Le regole dello Shangai. Quante cose hanno da dirsi il vecchio orologiaio e la giovane gitana

Luigi Oliveto

08/06/2023

Segno distintivo della scrittura di Erri De Luca è la scelta delle parole: precise, ponderate, ficcanti. Che tali devono essere per dare ragione a pensieri che dell’esistenza umana considerano quanto vi stia di primario e universale, ancorché annidato nelle cose minime, nei gangli dei sentimenti e di tutti i loro contrari. Ed ancora a parole nette, rivelatrici, procede il racconto nel suo ultimo romanzo “Le regole dello Shangai” (Feltrinelli). I due protagonisti non hanno un nome. Come avverte l’autore in premessa, i nomi non aggiungono niente alle persone, anzi tolgono. Lui è un anziano orologiaio che, incurante dei rigori dell’inverno, ha piantato tenda nei boschi prossimi al confine tra Italia e Slovenia per starsene un po’ in solitudine. Lei è una gitana di quindici anni fuggita dalla famiglia dopo la festa di fidanzamento che preludeva un matrimonio combinato con un vecchio. E’ buio quando, intirizzita dal freddo, scorge la tenda e chiede riparo. Viene accolta, e fin da quella notte prende avvio tra i due – così distanti per età, mondi di provenienza, cognizione della realtà – una consonanza tanto imprevedibile quanto illuminante nel guardare alla vita. La giovane gitana parla cinque lingue ma non sa leggere, sa predire il futuro sulle linee della mano, crede al fato e al dio delle cose; suona la fisarmonica, canta, balla, alleva corvi, si esibisce nelle piazze con un orso ammaestrato (un vero amico, l’unico essere che le dispiace di avere perduto). L’orologiaio era un quindicenne pure lui quando aveva cominciato a imparare quel mestiere di massima precisione. Qualcosa di magico, 200 pezzi in uno spazio così piccolo, un micro organismo con un subdolo nemico, la polvere: “La polvere inceppa gli orologi perché vuol essere lei a misurare il tempo. C’è un’antica lotta tra la polvere e gli orologi, a chi misura meglio il tempo. Vince la polvere, che è più antica”. L’orologiaio è arrivato alla conclusione di essere pure lui un ingranaggio dentro la macchina del mondo, e che quel mondo possa essere capito seguendo le regole dello Shangai, dove pazienza ed esattezza sanno ricavare ordine dallo scompiglio. Evoca questo gioco anche il dialogo (un lungo dialogo che andrà ben oltre le circostanze del primo incontro) tra lui e la giovane gitana. Parola dopo parola, mossa dopo mossa, i due si fanno consapevoli di sé e delle loro esistenze. Bella partita, giocata in modo pensato e sagace. Quanto alla veridicità della vicenda l’autore preferisce sorvolare. Qualcosa di più dice su quando è accaduta: “Si svolge in tempi recenti, se il 1900 lo è ancora.”
 
***
 
[…]
– Perché un vecchio se ne sta da solo d’inverno in una tenda? Non hai casa neanche tu?
– Ti sei scaldata. Ce l’ho una casa, sì. Vengo a starmene da solo per un po’, conosco la zona.
– Che fai tutto il tempo? Pensi alla morte?
– I giovani ci pensano. I vecchi ci hanno già pensato.
Passo il tempo giocando. So diversi giochi.
Hai sentito dire che i vecchi somigliano ai bambini?
– I bambini non dormono di notte in mezzo ai monti.
– Che ci fa una donna in giro d’inverno in mezzo ai monti?
– Che donna? Ho quindici anni.
– Dalla voce non si direbbe.
– La voce mi serve a scoraggiare gli uomini.
– Sono già scoraggiati, la generazione maschile più scoraggiata della storia umana.
– Che ne sai tu degli uomini? Lo posso sapere io di che specie sono, siete.
– Per ora sono della specie che ti ospita.
– Non hai paura di darmi le spalle?
– Prima ti ho chiesto chi sei. Era per sentire la voce, non per sapere.
Non importa chi sei. Se sei la morte accomodati, morte mezza morta di freddo.
– Sono di gente Sinti, in italiano si dice gitana, meglio di zingara. Scappo dalla famiglia per via di un matrimonio combinato con un vecchio di cinquant’anni.
– A che età cominciano i vecchi, dalle tue parti?
– Da trenta.
– Allora sono vecchio già da più di trent’anni.
– Mio nonno è morto meno vecchio di te.
– Mi dispiace per lui.
– Sono scappata due sere fa, dopo la festa di fidanzamento.
Ho disonorato mio padre con la fuga. Non posso tornare.
– Dove stanno i tuoi?
– Di là dal confine, in Slovenia.
– Hai attraversato le montagne d’inverno per morire?
– Conosco i passaggi. La mia famiglia fa contrabbando.
– Ti cercano?
– Per loro sono morta.
Però mio padre verrà a cercarmi, per far vedere alla famiglia che non la passo liscia.
Da noi non si può fare la storia della vostra religione, del ritorno del figlio scapestrato.
– Il figliol prodigo?
– Mio nonno diceva scapestrato.
– È una parola che non si usa, vuol dire di uno che si toglie dal collo il capestro, la corda dell’impiccato.
Ho sonno. Adesso dormo.
 
– Sei ancora sveglia? Sta nevicando.
– Meglio, si coprono le tracce.
– Allora ti cercano?
– Mi piace quando nevica. Non vengono a sgomberare il campo.
– Potevi scappare da altre parti, perché l’Italia?
– Non si scappa da qualunque parte, c’è poca scelta. Si vede che non sai come si scappa. Noi siamo abituati. I nostri accampamenti si svuotano in un’ora e non li trovi più. Ci sappiamo nascondere, saltare le frontiere. Ci ferma solo il mare.
– Perché l’Italia?
– Da voi le persone si fanno i fatti loro. Possono prendere a sassate ma non fanno la spia alla polizia.
– Parli bene italiano.
– Parlo cinque lingue. Non so leggere.
– Non vi insegnano?
– Basta uno a leggere e avvisa gli altri.
– E un libro non l’avete?
– Da noi le storie si raccontano la sera e cambiano un poco ogni volta.
La voce fa succedere le storie. Poi ci sono le mani che le fanno vedere, le mosse, le paure, le risate.
– Le parole che stiamo dicendo si possono scrivere, rimanere raccolte. Un proverbio dice che le parole volano e quelle scritte restano.
– Non c’è questa cosa da noi. Le parole restano dopo che si dicono. Gli scambi, gli affari, le nozze si combinano a voce.
 
[da Le regole dello Shangai di Eri De Luca, Feltrinelli, 2023]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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