Le vite nascoste dei colori. Il romanzo di Laura Imai Messina per riflettere sulle sfumature dell'amore

Marialuisa Bianchi

18/04/2023

In un girotondo di colori la brava Laura Imai Messina, nel libro “Le vite nascoste dei colori” (Einaudi), riesce a catturarci in un mondo dalle mille sfumature, molto lontano dal nostro, in cui i colori aleggiano e sussurrano. Siamo in Giappone e punto centrale è il bianco in tutte le sue sfumature. «Lo sai cosa significa il bianco nella nostra storia? Il bianco è il colore più puro, il colore sacro per eccellenza. Si lega però, fin dall’antichità, al lutto più che alla vita. Il bianco è sempre stato il colore della fine, mentre il rosso è quello dell’inizio». Matrimoni e funerali, diverso dal nostro Eros e Thanatos di freudiana memoria.  
 
L’incontro tra i due protagonisti, con le loro opposte particolarità, ci fa vedere le possibilità di incontro tra le persone, in una combinazione che ha il sapore dell’alchimia, appunto dei colori o della magia. Certo la struttura del libro è complicata e densa e potrebbe all’inizio disorientare e annoiare, ma vale la pena andare avanti e poi rileggere alcune pagine per soffermarsi sui tanti spunti di natura filosofica o cromatica. “Un verde giovane, un azzurro vecchio sei anni, un giallo che fa il girotondo, il blu del cielo delle sette di sera. Erano parole che andavano crescendo con lei, e che gli adulti attribuivano a quel disordine allegro di chi sta imparando una lingua diversa da quella materna. Le donne Yoshida non mancavano mai di dare consigli sul giorno delle nozze: l’andatura da mantenere perché la parrucca restasse diritta, i piedi inarcati verso l’interno, lo sguardo che non fosse mai di una portata inferiore né superiore ai tre metri, il punto preciso in cui impugnare la veste con l’indice e il medio della mano destra perché non strusciasse sul sentiero”.
 
La trama di questo romanzo non è fondamentale perché si tratta dell’eterna storia d’amore fra due persone, apparentemente molto diverse: Mio e Aoi. Seguiamo le vicende che li fanno incontrare, separare, rincontrare nel gioco delle carte di chi si diverte a mischiare e separare i loro destini. Lui gestisce un’agenzia di funerali tipicamente giapponese, (racconta tutte le dinamiche che affliggono una famiglia nel momento del trapasso) incontra Mio, con la sua capacità, quasi magica, di leggere l’anima delle persone dai colori dell’aura. La madre della protagonista, proprietaria di un atelier di kimono nuziali, ha gelosamente custodito molti segreti con cui la figlia dovrà confrontarsi e con i quali pacificarsi. Atre complicazioni, altri amori e giardini, ma fondamentalmente un romanzo sulle sfumature della vita.
 
“Ecco, pensava Mio, la bellezza a ognuno rubava qualcosa. Rubava la vista a sua madre e sua nonna, rubava la pelle a suo padre e a suo nonno. Non c’era niente di facile, nella bellezza. Sembravano tutte così belle, eppure non ne capiva i sentimenti. Erano spaventate oppure felici? E se erano contente, perché avevano negli occhi quel desiderio di fuga? Possibile che dentro la felicità ci fosse anche tutta quella paura?
«Ma è normale, Mio, – le disse un giorno la nonna. – Vengono a scegliere lo shiromuku, ma si preparano anche un poco a morire». In entrambi i casi il passato si ferma, sia che si muoia, sia se si esce dalla casa del padre e si smette di essere parte di quella famiglia. Si muore cioè come figlie, e si rinasce nella nuova casa. Una nuova vita e una grande incognita. In fondo è esattamente ciò che non sai di una persona a farti innamorare– le diceva ridendo la madre. – Mio, cerca di trovare anche tu qualcuno di cui non sai quasi nulla. Ne rimarrai innamorata tutta la vita». Talvolta, il padre parlava a Aoi del lutto. Di come pareva servissero diciotto mesi per consolarsi della morte di un genitore e di come, per superare la fine di un amore, servisse lo stesso tempo. Soprattutto serve ascoltare, perché l’ascolto è sempre la forma d’amore più grande. Con i “Rimasti” (termine coniato per indicare coloro che restano in una famiglia dopo il funerale) serve prenderli per mano e aiutarli a trasformare la presenza in assenza.
 
“Mio si ritrovò a pensare a come, per quanto si cresca, il desiderio di essere protetti resti. Innamorarsi, significava forse questo eccesso di materia, questo troppo nello spazio limitato del cuore “e si domandò con sorpresa perché mai in amore, persino in un amore giovanissimo come quello, ci si svelasse così tanto. E non era nemmeno una questione di fiducia, bensì di insensato stupore nel sentirsi parlare di cose talmente private che a chiunque le avesse origliate sarebbero parse incoscienti. Rivelare così tanto di sé era pericoloso: non per la paura che i suoi ricordi venissero dispersi nel mondo, ma per lo smisurato potere emotivo che ognuno di noi consegna agli altri, quando racconta la propria storia con le proprie parole”.
 
Aoi diceva che la morte è come una pianta dentro ognuno di noi. Che nasciamo con quel seme all’interno e quello si sedimenta, spunta, cresce via via che cresciamo, ma ci voleva del tempo: avrebbe imparato “la lezione del fare a meno di”, che in fondo era tutto ciò che serviva in un lutto. Anche crescere significava andare avanti senza, e ogni anno, a ogni svolta, bisognava lasciar andare qualcosa. “Quello che non so mi trattiene ancora. Ogni tanto ho l’impressione che si muoia quando non si ha più voglia, quando manca la curiosità di sapere dopo cosa accadrà”.   Forse si muore per noia. Non proprio, ma quasi. L’amore, però, alla morte non crede. Si sente più forte.
 
Mio si ripeteva che le cose che non sappiamo sono ben più importanti di quelle che invece sappiamo. Sono parte di quel punto vuoto dentro ognuno di noi, quello intorno a cui si forma l’identità di ciascuno. Ma per sua madre al contrario non provava più nostalgia e dolcezza, perché vedeva in lei solo l’infedele, la cattiva della storia. Eppure sua madre le diceva che i nostri unici remi sono gli errori che facciamo, e che per andare avanti e migliorare serve usarli al meglio, ma ci sono dei momenti in cui non appena si sa non si è più in armonia con niente. Poi però le avrebbe sorriso, aggiungendo che, ad ogni modo, alla fine tutto va a posto. Basta armarsi di coraggio e pazienza.
 
Tuttavia all’interno, di quell’amore che la invadeva, Mio era incapace di riaffacciarsi all’esterno. Il cuore era preso. Riavvolgeva e svolgeva ossessivamente il ricordo di lui, certe frasi che aveva pronunciato. “Allontanava il pensiero di Aoi come si scaccia un mendicante insistente che ti segue anche se non hai nulla. Poi, d’un tratto, era lei che lo cercava, quasi stessero giocando a nascondino, e lui si era nascosto fin troppo bene, e la cena era pronta, e lei doveva stanarlo a ogni costo, maledizione! e pure di fretta”.  Ma Aoi lo sapeva, che il dolore è una cosa che aspetta, che concede più di una tregua; all’inizio non sconfina dal suo piccolo spazio, da bravo, ma superato un certo livello di consapevolezza scoppia, esonda, e alla fine si fa un’enorme fatica a delimitarlo. “Il dolore è come un bambino che non ascolta e tu dietro che arranchi, sempre più schiacciato dalla stanchezza. Se non vince per forza, vince per debolezza. E tu, in qualunque caso, ne esci perdente”.
 
Senza neppure immaginarlo, quello era il suo modo di restare vicina ad Aoi. L’anima aderiva ancora a lui attraverso una rete di riferimenti che si erano moltiplicati durante i loro incontri, e finché quell’aderenza persisteva, probabilmente Mio non avrebbe troppo sofferto la sua mancanza. “Sei un labirinto dai mille ingressi, per me. È facile entrare dentro di te, mi tendi in continuazione la mano. Una volta che sono dentro di te poi mi perdo. E allora resisto, chiudo gli occhi, riprendo i miei passi e in qualche modo ne esco”. Perché l’amore è una cosa che si moltiplica, e soprattutto è capace di moltiplicare anche le altre emozioni. “Se ci pensi, finché si sta bene non si esiste. Non ci si sente, in fondo neppure ci si capisce, – aveva concluso Mio. – Serve perdere un po’ l’equilibrio per vedere le cose”. Il sesso e l’amore sembravano a Mio elementi che per un caso fortuito si accordavano solo per un breve tratto di strada, e poi, per il tempo rimanente erano solo dei compromessi. Ma la storia forse ci dimostra altro? Chissà…. Un bel romanzo da gustare e sottolineare, da leggere senza fretta per riflettere sulle mille sfumature dei colori e dell’amore, della vita e della morte.
 
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Marialuisa Bianchi

Marialuisa Bianchi

Molisana d’origine, si è laureata in storia medievale a Firenze, dove vive. Ha insegnato Italiano e Storia nelle scuole superiori. Ha appena pubblicato per i tipi di Mandragora Storia di Firenze. La preziosa eredità dell’ultima principessa Medici che ha reso grande il destino della città. Precedentemente il romanzo storico Ekaterina, una schiava russa nella Firenze dei Medici e, nel 2021, La promessa di Ekaterina (edizioni End). Ha esordito con un libro...

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