Le mamme non dormono mai. Se nasci prigioniero la libertà devi inventartela

Luigi Oliveto

09/06/2022

Vengono detti Icam. Sono gli istituti a custodia attenuata per detenute madri. Strutture pur sempre di reclusione, ma dove quella ‘custodia attenuata’ indica il tentativo di offrire qualcosa che assomigli a un’esistenza normale. Vi si vive in similappartamenti, bilocali sotto sorveglianza in cui mamme colpevoli di reati scontano la loro pena insieme ai propri figli piccoli. Costoro sicuramente innocenti. Un’umanità pressoché invisibile che Lorenzo Marone racconta nel suo ultimo romanzo “Le mamme non dormono mai” (Einaudi Stile Libero) ambientato in un Icam napoletano. Toccante rappresentazione di vite recluse. Vite minime, marginali, percorse da rabbia, livore, sconforto (“A casa mia ’e feneste nun tengono ’e sbarre…). Lo sguardo di Marone è penetrante, empatico, fruga in quelle esistenze fragili, in quel ristretto universo che vive con esasperazione limiti e pochezze. Al suo interno troviamo Miriam, arrestata per detenzione illegale di armi (“Hai protetto l’uomo tuo, è così?”, le aveva chiesto il direttore al primo colloquio, “ma lo volete capire o no che a proteggere i vostri mariti passate un guaio voi?”). E’ lì insieme al figlioletto Diego, nove anni, un bambino mite, sovrappeso, con gli occhiali. Bullizzato dai ragazzi del quartiere, ora che ne è stato allontanato – e seppure in quella condizione innaturale – va incredibilmente migliorando. Ha preso fiducia in sé stesso, sa rapportarsi agli altri e farsi voler bene. Scopre in Melina una sorella dolce e sensibile, lei che fa tesoro delle “parole belle” per immaginarsi il mondo. La trasformazione di Diego incrina anche la ruvida corazza dietro cui Miriam cova risentimenti e sospetti. Conosce l’emozione della tenerezza, e così una crescente ricettività d’animo verso chi, insieme a lei, condivide, giorni, spazi e assilli. A preoccuparla è l’avvicinarsi del momento in cui Diego, per ragioni d’età, dovrà lasciare l’istituto. È vero che ne uscirà rafforzato e più sicuro, ma teme che non basti ad affrontare la crudezza di ciò che l’aspetta fuori. Storia intensa, tutta costruita sulla lunga arcata dei sentimenti. Un’opera per soli e coro, dedicata “a chi, prigioniero per nascita, s’inventa il modo d’essere libero”.
 
***
 
Al camion rosso mancava una ruota posteriore, così di camminare non era più capace, arrancava zoppo, ricordava un vecchio che non ha fretta di andare; nonostante ciò, restava comunque un camion speciale, in grado di tratteggiare straordinarie piroette nell’aria, parabole senza senso, anche pericolosi giri della morte, come un caccia dell’aeronautica che dà spettacolo. Il piccolo Diego accompagnava le sue traiettorie con rumorosi versi che imitavano il motore, lo portava sempre con sé, nello zaino o nella tasca del giubbino, e da lui mai si separava; gliel’aveva regalato il padre una mattina d’inverno, sotto il cavalcavia del rione s’era chinato davanti al suo viso e gli aveva ammiccato mentre tirava fuori il modellino, e poi gli aveva giurato che presto l’avrebbe portato su un camion vero, di quelli che guidava lui.
Ma non era accaduto, perché pochi giorni dopo l’avevano arrestato.
A nove anni Diego sapeva tutto di autocarri e poco di suo padre, che in casa non c’era stato mai. E così gli era parso che ad amare i camion, e a tenerseli vicino, gli riuscisse in qualche modo di tenersi vicino pure il papà, che una parola d’amore non gliel’aveva saputa dare, ma che da piccolo lo portava sulle spalle, e da lassù a Diego sembrava che la vita fosse una giostra colorata che non s’arresta. Con lo scalcinato camion tra le mani sentiva d’essere ancora a cavalcioni del padre, e s’immaginava con lui, in giro a consegnare le merci, s’intestardiva a credere che quella promessa prima o poi sarebbe stata mantenuta.
Si accovacciò sui talloni e inventò per il suo modellino un atterraggio d’emergenza, le ruote del piccolo tir scricchiolarono sull’asfalto e lui seppe riprodurre con la bocca un suono verosimile. Sbuffi caldi del suo alito si persero nell’aria. Dietro gli giungevano le urla allegre dei bambini impegnati a giocare; Diego non poté non voltarsi, seppur per un istante, e sullo scivolo ne vide alcuni che s’arrampicavano al contrario, e chiamavano le madri a gran voce per farsi ammirare. L’altalena invece la occupava una bambina che rideva d’ogni cosa, e con le gambe si spingeva sempre più forte nell’aria. Diego allungò il collo per guardare l’entrata del cortile, poi tornò al camion, mise anche le ginocchia a terra e sentì il pietrisco pungergli la pelle. Un bambino l’avvicinò, ma lui non disse nulla, a stare con gli altri non era abituato, negli altri Diego riponeva poca fiducia. Costrinse invece il suo piccolo camion a una curva a gomito, si rannicchiò e la testa la poggiò quasi sul selciato, mise il corpo a protezione del gioco, di quel momento solo suo nel quale a nessuno era permesso entrare. Perciò all’altro bambino non restò che andare via. Solo allora Diego sollevò il busto e di sbieco sbirciò quello che s’allontanava correndo, e per un attimo gli venne voglia di richiamarlo. Con il camion in mano si perse di nuovo a fissare l’ingresso, attendeva che sua madre Miriam tornasse a prenderlo.
I bambini s’erano ammucchiati ora tutti dentro una piccola casetta di plastica rossa con il tetto e le finestre blu, litigavano per chi doveva entrare e uscire. Le madri parlottavano a qualche metro, stavano strette nei loro scialli, per difendersi dal freddo pungente, e parevano non avere curiosità né dei figli né di lui. Il chiacchiericcio allegro dello spiazzo si dissipava nel cielo d’un azzurro intenso, un azzurro che Diego non credeva d’aver visto mai in città. A provarci, avrebbe potuto pure pensare che fosse una giornata bella, e che davanti ce ne sarebbero state tante altre. Capitava spesso negli ultimi tempi che la tristezza scendesse improvvisa sulle cose, a rubarsi il sorriso della mamma e il buonumore suo, allora in quelle occasioni lui strizzava gli occhi e provava a immaginarsi lontano, sul camion del babbo, a percorrere con lui una strada dritta in un giorno di festa, il vento d’estate che entrava dai finestrini, e suo padre allegro che mordeva un panino alla mortadella tenendo il grosso volante con una sola mano.
Provò a dirsi che sotto un cielo così le cose brutte semplicemente non possono accadere. Strizzò gli occhi e sperò di rivedere sua madre, che l’avrebbe portato via, a casa forse, o in un posto nuovo, dove ricominciare.
La magia non funzionò. Quando riaprì le palpebre, le risate e il vocio attorno a lui erano quelli di prima, e Miriam ancora non c’era. Alla finestra di una cella, però, una bimba nera di capelli lo fissava muta, il visino incastrato tra le sbarre.
Diego distolse lo sguardo e ricominciò a roteare il camion nell’aria leggera.
 
[da Le madri non dormono mai di Lorenzo Marone, Einaudi, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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