Non è un romanzo, ma può essere letto come tale. È il libro “Vite scritte” di Javier Marías, pubblicato da Einaudi per la traduzione di Glauco Felici. Di che si tratta. L’autore ha scelto una ventina di scrittori e li ha raccontati come fossero personaggi letterari, cogliendo aspetti delle loro esistenze poco conosciuti, bizzarri, talvolta smitizzanti rispetto alla statura dell’opera che essi hanno prodotto. Incontriamo così un Faulkner fissato nel comprare cavalli fino a spenderci tutto il ricavato dei suoi scritti (cadde un paio di volte, cavalcando, facendosi seriamente male alla schiena), il lupo di mare Conrad che predilige starsene tranquillo in terra ferma, una Karen Blixen seduttrice di giovani poeti, Joyce visto nei gesti della quotidianità e molto preso dalle deiezioni della moglie Nora. Arthur Conan Doyle alle prese con le donne, Turgenev con la tristezza e Thomas Mann con i suoi patimenti. Madame du Deffand se la deve vedere, invece, con gli idioti, mentre in un sestetto di “donne fuggitive” troviamo Lady Hester Stanhope regina del deserto, Vernon Lee gatta selvatica, Adah Isaacs Menken poetessa equestre, Violet Hunt indecente babilonese, Julie de Lespinasse amorevole amata, Emily Brönte ovvero il maggiore silenzioso. L’unico italiano presente è Tomasi di Lampedusa, incallito fumatore e autore postumo per eccellenza. A un certo punto ecco intrecciarsi le vicende familiari di Conrad e James (che mal si sopportavano); analoghi incroci e livori si hanno per Madame du Deffand e Julie de Lespinasse. Javier Marías ricorre poi all’espediente della mise en abyme, e in un divertito gioco narrativo vediamo l'infanzia di Kipling e delle sorelle Brönte farsi ‘dickensiana’ o lo stesso Marías diventare un personaggio della biografia di Nabokov.
In premessa l’autore tiene a dire: “In questo libro si raccontano rigorosamente vite o scampoli di vite: raro è il caso in cui si emette un qualche giudizio sulle opere, e la simpatia o l’antipatia con le quali i personaggi sono trattati non corrispondono necessariamente all’apprezzamento o allo spregio che io posso provare nei confronti dei loro scritti. Ben lungi dall’agiografia, e dalla solennità con cui spesso si parla dei maestri artisti, queste ‘Vite scritte’ sono raccontate soprattutto, credo, con un misto di affetto e di scherzo.” E’ vero, c’è una sottile ironia nelle pagine di Marías, che, d’altra parte, non nasconde come, tra tutti i libri scritti, questo sia stato per lui il più divertente: “Forse perché, oltre che ‘scritte’, queste vite sono state ‘lette’.»
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William Faulkner a cavallo
Vuole la leggenda corrente della letteratura che William Faulkner abbia scritto il romanzo
Mentre morivo nell’arco di sei settimane e nella più precaria delle situazioni, vale a dire: mentre lavorava di notte in una miniera, con i fogli appoggiati sulla carriola rovesciata e facendosi luce con la flebile lanterna dal suo elmetto polveroso. È un tentativo da parte della leggenda corrente di far rientrare Faulkner nelle file degli scrittori poveri e sacrificati e un po’ proletari. Le sei settimane sono l’unica cosa vera: sei settimane d’estate nelle quali approfittò al massimo dei lunghissimi intervalli che gli restavano fra una palata di carbone e l’altra nella caldaia affidatagli in un impianto di energia elettrica. Secondo Faulkner, lì nessuno lo disturbava, il rumore continuo dell’enorme e vecchia dinamo era «pacificante» e il posto «caldo e silenzioso».
Su una cosa non vi sono dubbi ed è la sua capacità di astrarsi nella scrittura o nella lettura. Il lavoro nell’impianto di energia elettrica gliel’aveva procurato il padre dopo che l’avevano licenziato dall’impiego precedente, quello di responsabile dell’ufficio postale all’università del Mississippi. A quanto sembra, c’era stato qualche professore che aveva sporto ragionevoli lamentele: l’unico modo per ottenere la corrispondenza era quello di andare a rovistare nel secchio della spazzatura all’ingresso posteriore, dove spesso finivano direttamente, senza neppure essere stati aperti, i sacchi ricevuti. Faulkner non gradiva di essere interrotto nella lettura, e la vendita dei francobolli era calata in maniera allarmante: a mo’ di spiegazione, Faulkner disse alla sua famiglia che non era disposto ad alzarsi di continuo per occuparsi dello sportello e mostrarsi gentile con qualsiasi figlio di cagna che possedesse due centesimi per comprare un francobollo.
Forse fu lì che Faulkner diede vita a una innegabile avversione e allo spregio per la posta. Alla sua morte furono ritrovate pile di lettere, pacchi e manoscritti inviati da ammiratori che lui non aveva mai aperto. In realtà apriva soltanto le lettere che gli mandavano le case editrici, e queste con molte precauzioni: faceva una piccola incisione e le scuoteva per vedere se spuntava un assegno. Se non era così, la lettera passava a far parte di quel che può aspettare in eterno.
Il suo interesse per gli assegni fu sempre grande, ma non si deve dedurre da ciò che fosse un essere avido o avaro. Era piuttosto un dilapidatore. Spendeva rapidamente quello che guadagnava, poi viveva a credito per un certo periodo, fino a quando arrivava un nuovo assegno. Saldava i debiti e tornava a spendere, soprattutto in cavalli, tabacco e whisky. Non possedeva molti abiti, ma quelli che aveva erano costosi. A diciannove anni si era guadagnato il soprannome di «Il Conte» per la sua ricercatezza nel vestire. Se la moda imponeva pantaloni attillati, i suoi erano i più attillati di tutta Oxford (Mississippi), la città in cui viveva. Se ne allontanò nel 1916, per recarsi a Toronto ad addestrarsi con il Royal Flying Corps britannico. Gli americani non l’avevano accettato per mancanza dei titoli necessari, e gli inglesi non l’avevano ammesso per la bassa statura, fino a che aveva minacciato di volare per i tedeschi.
Una volta un giovane andò a fargli visita e lo trovò con la pipa spenta in una mano mentre l’altra era occupata a trattenere la briglia di un pony su cui montava sua figlia Jill. Il giovane, per rompere il ghiaccio, domandò da quanto la bambina cavalcasse. Faulkner non rispose subito. Poi disse: «Da tre anni», e aggiunse: «Lo sa? Ci sono soltanto tre cose che una donna debba saper fare». Fece un’altra pausa e finalmente concluse: «Dire la verità, cavalcare e firmare assegni».
Quella non era la prima figlia che Faulkner aveva avuto dalla moglie, Estelle, che già portava in dote due figli di un matrimonio precedente. La prima nata da loro due morì cinque giorni dopo la nascita. L’avevano chiamata Alabama. La madre era ancora debole, a letto, i fratelli di Faulkner non si trovavano in città e non riuscirono a vederla. Faulkner non vide motivi per tenere un funerale, dal momento che in cinque giorni la bambina aveva avuto soltanto il tempo di tramutarsi in un ricordo, non in una persona. Così il padre la sistemò in un minuscolo feretro e la portò fino al cimitero in braccio. Da solo la depose nella tomba, senza avvisare nessuno.
Quando ricevette il Premio Nobel, nel 1949, Faulkner dapprima fece resistenza all’idea di recarsi in Svezia, ma alla fine non soltanto ci andò ma, in «missione del Dipartimento di Stato», viaggiò per l’Europa e per l’Asia. Non si sentiva troppo a suo agio nelle numerosissime cerimonie a cui venne invitato. A una festa data in suo onore dai Gallimard, i suoi editori francesi, si ricorda che dopo ogni domanda di un giornalista, rispondeva in maniera sommaria e faceva un passo indietro. Alla fine, passo dopo passo, si trovò contro il muro, e soltanto allora i giornalisti ebbero pietà di lui o lo lasciarono andare perché intrattabile. Finì per rifugiarsi in giardino. Alcune persone decisero di addentrarvisi annunciando che andavano a parlare con Faulkner, ma fecero poi subito ritorno nel salone con la voce alterata e con scuse del tipo: «Che freddo fa lì fuori». Faulkner era taciturno, adorava il silenzio, e in fin dei conti si era recato soltanto cinque volte in tutta la sua vita a teatro:
Amleto tre volte,
Sogno di una notte di mezz’estate e
Ben-Hur era tutto quanto aveva visto. Non aveva letto nemmeno Freud, o almeno così rispose una volta: «Non l’ho mai letto. Nemmeno Shakespeare l’aveva letto. Dubito che l’avesse letto Melville, e sono sicuro che
Moby Dick non lo aveva fatto». Il
Don Chisciotte lo leggeva ogni anno.
Però sosteneva anche di non dire mai la verità. In definitiva, non era una donna, con le quali invece condivideva la passione per gli assegni e per il montare a cavallo. Diceva sempre di aver scritto
Santuario, il suo romanzo più commerciale, per denaro: «Ne avevo bisogno per comprare un buon cavallo». Affermava anche che non si recava spesso nelle grandi città perché non poteva andare fin lì a cavallo. Quando ormai cominciava a esser vecchio e tanto la famiglia quanto i medici glielo sconsigliavano seriamente, continuava a uscire a cavalcare e a saltare steccati, e cadeva di continuo. L’ultima volta che montò a cavallo sperimentò una di quelle cadute. La moglie vide dalla casa il cavallo di Faulkner, sellato, vicino al cancello, a briglie sciolte. Non vedendo il marito, chiamò il dottor Felix Linder e i due andarono a cercarlo. Lo trovarono a più di mezzo miglio, zoppicante, che quasi si trascinava. Il cavallo l’aveva disarcionato e lui non riusciva a sollevarsi, era caduto di spalle. Il cavallo si era allontanato di qualche passo, poi si era fermato e aveva guardato indietro. Quando Faulkner riuscì a sollevarsi, il cavallo gli si era avvicinato e l’aveva toccato con il muso. Faulkner aveva tentato di afferrare briglie però le aveva mancate. Poi il cavallo era scomparso in direzione della casa.
William Faulkner trascorse un periodo a letto, gravemente ferito e con forti dolori. Ancora non si era ripreso del tutto quando morì. Si trovava all’ospedale, dove lo avevano portato per verificare come evolvessero le sue condizioni. Ma secondo la leggenda non morì per quello, per la caduta da cavallo. Lo uccise una trombosi il 6 luglio 1962, quando non aveva ancora compiuto sessantacinque anni.
Quando gli chiedevano quali fossero i migliori scrittori nordamericani del suo tempo, diceva che tutti avevano fallito, ma che il fallimento migliore era stato quello di Thomas Wolfe, e il secondo miglior fallimento quello di William Faulkner. Lo disse e lo ripeté per molti anni, ma non si deve dimenticare che Thomas Wolfe era morto dal 1938, cioè, per quasi tutti quegli anni in cui William Faulkner lo diceva ed era vivo.
[da
Vite scritte di
Javier Marías, trad.
Glauco Felici, Einaudi, 2019]