Le storie belle e sconfortanti di Mircea Cărtărescu

Luigi Oliveto

20/10/2022

Potrà anche non piacere, ma un autore come Mircea Cărtărescu va comunque letto. Non solo perché, oggi, è il maggiore romanziere in lingua romena, ma per l’originalità della sua narrativa che – sotto la riconosciuta egida di numi quali JoyceKafkaPavić, Pynchon – sa distinguersi nel panorama letterario generale. È uscito ora in Italia, per la traduzione di Bruno Mazzoni, “Melancolia” (La nave di Teseo). Tre racconti racchiusi tra un prologo e un epilogo posti ancora una volta a connotare la poetica, la forza immaginifica, talvolta allucinatoria, della scrittura di Cărtărescu. Si estragga, ad esempio, un passaggio come questo: “Danzavo ora da una parte e dall’altra dell’Uscita, ero il portale, ero il guardiano, ero la cerchia d’angeli, ero la reggia, ero il mare. Il cervello, il cuore e il sesso, così spesso fino ad allora in disaccordo, erano ormai un unico organo, il cui pensare fluiva nel presagire, e il presagire in voluttà, e la voluttà si tramutava di nuovo in pensiero, e ogni cosa lacerava la mia pelle e si riversava nella pelle del prossimo, e lacerava anche quella per tracimare, in maniera torrenziale, travolgente e devastante, nell’icona del Tutto, che parimenti distruggeva per riversarsi nell’eterno e incomprensibile Nulla.” Tre racconti – dicevamo – che declinano il tema della separazione e della solitudine in tre fasi fondamentali della vita: infanzia, età della ragione, adolescenza. Perché "è nell'infanzia che ha inizio la melancolia, quel sentimento che ci accompagna per tutta la vita, quella sensazione che nessuno ci tiene più per mano". Ecco così un bambino di cinque anni, convinto di essere stato abbandonato dalla madre uscita per fare la spesa e che si muove solo in casa riorganizzando il proprio piccolo mondo segnato da quella perdita. Poi Marcel, di otto anni, che ha un legame fortissimo con la sorellina Isabel e quando lei si ammala non conosce più paure e rinunce pur di salvarla. Ivan è, invece, un quindicenne: facile a quell’età sentirsi l’essere più solo al mondo; difficile riassestarsi ogni volta nei propri cambiamenti di cui conserva in un armadio tutte le pelli (quando si innamora di Dora si chiede se anche le donne cambino pelle come gli uomini). La prosa avvolgente e visionaria di Mircea Cărtărescu, la sua capacità di far sconfinare la realtà nelle regioni più imprevedibili dell’inconscio e dei sentimenti, rendono questo libro bello e sconfortante. E non sembri una contraddizione di termini.
 
***

La mamma era uscita una mattina per fare la spesa e non era mai più tornata. Erano passati da allora settimane o mesi, o anni, erano passati in ogni caso molti, molti giorni, impossibili da numerare, tutti identici, poiché ogni cosa dal momento dell’abbandono era rimasta muta e paralizzata, e il bambino aveva perduto da tanto il senso del tempo. Per un po’ aveva conservato la speranza che la mamma sarebbe tornata, che a un tratto avrebbe sentito di nuovo la chiave nella toppa di casa, come un tempo, quando lasciava tutto per correre nell’ingresso e andare incontro alla donna altissima che entrava dalla porta carica di buste della spesa. “Cosa mi hai portato?” le chiedeva e, senza attendere la risposta, cominciava a rovistare nella borsetta per trovarvi, immancabilmente, caramelle con l’incarto rosso o verde, biscotti o una barretta di cioccolato con un disegno floreale sulla confezione. Quando gli pareva di udire il tintinnio della chiave abbandonava tutto e correva all’ingresso, poggiava l’orecchio sulla porta pitturata a olio, ma dall’esterno non si udiva altro che un tenue fischio, la corrente d’aria scura che attraversava la scala del bloc. Se ne tornava deluso in cucina e si rannicchiava per terra, sotto il grande apparecchio radio all’angolo, e piangeva sommessamente. Si riprendeva comunque in fretta, poiché alla fine si era abituato alla sua nuova vita, che non era priva di un fascino triste e singolare.
Da un tempo infinito viveva da solo nell’appartamento vuoto, impietrito nel suo enigma, nelle sue linee che si modificavano solo grazie all’illusione delle prospettive, quando il bimbetto passava da una stanza all’altra attraverso le porte spalancate. L’appartamento era modesto, di persone semplici e non troppo benestanti. Le pareti erano decorate con motivi naïf, ripetuti all’infinito, differenti in ogni stanza, come sul retro del gioco con le fiabe fatto di piccole tessere con cui giocava più volte al giorno, mettendo insieme con i tasselli di cartone i paesaggi fiabeschi della Regina delle nevi e di Madre sambuco. Ogni mobile era stato comprato a prezzo di grandi sacrifici e indipendentemente dal resto dell’arredo, eppure, stranamente, dopo un po’ essi perdevano ogni supponenza di oggetti solitari e si fondevano con gli altri, i tavoli da pranzo e i sofà e i tavolinetti e gli scrittoi e la toeletta con lo specchio e le sedie, ognuno collocandosi esattamente lì dov’era il suo posto e dov’era necessario che stesse, restando fisso lì per sempre. Da un certo momento in poi non era più comparso alcun mobile, tutto era rimasto sempre identico, come intrappolato in un cristallo di tempo, e a volte il ragazzo associava la scomparsa della mamma alla compiutezza cui era giunta la casa. Non c’era più nulla da portare dentro, neppure le caramelle avvolte in incarti colorati, neppure i denti di metallo della chiave della porta d’ingresso.
La casa era completa e il silenzio totale. Per tutto il giorno, da quando si svegliava e finché andava a letto, il bimbetto non faceva altro che passare di stanza in stanza, guardare minuziosamente ogni piccola cosa, ognuno di quei dettagli che in altri momenti aveva del tutto ignorato, ma che ora si rivelavano essere i mille volti della monotonia. Camminava a piedi nudi in cucina sulla graniglia arabescata, in cui aveva sempre visto figure e costruzioni strane, osservava le tubature sotto il lavandino fissate con il collante rosso, toccava la stoppa ruvida che spuntava sporca di mastice, guardava le cassette dell’elettricità alle pareti su cui era passata sbadatamente la pennellessa dell’imbianchino, e le bocchette d’aerazione ricoperte da scure ragnatele. Soprattutto la credenza verde, vecchissima, con specchi scheggiati e un po’ di vasi di porcellana disposti in alto, cui era impossibile arrivare, nemmeno salendo su una sedia, lo attirava con forza, per il fatto che non solo sembrava così vecchia e strana, ma odorava pure di stantio, di polvere, di moschicida e di vernice, tanto da farti desiderare di aprirne i cassetti serrati per recuperare qualche tappo di sughero con qualche scritta indecifrabile sopra o una batteria inutilizzabile per la quantità di sporco presente sulla linguetta di metallo, o un pezzo rotto di ebanite: l’impugnatura di un giravite la cui punta metallica si trovava in un altro cassetto... Lì c’era anche la porta a vetri che dava sul balcone, ma durante il giorno la porta era chiusa a chiave. Dai vetri si vedevano le cime dei pioppi, piene di lanugine, e più in là un’enorme costruzione di mattoni, con tantissime finestre con sbarre, la fabbrica di caucciù Quadrat. Sul frontone che squarciava le nuvole c’era un grande finestrone rotondo. Prima che la mamma sparisse, il bambino di tanto in tanto riusciva ancora a vedere qualche sagoma d’uomo che si stagliava sul grande cerchio scuro, arrivando a stento con la testa a metà del finestrone: un operaio che era uscito a fumare a quell’altezza smisurata. A volte, il bambino lo salutava con la mano dal balcone, e l’operaio gli rispondeva con gesti delle braccia molto più ampi. Poi però non aveva più visto nessuno. La cucina era luminosa, quasi diafana al mattino, verso l’ora di pranzo diventava priva di vita, come in un disegno, mentre a sera la sua luce tendeva al rosso scuro, colorando con ampie strisce d’ambra le pareti. A volte il bambino restava ore intere a vedere l’influsso di questi mutamenti di luce sul disegno dell’incerata sul tavolo in cucina: canarini, lucherini, uccelli azzurri dal nome sconosciuto che si alternavano a bruchi e cervi volanti. Era arrivato a cogliere il momento esatto in cui il disegno assumeva tre dimensioni e si sollevava così bene sopra il tavolo da fargli sembrare che insetti e uccelli fossero vivi. La sera tardi, quando il sole calava dietro la fabbrica, dell’incerata non restavano che il lustro smorzato nella penombra della stanza e l’odore chimico spuntato all’improvviso come una magnolia in tutta la cucina.
[…]
Ora giocava. Aveva un cavalluccio bianco di stoffa, imbottito di stoppa nodosa, con una criniera di corda marrone e la sella verniciata di rosso. Aveva anche un clown chiamato Hubert. Hubert aveva occhi stellati e una bocca con labbra molto spesse, truccate di rosso. E aveva anche un gatto di legno azzurro, con la faccia umana. Un tempo inventava storie con i suoi tre passatempi, ma per quanto variate potessero essere queste storie ogni giocattolo conservava la propria natura: il cavalluccio era sempre buono, Hubert era cattivo, mentre il gatto veniva in soccorso del cavalluccio, liberandolo dalla prigione in cui l’aveva gettato il saltimbanco, spezzando i ceppi che lo legavano, rimettendo al loro posto gli occhi che Hubert gli strappava via con grande crudeltà. Quando giocava, il ragazzo si perdeva. Era, a turno, il cavalluccio, Hubert e il gatto. O, per meglio dire, era la loro scena, il loro teatro in cui avveniva sempre la stessa storia: il cavalluccio era vessato in continuazione, in tutti i modi possibili, dal clown, così, senza un motivo, solo perché Hubert era cattivo, mentre il gatto azzurro, con la faccia umana, lottava con lui, lo metteva in fuga e liberava il cavalluccio. Il clown però ritornava, non c’era modo di liberarsene. Lo smalto sul muso del gatto era scomparso, dal momento che, quando lottavano, il volto del clown lo colpiva con tutte le sue forze e, là dove un tempo erano stati disegnati con una vernice brillante le vibrisse e la piccola lingua rosata, adesso non si vedeva altro che il legno.
Mentre giocava, il ragazzo parlava in continuazione, imitando la voce esile e piagnucolosa del cavalluccio, quella aspra di Hubert, quella supplice del gatto azzurro. Era l’unico momento del giorno in cui parlava. La casa risuonava delle sue parole, perché altrimenti c’era un silenzio assoluto. In un pomeriggio di cielo plumbeo, mentre dava voce ai suoi balocchi, era cominciato a nevicare, e i fiocchi furiosi sibilavano con tale furia, sferzando le ampie superfici vetrate, che il bambino si era interrotto e aveva ascoltato i colpi gelidi della neve, che rendevano anche l’aria della stanza gelida e glaciale. Aveva chiuso gli occhi per ascoltare meglio quel sibilo uniforme, venuto all’improvviso da ogni parte, come se la stanza fosse un igloo nel mezzo dell’Antartico, che resiste immobile sotto le nevicate perenni. L’indomani, quando s’era svegliato di buon mattino, non riusciva a crederci: su tutti i vetri c’erano fiori di ghiaccio, fin su in alto, con spessi steli di brina e foglie trasparenti, perfettamente disegnate, da cui spuntavano altri steli e altre foglie, ...
 
[da Melancolia di Mircea Cărtărescu, trad. Bruno Mazzoni, La nave di Teseo, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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