La scrittrice camerunense Léonora Miano, dopo aver trascorso trent’anni in Francia (vi era andata, giovanissima, a studiare) ha deciso di tornare a vivere nel Continente Nero, in Togo. È pur vero – come dimostrano i suoi libri – che mai, con cuore e testa, aveva abbandonato l’Africa, le drammatiche storie che hanno segnato quel Continente. Lo testimonia ancora l’ultimo romanzo “La stagione dell’ombra” (Feltrinelli) dalle cui pagine scaturisce nuovamente la sofferta, insopprimibile urgenza di fare memoria per dire cose che talvolta nemmeno si conoscono, come quelle legate alla tratta dei primi schiavi africani. Il romanzo della Miano ci porta nell’Africa sub-sahariana, in epoca precoloniale, nel villaggio dei mulongo, dove, una notte, divampa un incendio e dodici giovani uomini scompaiono. Da allora dodici madri, riunite in un’unica capanna lontana dalle altre (così che non possa sentirsi il loro lamento) vivono lo strazio della perdita: “Loro non lo sanno, ma succede a tutte nello stesso istante. Quelle i cui figli non sono stati ritrovati hanno chiuso gli occhi, dopo diverse notti senza sonno. Non tutte le capanne sono state ricostruite dopo il grande incendio. Radunate in un’abitazione lontana dalle altre, combattono il dolore come possono. Durante il giorno non parlano della preoccupazione, non pronunciano la parola ‘perdita’, né i nomi dei figli che non hanno più rivisto”. Non è dato sapere dove siano finiti i dodici uomini, chi possa essere il responsabile della loro sparizione. Così che una delle madri, Eyabe, lascia il villaggio per andare alla ricerca del figlio. Si mette in viaggio con la sua scorta anche il capo Mukano, per raggiungere il vicino e amico clan dei bwele e chiedere notizie alla loro regina. Fa la stessa cosa il fratello Mutango, ma con secondi fini. Sta tramando di soppiantare il fratello al comando del clan e cerca la complicità degli stessi bwele. Strada facendo, i tre cominciano a comprendere l’orribile verità che sta dietro le fiamme che avevano bruciato il villaggio. L’autrice ci conduce in un mondo di grande fascinazione in cui il sole cambia nome ad ogni fase della sua luce. I morti e gli antenati sono una religione, le età sono passaggi rituali. La vita è sortilegio, come sanno le donne che, prima di coricarsi, pettinano i capelli in maniera da tenere lontani i brutti sogni. Léonora Miano racconta tutto questo affinché il ricordo del popolo mulongo non cada nell’oblio. Almeno questo atto riparatorio da parte della storia è a loro dovuto. Il libro porta, infatti, una toccante dedica: “Agli abitanti dell’ombra che ricopre il sudario atlantico. A quelli che li amano”.
***
Il giorno si appresta a scacciare la notte, sulle terre del clan mulongo. Il canto degli uccelli che annuncia la luce non si è ancora fatto sentire. Le donne dormono. Nel sonno capita una cosa strana. Mentre il loro spirito vaga per le contrade del sogno, che sono una dimensione altra rispetto alla realtà, incontrano qualcuno. Una presenza oscura appare a loro, a tutte loro, e ognuna riconoscerebbe tra un milione la voce che le parla. Nel sogno protendono il capo, tendono il collo, cercano di distinguere quell’ombra. Di vedere quel volto. Ma il buio è fitto. Non vedono niente. C’è solo una frase: Mamma, aprimi, così che possa rinascere. Fanno un passo indietro. La voce insiste: Mamma, sbrigati. Dobbiamo farlo prima che spunti il giorno. Altrimenti sarà tutto perduto. Anche a occhi chiusi, le donne sanno che non bisogna fidarsi delle voci senza volto. Il Male esiste. Sa farsi passare per ciò che non è. Sono giorni che il loro sangue grida verso la creatura di cui riconoscono la voce. Ma non hanno certezze, e allora come comportarsi? Una grave disgrazia si è abbattuta sul villaggio. Sanno di non essere la causa di quelle terribili sofferenze. Eppure sono già state isolate dal gruppo, allontanate come nemici.
Certo, sono state avvisate dalla levatrice che è solo una misura provvisoria, che durerà finché gli anziani non avranno chiarito la situazione. Poi potranno tornare alle loro case. Ma questo non è bastato a rassicurarle. Camminano a testa bassa. Parlano poco. Non possono vedere i figli più piccoli, lasciati alle cure delle altre mogli. Quando è ora di andare a dormire, adagiano la nuca su un poggiatesta di legno per proteggere le elaborate acconciature che continuano a sfoggiare, sperando in tal modo di allontanare i brutti sogni. Il momento dedicato al sogno si affronta con la solennità di un rituale. Il sogno è un viaggio dentro di sé, fuori da sé, nella profondità delle cose e oltre le cose. Non è solo un tempo, è anche uno spazio. Il luogo della rivelazione. A volte quello dell’illusione, perché il mondo invisibile è popolato anche da entità malvagie. Non si appoggia la testa su un supporto qualunque, quando ci si appresta a sognare. Ce ne vuole uno adeguato. Un oggetto scolpito in un legno scelto per lo spirito che lo abita, che è stato intagliato pronunciando parole sacre. Nonostante tutte queste precauzioni, non è consigliabile affidarsi a una voce che non si è certi di aver riconosciuto.
Le donne si voltano, tutte insieme. Di scatto. Non aprono gli occhi. La voce si fa insistente, poi svanisce. Nella loro mente, risuonano le ultime parole: …Prima che spunti il giorno. Altrimenti sarà tutto perduto. Dalle palpebre chiuse filtrano lacrime, mentre si infilano una mano tra le cosce, piegano le ginocchia. Non possono aprirsi così. Lasciarsi penetrare da un’ombra. Piangono. Succede a tutte. Nello stesso istante. Se una di loro ha ceduto alla tentazione di aprirsi, le altre non lo sapranno. Nessuna parlerà di quel sogno. Nessuna prenderà da parte una sorella per sussurrarle: È venuto. Il mio primogenito. Mi ha chiesto di… Non pronunceranno i nomi dei figli di cui ignorano il destino. Per paura che il Male si impadronisca di quella vibrazione particolare. Se sono ancora in vita, la prudenza è d’obbligo. Quei nomi non le abbandonano. Riecheggiano in loro dall’aurora al crepuscolo, le perseguitano anche mentre dormono. A volte, non hanno nient’altro in testa. Non li pronunceranno. Sono già state isolate perché il lamento dei loro cuori non avvelenasse la vita degli altri. I fortunati che hanno perso solo una capanna, qualche oggetto.
Aprono gli occhi. Poco prima del canto mattutino degli uccelli. L’ombra tarda a dissiparsi. È come se stessero ancora sognando, non parlano, fingono di dormire, in attesa che spunti il sole. Presto si stancano di simulare, non riescono a tenere gli occhi chiusi. Il loro sguardo vaga nell’oscurità. Alcune credono di distinguere i disegni della stuoia di esoko su cui sono stese, le fibre che si incrociano, i quadrati ricamati con sottili nervature di foglie. Sono immobili. La nuca ancora sul poggiatesta. Per un attimo, quelle i cui figli non sono stati ritrovati pensano che sia stata una fortuna che la capanna del maestro scultore non sia andata completamente distrutta. Sono riusciti a salvare, appena in tempo, degli oggetti indispensabili. È per questo che non sono costrette ad arrotolare la stuoia per appoggiarci la testa, rimanendo con il resto del corpo steso per terra.
Il sole non vuole sorgere. Lo vedono attraverso la porta aperta che dà sull’esterno. Si sono viste assegnare una capanna che non si chiude. Hanno un sussulto impercettibile mentre aspettano l’arrivo del giorno. Il momento in cui usciranno. Torneranno alle loro occupazioni come se niente fosse. Senza pretendere nulla, si chiederanno quando potranno raggiungere le loro famiglie. Scambieranno solo parole banali, quelle che si dicono mentre ci si dedica alle faccende domestiche. I discorsi che si fanno mentre si impilano i tuberi a due a due. Mentre si radunano le fibre vegetali per confezionare un dibato o una manjua. Per il momento, aspettano. Scrutano l’oscurità, dentro e fuori la capanna comune. Quelle i cui figli non sono stati ritrovati non sanno che in cielo il sole è già alto. Risplende con il nome di Etume, la prima identità che assume. Durante la giornata diventerà Ntindi, Esama, Enange, segnando con le sue trasformazioni la quotidiana corsa del tempo.
È Ebeise la prima ad accorgersi del fenomeno. Ha l’abitudine di alzarsi quando fa ancora buio, per preparare il pasto al suo uomo. All’aurora, mangia solo piatti cucinati dalla sua prima moglie. Oggi Ebeise non gli servirà niente. È scomparso la notte del grande incendio. Il clan è rimasto senza guida spirituale. La donna osserva. Allontana la paura e la rabbia, cerca di capire. È un fenomeno mai visto. Lascia discretamente la capanna, per dirigersi verso la dimora del figlio maggiore, Musima. In quel periodo, dorme sotto un albero in fondo alla concessione di famiglia. Quando giunge sul posto, il figlio è già sveglio, brucia cortecce recitando formule magiche. Poi interrogherà gli antenati, deporrà del cibo ai piedi dei reliquiari, si strofinerà le mani con dell’olio e massaggerà con umiltà le loro teste di legno intagliato. La scomparsa di suo padre è inspiegabile. Un uomo come lui non sparisce tra la vegetazione. Nemmeno la morte riuscirebbe a prenderlo alla sprovvista. La riconoscerebbe da lontano. Saprebbe il momento esatto. Lascerebbe tutto in ordine, molto prima del fatale testa a testa.
[da La stagione dell’ombra di Léonora Miano, trad. Elena Cappellini, Feltrinelli, 2019]
Torna Indietro