Leila Slimani, scrittrice francese di origine marocchina, è molto impegnata su temi come i diritti delle donne, le discriminazioni causate da orientamenti sessuali, i processi di decolonizzazione (che nella realtà sono sempre lunghi e complessi), i difficili innesti tra culture. Non è superfluo richiamare alcuni suoi dati biografici. La nonna materna è cresciuta in Alsazia dove nel 1944, durante la liberazione della Francia, ha conosciuto il suo futuro marito, un colonnello marocchino delle truppe coloniali francesi. Dopo la guerra si trasferirono in Marocco; la loro figlia Béatrice-Najat Dhobb-Slimani, madre di Leila, sposò un economista marocchino di formazione francese, Othmar Slimani, dal quale ebbe tre figlie, di cui Leila è la seconda. Nata a Rabat nel 1981, è cresciuta in una famiglia francofona colta e ha frequentato scuole francesi. Si è trasferita a Parigi nel 1999 dove ha studiato scienze politiche e si è poi specializzata in giornalismo alla scuola ESCP Europe. Qualcosa di autobiografico troviamo ora nel romanzo “Il paese degli altri” (La nave di Teseo) dove le vicende della protagonista Mathilde ripercorrono quelle della nonna della scrittrice. Mathilde, infatti, è una giovane alsaziana che – siamo nel 1944 – si innamora di Amin, soldato marocchino che combatte nell’esercito francese contro i nazisti, uomo bello e d’animo sensibile. Lui è altrettanto affascinato dalla vitalità e dallo spirito libero di lei. Finita la guerra si sposano e vanno a stare a Meknes, in Marocco. Amin ha ereditato un terreno che intende trasformare in una moderna fattoria. È un matrimonio d’amore, arricchito dalla nascita di figli, ma non sarà facile, per entrambi, vivere quella nuova realtà. Mathilde non comprende e disapprova molte regole. Amin si rende presto consapevole di quanto sia problematico, nel suo paese, essere moderno e liberale: come imprenditore e, non di meno, come marito. Le cose si complicano ulteriormente quando esplode la lotta per l’indipendenza del Marocco e tutti si ritrovano a vivere in un “paese degli altri”: i coloni francesi mal tollerati dai marocchini, i marocchini succubi degli europei, i soldati costretti ad operare in un ambiente ostile, i contadini che lavorano terre che non li appartengono, E specialmente le donne, in lotta per emanciparsi da una cultura tutta declinata al maschile. Nel romanzo di Leila Slimani c’è l’intento dichiarato di voler raccontare una storia – quella del Marocco, appunto – poco nota nelle sue complessità, differenze, perenni conflitti (bellici, culturali, sociali, politici). Una conflittualità che si insinua anche nella vita privata di uomini e donne, la condiziona, spesso la mette in crisi. Il libro – che ha il ritmo del racconto epico – coinvolge molto. Ma soprattutto rende coscienti di quanto, fuori da ogni retorica, siano difficoltosi (talvolta drammatici) gli innesti tra culture. Un po’ come gli innesti di alberi da frutto che Amin prova a fare nelle sue terre. Sarà inevitabile – dice – che alla fine una specie prenda il sopravvento sull’altra: “e un giorno l’arancio avrebbe avuto ragione del limone o viceversa e l’albero avrebbe finalmente prodotto dei frutti commestibili.”
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Nelle lettere che scriveva alla sorella, Mathilde mentiva. Fingeva di avere una vita come quelle dei romanzi di Karen Blixen, di Alexandra David-Néel, di Pearl Buck. In ogni missiva, ideava avventure in cui metteva in scena se stessa, a contatto con le popolazioni indigene, teneramente superstiziose. Si descriveva con indosso stivali e cappello, altera, in groppa a un purosangue arabo. Voleva che Irène fosse gelosa, che soffrisse a ogni singola parola, che crepasse di invidia, folle di rabbia. Mathilde si vendicava di quella sorella maggiore rigida e autoritaria, che per tutta la vita l’aveva trattata come una bambina, divertendosi spesso a umiliarla in pubblico. “Quella sventata di Mathilde”, “Quella svergognata di Mathilde” diceva Irène senza alcun affetto né indulgenza. Mathilde aveva sempre pensato che sua sorella non fosse mai riuscita a capirla e l’avesse tenuta prigioniera di un affetto tirannico.
Quando partì per il Marocco, quando scappò dal villaggio, dai vicini, dal futuro che le era stato dato in sorte, Mathilde avvertì dapprima una sensazione di trionfo. Cominciò a scrivere lettere entusiaste in cui descriveva la sua vita nella casa della medina. Si soffermava sul mistero delle stradine di Berrima, enfatizzando la sporcizia delle strade, il rumore e il tanfo degli asini che trasportavano uomini e mercanzie. Scovò, grazie a una suora dell’educandato, un libretto su Meknes dove erano riprodotte delle incisioni di Delacroix. Posò su un comodino quel libro dalle pagine ingiallite di cui voleva impregnarsi. Imparò a memoria dei brani di Pierre Loti che trovava poetico, meravigliandosi al pensiero che lo scrittore avesse dormito a pochi chilometri da lì e avesse posato gli occhi sulle mura e sul bacino dell’Agdal.
Raccontò dei ricamatori, dei calderai, dei tornitori del legno seduti a gambe incrociate nelle loro botteghe scavate nel terreno. Raccontò delle processioni delle confraternite in Place El-Hedim e dei cortei di veggenti e guaritori. In una delle lettere, descrisse per quasi una pagina intera la bottega di uno stregone che vendeva crani di iena, corvi disseccati, zampe di porcospino e veleno di serpente. Pensò che avrebbe fatto molta impressione su Irène e su Georges, suo padre, i quali, nei loro letti al primo piano di una casa borghese, l’avrebbero invidiata per aver sacrificato la noia all’avventura, il comfort a una vita da romanzo.
Tutto, nel paesaggio, era inaspettato, diverso da ciò che aveva conosciuto sino a quel momento. Avrebbe avuto bisogno di nuove parole, di un intero vocabolario privo di passato per poter dire quelle sensazioni, quella luce talmente forte che costringeva la gente a vivere con gli occhi socchiusi, per riuscire a descrivere lo stupore che la invadeva, giorno dopo giorno, dinanzi a tanto mistero, a tanta bellezza. Non c’era nulla, né il colore degli alberi, né quello del cielo, e nemmeno il sapore che il vento le lasciava sulla lingua e sulle labbra, che le fosse familiare. Tutto era diverso.
Nei primi mesi che passò in Marocco, Mathilde trascorse molto tempo dietro il piccolo scrittoio che la suocera aveva sistemato nei loro appartamenti. L’anziana donna nutriva nei suoi confronti un commovente rispetto. Per la prima volta nella sua vita, Muilala divideva casa con una donna istruita, e quando scorgeva Mathilde, china sulla carta da lettera scura, provava un’enorme ammirazione per la nuora. Da quel momento in poi, aveva proibito di far rumore nei corridoi, obbligando Selma a smettere di correre da un piano all’altro. Non voleva neanche che Mathilde trascorresse le giornate in cucina, ritenendo fosse un posto inadatto a un’europea in grado di leggere i giornali e di voltare le pagine di un romanzo. Mathilde, allora, si chiudeva in camera e scriveva. La cosa la divertiva invero assai di rado, tanto il suo vocabolario, ogni volta che si lanciava nella descrizione di un paesaggio o nell’evocazione di una scena vissuta, le pareva spaventosamente limitato. Incappava di continuo nelle medesime parole, pesanti e noiose, e percepiva allora confusamente che il linguaggio era un territorio immenso, un terreno di gioco illimitato che le faceva paura e la inebriava. C’era così tanto da dire che avrebbe voluto essere Maupassant per poter descrivere il giallo che ricopriva i muri della medina, per rendere vivida l’agitazione dei giovanotti che giocavano nelle strade dove le donne scivolavano via come fantasmi, avvolte in bianchi haik. Utilizzava un vocabolario esotico che, ne era certa, suo padre avrebbe apprezzato. Parlava di razzie, di fellah, di djinn e di zellige di tutti i colori.
Ma quel che avrebbe davvero voluto è che non vi fossero barriere o ostacoli al suo modo di esprimersi. Poter dire le cose così come le venivano. Descrivere i ragazzini dal cranio rasato per la tigna, tutti quei ragazzi che correvano da una strada all’altra, gridavano e giocavano, si giravano quando lei passava, si fermavano, e la osservavano con uno sguardo ambiguo, uno sguardo più vecchio di loro. Un giorno fece la sciocchezza di lasciar scivolare una moneta in mano a un bambinetto in calzoni corti che non aveva neanche cinque anni e portava un tarbush troppo largo per la sua testa. Non era più alto dei sacchi di iuta ricolmi di lenticchie o di semola che il droghiere sistemava davanti alla porta e in cui Mathilde aveva sempre sognato di affondare il braccio. “Comprati una palla,” gli aveva detto, sentendosi gonfia di orgoglio e di felicità – ma il piccolino aveva lanciato un grido e da tutte le strade limitrofe erano spuntati altri bambini, che si erano avventati su Mathilde come un nugolo di insetti. Invocavano il nome di Dio, dicevano parole in francese, ma lei non capiva nulla e aveva dovuto mettersi a correre sotto gli occhi ironici dei passanti che pensavano: “Così impara, quella stupida, a fare la carità.” Lei, quella vita sublime, avrebbe voluto osservarla da lontano, essere invisibile. La sua statura, il suo biancore, la sua condizione di straniera continuavano a tenerla lontano dalla parte più vera delle cose, da quel silenzio che fa sentire a casa. Assaporava l’odore di cuoio nelle strade anguste, l’odore del fuoco di legna e della carne fresca, l’odore di acqua stagnante unito a quello delle pere mature, dello sterco degli asini e della segatura. Ma per quelle cose non aveva parole.
Quando era stufa di scrivere o di rileggere i romanzi che ormai conosceva a memoria, Mathilde si sdraiava sul terrazzo dove si faceva il bucato e si metteva a seccare la carne. Ascoltava le conversazioni per strada, le canzoni delle donne negli anfratti che erano loro destinati. Le guardava passare a volte da un terrazzo all’altro come funambole, rischiando di rompersi il collo. Ragazze, domestiche, mogli, tutte gridavano, ballavano, e si scambiavano confidenze in cima ai tetti che abbandonavano soltanto la notte o a mezzogiorno, quando il sole picchiava troppo forte. Nascosta dietro un muretto, Mathilde ripeteva i pochi insulti che conosceva per migliorare il suo accento, e i passanti sollevavano il capo, insultandola a loro volta. “Lay atik typhus!” Pensavano fosse un ragazzino a prenderli in giro, un furfantello morto di noia, stufo di rimanere attaccato alle gonne della madre. Lei aveva sempre le orecchie tese e assorbiva il vocabolario con tale rapidità da stupire tutti quanti. “Appena ieri non capiva nulla!” si meravigliava Muilala, e ormai si doveva stare attenti a quel che si diceva davanti a lei.
È in cucina che Mathilde imparò l’arabo. Alla fine, riuscì a imporre la sua presenza e Muilala accettò che si mettesse seduta a guardare. Tutte le facevano l’occhiolino, o dei sorrisi, e si mettevano a cantare. Imparò innanzitutto a dire pomodoro, olio, acqua e pane. Imparò a dire caldo e freddo, poi il lessico delle spezie, e dopo fu la volta del lessico del tempo atmosferico: siccità, pioggia, gelo, vento caldo e persino tempesta di sabbia. Forte di quel vocabolario, poteva anche nominare il corpo e parlare d’amore. Selma, che imparava il francese a scuola, le faceva da interprete. Spesso, quando scendeva dabbasso a fare colazione, Mathilde trovava Selma addormentata sui divanetti del salotto. Faceva dei rimproveri a Muilala, la quale se ne infischiava che la figlia si istruisse, avesse buoni voti, e frequentasse regolarmente le lezioni. Lasciava che la piccola dormisse come un ghiro e non aveva il coraggio di svegliarla presto per farla andare a scuola. Mathilde aveva cercato di far capire a Muilala che Selma avrebbe potuto conquistarsi l’indipendenza e la libertà grazie allo studio. Ma l’anziana donna aveva aggrottato le sopracciglia – il suo viso, in genere così amabile, si era rannuvolato – e si era offesa con la nassrania per averle fatto la predica. “Ma perché tollera che non vada a scuola? In questo modo mette in pericolo il suo futuro.” Ma di quale futuro parlava, la francese? si chiedeva Muilala. Che importanza aveva se Selma passava le giornate in casa, e imparava a farcire e a ricucire le interiora invece di riempire le pagine di un quaderno? Muilala aveva avuto troppi figli, troppe preoccupazioni. Aveva seppellito un marito e dei neonati. Selma era il suo regalo, il suo riposo, l’ultima occasione che la vita le offriva per mostrarsi tenera e indulgente.
Per il suo primo ramadan, Mathilde decise di digiunare anche lei e suo marito la ringraziò di sottostare di buon grado ai loro riti. Tutte le sere, beveva la zuppa harira, di cui non amava affatto il sapore, e si alzava prima che sorgesse il sole per mangiare datteri e bere latte cagliato. Durante il mese santo, Muilala non lasciava la cucina e Mathilde, golosa e velleitaria, non capiva come si potesse privarsi del cibo e passare le giornate tra odori di pane e tajine. Le donne, dall’alba al tramonto, stendevano la pasta di mandorle, inzuppavano dolci fritti nel miele. Lavoravano la pasta unta di grasso e la tiravano fino a farla diventare sottile come carta da lettere. Le mani non temevano il freddo né il caldo e i palmi poggiavano direttamente sulle piastre roventi. Erano tutte pallide per il digiuno e Mathilde si chiedeva come facessero a resistere, in quella cucina surriscaldata, dove aleggiava un odore di zuppa che faceva girare la testa. Durante quelle lunghe giornate di privazione, riusciva a pensare solo a quel che avrebbe mangiato al calare della sera. Gonfiava la bocca di saliva e rimaneva con gli occhi chiusi, sdraiata su uno dei divanetti umidi del salotto. Combatteva l’emicrania immaginandosi fette di pane fumante, uova fritte alla carne affumicata, biscotti a forma di corna di gazzella inzuppati nel tè.
Poi, quando echeggiava il richiamo alla preghiera, le donne disponevano sul tavolo una brocca di latte, delle uova sode, una scodella di zuppa fumante, i datteri che avrebbero aperto con le unghie. Muilala aveva una speciale attenzione per ogni commensale: farciva di carne i raif e aggiungeva del peperoncino in quelli del figlio più giovane cui piaceva ustionarsi la lingua. Spremeva le arance per Amin, preoccupata per la sua salute. In piedi sulla soglia del salotto, aspettava che gli uomini, con il viso ancora gonfio per la siesta, spezzassero il pane, sgusciassero un uovo sodo, si abbandonassero su un cuscino per poter finalmente guadagnare la cucina e sfamarsi. Mathilde non capiva. “Ma questo è schiavismo!” diceva. “Una poveretta cucina tutto il giorno e deve per giunta aspettare che abbiate finito di mangiare! Non ci posso credere.” E se la prendeva con Selma che ridacchiava seduta sul davanzale della finestra di cucina.
Urlava di rabbia davanti ad Amin e continuò a farlo anche dopo la festa di Aid El-Kebir, che scatenò una tremenda lite. La prima volta Mathilde rimase in silenzio, come pietrificata davanti allo spettacolo dei macellai con i grembiuli coperti di sangue. Dal terrazzo, sul tetto di casa, osservava le stradine silenziose della medina dove si muovevano le sagome dei carnefici e poi dei giovani maschi che facevano avanti e indietro tra le case e il forno. Rivoli di sangue caldo e ribollente scorrevano di casa in casa. Nell’aria aleggiava un odore di carne cruda e si appendeva la pelle lanosa dell’animale ai ganci di ferro sulle porte delle abitazioni. “È una bella giornata,” aveva pensato Mathilde, “per commettere un assassinio.” Sugli altri terrazzi, nel regno delle donne, ferveva l’agitazione. Tagliavano, svuotavano, scuoiavano, squartavano. Si chiudevano in cucina per pulire le interiora, togliere agli intestini l’odore di merda prima di farcirli, cucirli, e farli rosolare a lungo in una salsa piccante. Bisognava separare il grasso dalla carne, mettere a cuocere la testa dell’animale dato che il figlio maggiore ne avrebbe mangiato gli occhi, ficcando l’indice nel cranio ed estraendone i globi lucidi. Amin, quando lei gli disse che “era una festa di selvaggi”, un “rituale per gente crudele”, che la carne cruda e il sangue la disgustavano tanto da farla vomitare, alzò al cielo le mani tremanti ed evitò di abbatterle sulla bocca della moglie solo perché era un giorno santo e aveva promesso a Dio di essere calmo e compassionevole.
[da Il paese degli altri di Leila Slimani, trad. di Anna D’Elia, La nave di Teseo, 2020]
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