“Le rose di Kathryn” è il titolo della raccolta di racconti di Luigi Oliveto uscita l’anno appena trascorso nella collana blutascabile di primamedia editore. L’autore, già noto per la pubblicazione di numerose opere, oltre che per la sua attività pubblicistica fin da giovanissimo, ha voluto incentrare l’attenzione dei lettori sul titolo di uno di questi suoi racconti perché Roberto, il protagonista, rappresenta più di tutte le altre figure che appaiono e scompaiono in quel mondo di “personaggi, situazioni, moti (direi stati) d’animo”, che permeano, che legano, come un filo sottile, tutte le vicende che si dipanano con leggero sentimento in tutte le storie. Perché Roberto (Robertino il finto tonto innamorato solitario di Kathryn)? Forse perché non si saprà mai “chi fosse la Kathryn del fascio di rose posate amorevolmente sopra il feretro”.
La raccolta è come un giallo, di quelli che vorresti arrivare all’ultima pagina per vedere come va a finire, chi è il colpevole e il perché. Ma qui non ci sono colpevoli. C’è una raccolta di sentimenti di vari personaggi che si presentano e poi scompaiono, all’improvviso come sono apparsi, con la loro (come li identifica l’autore) “cum passione” per la loro esistenza, della quale chiedono ragione e non ricevendo risposta si avviano nel loro destino, come per Roberto: “Quando è destino è destino”. Perché accanto a Roberto c’è Maso che sentiva i treni. Un matto fin dalla più tenera età, otto anni, sradicato dal basso Lazio e rinchiuso al San Niccolò, ospedale psichiatrico di Siena sorto agli inizi dell’Ottocento e chiuso con la Legge Basaglia. Tommasino, un matto che ripeteva nei momenti di lucida farneticazione: “oggi si sente il treno”; lui, orfano di madre dalla nascita, che non aveva mai visto un treno finché gli zii, con il magone in gola, lo vestirono con un vecchio completo del suo povero babbo ammazzato sull’Ortigara e in treno lo accompagnarono a Siena. Aspettava il treno che lo riportasse a casa? Chissà! Quanti Tommasino, in quella che l’autore definisce “il villaggio manicomiale di Siena”, hanno aspettato invano qualcuno che li riportasse nel grembo materno. Si parla di manicomio e passi immediatamente con la mente alle teorie lombrosiane sull’antropologia criminale e la criminologia.
Ed ecco il “Delitto perfetto”: l’intrigo fra un farmacista che non aveva fatto mistero di elaborare una trama (per un film, un romanzo?) del “come fosse possibile assassinare qualcuno e farla franca” e un brillante studente di giurisprudenza, cultore di criminologia. Lascio volentieri ai lettori lo snodo della vicenda perché in quanto a intrighi gli Anni di Piombo dell’Onorevole Ciro Imbiancato “mago dell’intrallazzo”, che credeva così tanto nella valore della famiglia da averne due, che non sarebbe passato alla storia se nel corso di una banale (si fa per dire) sparatoria per rapina ordita dal suo figliastro fosse colpito a morte dallo stesso e relegato alla storia degli anni di piombo con la diffusione di un volantino: “Oggi un nucleo armato delle Brigate Rosse ha giustiziato Ciro Imbiancato, servo, etc. etc. etc.”. Da figliastri a figli il percorso è breve e ci porta in un’onirica, quanto spassosa vicenda dell’orologio di Colzana. Da non credere, qui il figlio unico dei proprietari di un’antica storica orologeria era bravissimo nello studio ma, badava a dire la gente di Colzana Marittima (il paese dove “il mare non c’è, ma da lassù, nelle giornate di sereno, lo si vede a perdita d’occhi), era “strano, troppo strano”. Il giovane, laureato con una tesi sull’idea del tempo, nell’intuizione bergsoniana che “il tempo non sia affatto misurabile” un bel giorno “si mise a fissare l’orologio della torre civica, mormorando: fermati, fermati, ho detto fermati”. Però, poi, aveva deciso di farlo ripartire e così per venticinque anni “Fausto, questo il nome del protagonista, non aveva mai smesso di esercitarsi in ciò che chiamava il gioco dell’orologio e siccome il prodigio non si limitava al solo orologio di piazza ma, per una specie di magnetismo avvolgeva tutti gli orologi del paese, il calendario di Colzana era molto indietro rispetto al resto del mondo. Con le conseguenze divertenti che la lettura del racconto ci riserba.
Ma la raccolta dei racconti è intrisa anche di grande sensibilità e di sentimento. Storie di tutti i giorni, di un’umanità sempre alla ricerca di sé stessa, come ci conferma lo stesso autore che è rivolta a “condividere con i propri simili, il pathos dell’esistenza declinata in tutti i suoi paradossi, bizzarrie, batoste, patemi, allegrezze”. Nel proseguire la lettura ci soffermiamo sulla struggente descrizione dell’intimo rapporto fra il ragazzino e “Nonno Augusto e le stelle”. Qui si apre uno scenario dal quale nessuno può astrarsi. Chi non ha avuto un nonno nel quale non ha riposto tutti i valori, le prospettive, le esperienze, la saggezza, gli affetti più cari? In questo caso poi c’è una simbiosi che trascende ogni possibile comprensione. Di fronte ai “falò accesi per tutta la vallata”, come si usava una volta anche dalle nostre parti, il telescopio e la carta celeste, le “scorribande astronomiche” verso il Piccolo e il Grande carro, la scoperta delle costellazioni e i loro miti più antichi il nipote adolescente scivola nel sonno con Cassiopea negli occhi, nella convinzione che “sarebbe stato bello che gli esseri umani (i nonni) potessero essere ammirati anche milioni d’anni dopo la (loro) morte. E il nonno, per non morire, scompare lasciando l’aleatoria illusione che un giorno potrà tornare e se anche non potesse ritornare “non vuol dire che sia morto”.
Tante storie, tante anime. Chi va a cercare fortuna a Nord, lo zio Eugenio che regala soltanto libri mentre in, “Finale aperto”, Giulia, ormai adulta, grazie al casuale riapparire di un libro caduto dietro l’armadio ritorna agli anni del Liceo, rifugge la nostalgia, ma non sfugge al richiamo del “libro redivivo”. La storia di un povero prete di campagna (DonLib) frastornato da una crisi esistenziale e di vocazione non sfugge, anzi si rifugia nell’alcol e al richiamo dell’amore per non sentirsi solo e inutile: una storia crudele, uno spirito a suo modo libero e generoso, che solo le anime più semplici sapranno compensare nel ricordo. La storia di un Babbo Natale che a pochi minuti dalla mezzanotte “non trovando il coraggio di ammettere la propria incapacità a soddisfare tutte le richieste” di fronte al consumismo e alla globalizzazione decide di dare le “dimissioni” da se stesso e chiede perdono al mondo. E così altre storie, altri racconti che prendono emotivamente nella lettura in un circolo da cui non sai riconoscere il principio né la fine. Come in “un’ordinaria storia di provincia” dove il protagonista Ermenegildo Maria Colombo (e già il nome è tutta una storia) detto Gildo quando eredita dal nonno la “fabbrichetta” di sedie in Brianza si trastulla nell’euforia del “tutto questo sarà tuo” ma poi sceglie di “vivere con l’anima in folle” (inedita questa affermazione) e sceglie di “coniugare la propria vita in forma passiva, senza nulla fare e, possibilmente, nulla pensare”.
Chiude le “storie di varia umanità” un lungo racconto in prima persona, che è quasi un romanzo a se stante, “Torre Saracena”, in una lunga trascinante Odissea di un sogno, reale-irreale, per la conquista della “sua torre”, la Saracena appunto, isolata sul mare dove solo “fra due punte sfalsate, quasi a formare una baia” si accompagna al Faro di avvistamento. Brucia la Torre, bruciano i sogni come ad ogni risveglio? Ai lettori il piacere di scoprire il giallo che compenetra questo e tutte le altre storie. Naturalmente, ci dice infine l’autore, ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale. O forse no. E come sempre da parte di chi scrive un invito a leggere appassionatamente.
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