, una cosa che possiamo conoscere e definire con un’unica parola?”. Già, come mai? Perché non potersi sentire una molteplicità? No, questa libertà gli viene impedita. Ma non solo, lo segrega nel tormento di essere un traditore: “Come tutti gli ebrei, Vicente aveva pensato di essere molte cose finché i nazisti non gli avevano dimostrato che a definirlo era un’unica cosa: essere ebreo.” Costretto, dunque, a riassumersi un’identità (e solo quella) perché essere più universalmente uomo, padre, amico, commerciante, cittadino del mondo non gli era consentito. Terribile non poter decidere chi si voglia essere; disconoscere come il valore dell’identità sia imprescindibile da quello della libertà. Eppure, a fasi alterne, la Storia sembra non aver imparato ancora questa lezione.
***
Il 13 settembre 1940, a Buenos Aires, il pomeriggio era piovoso e la guerra in Europa così lontana da far credere di trovarsi ancora in tempo di pace. Avenida de Mayo, la grande arteria fiancheggiata da edifici liberty che va dal palazzo presidenziale a quello del Congresso, era quasi deserta; solo pochi uomini frettolosi che uscivano dai loro uffici in centro correvano sotto la pioggia riparandosi la testa con un giornale per prendere un autobus o un taxi e tornare a casa. Tra quei passanti furtivi un uomo di trentotto anni, Vicente Rosenberg, protetto dal cappello, si dirigeva con passo tranquillo ma distratto verso l’ingresso del Tortoni, un caffè alla moda dove a quei tempi ci si poteva imbattere in Jorge Luis Borges e in celebrità del tango quanto in rifugiati europei come Ortega y Gasset, Roger Caillois o Arthur Rubinstein. Vicente era un giovane ebreo. O un giovane polacco. O un giovane argentino. In realtà, quel 13 settembre 1940 Vicente Rosenberg non sapeva ancora di preciso chi fosse. Entrando nel caffè non ci aveva messo molto a individuare, a uno dei tavolini allineati lungo la parete di fronte al bancone, la sagoma massiccia di Ariel Edelsohn, il suo migliore amico. I gomiti sul marmo del tavolino e una tazzina davanti, aspettava Vicente leggendo il giornale, poco lontano dai biliardi nel retro della sala. Accanto a lui, rivolto verso il fondo del locale per tenere d’occhio le sequenze di carambole, nervoso come al solito, c’era Sammy Grunfeld, un giovane che spesso passava il tempo insieme a loro. Dopo aver stretto la mano a entrambi Vicente aveva scrollato dal soprabito le ultime gocce che tentavano di impregnare lo spesso tessuto di lana, poi si era seduto con gli amici chinando la testa per leggere i titoli in prima pagina: in Europa infuriava la battaglia d’Inghilterra e i nazisti cominciavano a rinchiudere in ghetti gli ebrei. Ariel, che gli amici argentini chiamavano «l’Orso», aveva ripiegato il giornale con un profondo sospiro.
«Gli ebrei mi rompono le palle. Mi hanno sempre rotto le palle. È stato quando ho capito che mia madre sarebbe diventata ebrea e rompipalle come la tua che ho deciso di andarmene».
«In confronto alla mia, tua madre non è poi così rompipalle» gli aveva risposto Sammy, senza staccare gli occhi dai tavoli da biliardo.
Un po’ a disagio, Ariel aveva lanciato un’occhiata a Vicente, ma poiché questi sembrava soprappensiero aveva continuato a parlare con Sammy, che per metà voltava loro le spalle.
«Il peggio è che anche mia madre, a vent’anni, aveva un unico sogno: andarsene dallo shtetl e vivere in città. Sua madre le sembrava una rompipalle per gli stessi motivi per cui oggi lei sembra una rompipalle a me…».
«Eppure, rompipalle o no, le hai fatto attraversare l’oceano per averla accanto».
«Sì… sentiamo la mancanza anche delle cose peggiori».
Divertito dal tono solenne di Ariel, Sammy era scoppiato in una risata breve e fragorosa come uno schiocco di dita. Quanto a Vicente, continuava a restare in silenzio, un po’ accigliato. Già da qualche mese non aveva nessuna voglia di parlare di quello che stava succedendo in Europa.
«Che hai, Wincenty? È il bel tempo a metterti di malumore?».
Vicente si era girato verso di lui, con un accenno di sorriso: di tutte le persone che conosceva a Buenos Aires, Ariel, con cui aveva fatto amicizia a Varsavia quando avevano diciotto anni e si erano appena arruolati, era l’unico a chiamarlo ancora Wincenty.
«Anche mia madre: è stato perché non sopportava i suoi genitori che, quando ero piccolo, ci ha portati via da Chełm».
Aveva pronunciato quelle parole a fior di labbra, e Sammy, che Vicente e Ariel avevano conosciuto durante il viaggio in nave da Bordeaux a Buenos Aires nel 1928 e, in quella città allora inafferrabile, si era aggrappato a loro come a un salvagente, aveva tentato di trarre le conclusioni di quella conversazione irrispettosa.
«Succede dalla notte dei tempi, no? Uno vuole bene ai genitori, poi gli sembrano dei rompipalle, poi se ne va… Forse è questo, essere ebrei…».
«Sì… o essere umani».
Dopo una pausa molto più lunga di quanto non richiedesse quella frase solenne buttata lì sul tavolo come un uccello morto, Ariel si era rivolto di nuovo a Vicente.
«Hai avuto notizie?».
«No, l’ultima lettera è ormai di tre mesi fa. Non so neanche se le sono arrivati i dieci dollari che le ho mandato a giugno».
«Ho parlato con Jacob. Ha ricevuto un telegramma da suo cugino, che è riuscito a partire per gli Stati Uniti: sembra che a Varsavia non si trovino nemmeno più i francobolli…».
Per non preoccupare i suoi amici Vicente si era sforzato di abbozzare un impercettibile sorriso, poi si era alzato per andare alla toilette. Non che avesse bisogno di urinare, ma da qualche tempo faceva fatica a partecipare a quelle interminabili conversazioni che, partendo dal loro passato o dalle loro famiglie, li conducevano sempre sullo sdrucciolevole terreno politico degli sviluppi della situazione in Europa.
Mentre Sammy e Ariel avevano continuato a chiacchierare della guerra, negli ampi bagni del Tortoni Vicente si era lavato le mani lentamente, poi aveva alzato gli occhi per gettare uno sguardo al proprio riflesso nello specchio. Aveva lineamenti delicati, quasi eterei. Le labbra, le sopracciglia, il naso piccolo, i baffetti sottili (che, a dispetto dei suoi problemi finanziari, faceva regolare due volte alla settimana dal miglior barbiere di Buenos Aires) sembravano disegnati da un calligrafo cinese con un pennello così fine da risultare come evanescenti. Del resto, quando si pensava alla sua faccia, a tornare in mente non erano l’ampiezza della fronte o gli zigomi pronunciati, e nemmeno il verde degli occhi o il rosso dei capelli: era solo un’impressione vaga, come una nebbiolina in cui uno humour pungente si alternava a una tenera malinconia.
Dopo essersi asciugato le mani Vicente aveva lasciato il gelido universo di marmi e piastrelle bianche dei bagni per tornare in quello ocra e felpato della grande sala del caffè. Si era seduto di nuovo accanto agli amici e li aveva guardati con affetto – e anche con una punta di invidia: a differenza di Vicente, la cui madre e il cui fratello si trovavano ancora in Polonia, Sammy era fuggito dal vecchio continente insieme a tutta la sua famiglia e tre anni prima, nel 1937, Ariel era riuscito a convincere i genitori e la sorella a raggiungerlo a Buenos Aires.
«… nonostante la loro famosa linea Maginot i francesi hanno stabilito un nuovo record mondiale della disfatta più veloce».
«Dopo di noi, comunque!».
«Per voi è diverso: lo sanno tutti che i polacchi non hanno mai voluto combattere sul serio».
«È vero che a voi russi combattere piace da matti… soprattutto gli uni contro gli altri!».
Sammy aveva sospirato, con fastidio. Ma Ariel gli aveva appoggiato una mano sulla spalla, come un fratello maggiore, e il battibecco si era chiuso lì.
«In ogni caso il nostro governo avrebbe fatto meglio a stabilirsi da qualche altra parte anziché a Londra. A quanto pare piovono bombe a catinelle… Che ne pensi, Wincenty?».
Poiché Vicente tardava a rispondere, Sammy lo aveva fatto al posto suo: «Londra… Parigi… Varsavia… È una bella fortuna essere qui, no?».
Per nascondere l’angoscia che lo tormentava Vicente aveva gettato un’occhiata fuori, fingendo di controllare se piovesse ancora. Ariel ne aveva approfittato per fare una smorfia a Sammy, voleva ricordargli che la madre di Vicente era ancora in Polonia, e Sammy si era morso un labbro per mostrare di essersi reso conto della gaffe. Intorno al tavolino c’era stata una pausa d’imbarazzo. Poi, in fretta, per consolare il suo amico di gioventù, Ariel aveva cercato di cambiare discorso chiedendo notizie del negozio di mobili che Vicente aveva appena aperto; e per confortare a sua volta Ariel, Vicente aveva cercato di rispondere alla sua domanda; e Sammy, nel tentativo di alleggerire definitivamente quell’atmosfera pesante, aveva fatto una battuta sulla mania degli argentini per i mobili rustici. Ma nonostante tutti i loro sforzi li aveva investiti un silenzio gelido, che si insinuava fra gli sguardi, fra i sorrisi appena accennati, ben prima che avessero smesso di parlare.
I tre amici avevano finito i caffè, avevano bevuto un gin, poi un altro, poi avevano preso i cappotti dall’attaccapanni, li avevano indossati, ed erano usciti dal Tortoni. Si erano attardati ancora un po’ sul marciapiede, scambiandosi qualche banalità al riparo della pensilina. Vicente si era acceso una Commander mentre Sammy scalpicciava impaziente e Ariel stirava il suo corpaccione da orso lanciando un breve grido di contentezza: erano tempi cupi ma la settimana era finita e lui era decisamente di buonumore.
[da Il ghetto interiore di Santiago H. Amigorena, trad. di Margherita Botto, Neri Pozza, 2020]
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