Le nostre origini nella sfera dei miti

Roberto Barzanti

05/01/2011

I processi della globalizzazione provocano disorientamento, corrodono o vanificano confini consolidati, e per contraccolpo suscitano fanatismi identitari, spingono alla ricerca di nobili ed esclusive discendenze, di antenati fuori dal comune e al riparo da puntigliose contestazioni. Talvolta si rispolverano per vanità i miti di fondazione costruiti per spiegare le antiche origini. Invece sarà il caso di sottoporli a vaglio scientifico, di riscontrare assonanze e prenderli in esame come preziosissima letteratura buona per far capire molto, oltre ogni verosimiglianza, proprio per la sua ingegnosità, fantastica ma orientata. Oggi, d’altronde, ha acquistato nuovo risalto la dimensione città, così peculiare della storia italiana, con gli irriducibili contrasti tra centri vicini e le rivalità insormontabili che resistono ai secoli. “Fin dai primordi – scrisse Carlo Cattaneo in un saggio memorabile del 1858 – la città è altra cosa in Italia da ciò ch’ella è nel’oriente o nel settentrione. L’impero romano comincia entro una città, è il governo d’una città dilatato a comprendere tutte le nazioni che circondano il Mediterraneo. La fede popolare derivò la città di Roma dalla città d’Alba; Alba dal Lavinio, Lavinio dalla lontana Troia; le generazioni dei popoli apparvero alla loro mente generazioni di città”. La strenna che quest’anno offre la Monte dei Paschi cade a puntino. Omar Calabrese fa osservare che per sua natura “il mito ha un carattere fondativo” e che assolve una funzione essenziale: “Colloca in un tempo fuori dal tempo – o senza tempo storico – la questione delle origini, utilizzando le tecniche del racconto leggendario”: Si tratta di “leggende eziologiche”, che intendono spiegare, appunto, le cause, le modalità delle nascita del nuovo insediamento. I miti di fondazione vanno accettati per quello che sono. Già Tito Livio – annota Maurizio Bettini, in un altro dei quattro saggi introduttivi di respiro generale – aveva fatto tesoro di un criterio che lo esentava dal sottoporre a verifica critica “racconti più confacenti – scriveva – alle poetiche narrazioni fantastiche  che non alle schiette testimonianze”. Questi due punti sono da tenere ben presenti nel leggere con la calma dovuta, un po’ alla volta, la bella strenna: Miti di città, magnificamente realizzata da Salvietti & Barabuffi su progetto di Catoni Associati e curata, oltreché da Bettini e Calabrese, da Maurizio Boldrini e Gabriella Piccinni. Sono stati coinvolti  molti altri autori che sarebbe complicato citare tutti. Una menzione almeno per Giulio Rebecchini, Lionello Puppi, Marcello Flores, Antonio Prete, Monica Granchi e Antonio Tabucchi. Si è voluto offrire “un libro – precisa Boldrini  nell’introduzione – che fosse direttamente collegato alla produzione scientifica”e in grado di gettare uno sguardo pluridisciplinare su ambiti non abbastanza frequentati. È molto istruttivo passare in rassegna i discorsi che hanno investito alcuni luoghi esemplari per cavarne un atlante di figure e di storie che si rivela squadernare un mucchio di elementi comuni. È una cura salutare contro le risse di sapore leghista ed è anche una dimostrazione di quanto abbia pesato, su scala europea, l’eredità della cultura classica e gli schemi che ho originato. I favolosi racconti erano carichi di una significatività che avvalorava istituzioni, culti, riti, usanze entrate nel calendario degli abitanti e modellava la loro mentalità, s’intrecciava con il dipanarsi delle stagioni, obbligava a cerimonie religiose e pubbliche onoranze. Le leggende sulle origini, propagandate con fierezza nell’epoca aurea dei Comuni suonavano anche come manifesti di indipendenza: “Furono le ambizioni politiche – scrive Piccinni –, fu la consapevolezza del presente, di ‘chi siamo’ o di ‘chi vogliamo essere’ che portarono con sé la ricerca (l’invenzione) di ‘chi siamo stati’”. Discendere per qualche via dai troiani o dai loro figli romani voleva dire immedesimarsi nell’epopea dell’assedio, sentirsi affratellati in un Comune-Polis. Basterà scrutare  da presso i due casi toscani che il volume racchiude – Firenze e Siena: monografie di analogo taglio son riservate a Bari, Bologna, Genova, Mantova, Milano, Napoli, Padova, Palermo, Roma, Siracusa, Torino-Asti, Treviso,  Venezia e Verona – per rendersi conto di quanto sia stato importante il lavorìo attorno ai miti. A Siena, a un certo punto, fu istituito un legame tanto diretto con Roma da inventare la fondazione della città a opera di Senio e Aschio, i nipoti di Romolo che per sottrarsi  alle ire dello zio Remo erano scappati portando via dal tempio di Apollo il sacrario della lupa. Ed ecco un frenetico moltiplicarsi di lupe in affreschi e su colonne, in piazze e palazzi, a onorare la prestigiosa discendenza. Firenze sorge sulla rovine di Fiesole e perpetuò il nome di Fiorino, un “martire laico”, che incarnò l’eroica e sfortunata opposizione alla violenza distruttrice. E la nuova città sarà chiamata Floria, perché vi nascevano fiori e gigli e si popolava con stupefacente velocità  del fior fiore della gente romana. Firenze, come molte città, sorge per integrazione tra popoli diversi e in conflitto. Essa ha due anime: l’anima buona proviene da Roma, quella aspra e feroce da Fiesole. Sergio Raveggi sottolinea  quanto sia sintomatica e infondata l’attribuzione a Carlo Magno di una parte essenziale nella rifondazione della città guelfa. Chi mai avrebbe potuto svolgere un ruolo del genere se non il campione delle difesa del papato e un sì valoroso combattente contro gli infedeli? Roba inventata di sana pianta, che  Giovanni Villani non si peritò a mettere per iscritto. Queste civiche “fiabe italiane” testimoniano quanto sia rozza l’ossessiva esaltazione delle radici, riscoperte e esibite per lumeggiare i fondamenti ideali di un popolo. In un saggio da rileggere (“Contro le radici. Tradizione, identità, memoria”, 2001) Maurizio Bettini chiarì assai bene che la tradizione in realtà si apprende. La greve metafora geologica delle radici – classiche perlopiù – fa credere che l’identità venga dalla terra. Niente di più fuorviante. I miti di fondazione ci invitano, semmai, a scrutare la mutevolezza delle nuvole, a sognare gesta di dei e di eroi, e un bestiario magico sopravvissuto fino ai nostri giorni.

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Roberto Barzanti

Roberto Barzanti
è un politico italiano. È stato parlamentare europeo dal 1984 al 1994, dal 1992 ha ricoperto la carica di vicepresidente del Parlamento europeo. Dal 1969 al '74 è stato sindaco di Siena. Dal 2012 è presidente della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena. Ha pubblicato "I confini del visibile" (Milano, 1994) sulle politiche comunitarie in tema di cinema e audiovisivo. Suoi saggi, articoli e recensioni tra l'altro in economia della cultura, il Riformista, L'indice dei libri del mese, Gli argomenti umani, Testimonianze, Gulliver, Il Ponte, rivista quest'ultima della cui direzione è membro. Scrive per Il Corriere Fiorentino.
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