Il mondo della narrativa funziona così. C’è la pletora delle/degli ‘scriventi’; alcune/alcuni di successo, un po’ meno quelle/quelli di sicura bravura. Seguono poi, in risicata misura, ‘le scrittrici’ e ‘gli scrittori’, e di questi ogni secolo ne riconosce poche decine. Sul regesto del Novecento già è stato apposto il nome di Mario Vargas Llosa. Grande scrittore, appunto, che insieme a Gabriel García Márquez, Julio Cortázar, Carlos Fuentes, è considerato uno dei massimi esponenti del ‘rinascimento (el boom) latinoamericano’. La sua magistrale capacità di narrare è nuovamente offerta al piacere della lettura nell’ultimo romanzo “Le dedico il mio silenzio” (in Italia tradotto da Federica Niola per Einaudi). Ultimo romanzo nel senso proprio di conclusivo, poiché, salvo ripensamenti, costituisce l’opera con la quale l’autore ottantottenne intende chiudere la sua produzione narrativa. Questo, infatti, leggiamo in una nota a fine libro: “Adesso mi piacerebbe scrivere un saggio su Sartre, che è stato il mio maestro da giovane. Sarà l’ultima cosa che scriverò”. Se tali sono le decisioni, il titolo “Le dedico il mio silenzio” va ad assumere quanto mai un toccante significato di congedo. Forse perché pensata e scritta come opera finale, con questa storia Vargas Llosa torna in patria, in Perù. E per esprimere il legame con le proprie radici pone al centro della narrazione la musica popolare, qualcosa, cioè, dove arte, antropologia, sentimenti connotano un carattere, un’anima. Vargas Llosa si inventa così un personaggio, Toño Azpilcueta, massimo esperto di musica peruviana, le cui competenze non hanno trovato però i dovuti riconoscimenti. Durante gli studi universitari, apprezzato allievo del maestro Morones, aveva vagheggiato di potergli subentrare nella cattedra dedicata al folclore nazionale, ricoprire un ruolo nella cerchia intellettuale di Lima. Ma nulla di tutto questo era accaduto. Al pensionamento del professore la cattedra era stata soppressa per mancanza di allievi e Toño Azpilcueta si guadagna ora da vivere con l’insegnamento nelle scuole. Lenisce la propria frustrazione scrivendo di musica criolla su riviste minori, dove pubblica enfatici e dotti articoli o esibendo i suoi saperi in anonime conferenze. La grigia esistenza di Toño ha un sussulto il giorno in cui il celebre scrittore José Durand Flores lo invita ad assistere a un’esibizione del chitarrista Lalo Molfino. Nome assolutamente sconosciuto a Toño, stranamente sfuggito al suo maniacale archivio di artisti dediti alla musica popolare peruviana. L’esibizione risulterà qualcosa di stupefacente per il livello di bravura del giovane musicista e per le emozioni che riesce a trasmettere. Tutti hanno le lacrime agli occhi per la commozione. Davvero inspiegabile come questo ragazzo non abbia la fama che meriterebbe. Toño decide pertanto di adoperarsi affinché un genio di tale portata meriti di essere conosciuto e studiato. Lalo, però, sparisce nel nulla. L’ultima persona che lo ha visto è una collega cui, prima di eclissarsi, dice “le dedico il mio silenzio”. Su un siffatto mistero che potrebbe trasformare la figura di Lalo Molfino in mito, Toño rimotiva i suoi appassionati studi musicali. Vuole scoprire tutto su questo genio del quale niente si conosce: le sue origini, gli amori, la controversa indole. Perciò intraprende un viaggio attraverso il Perù segnato dalla guerra civile che vede sanguinosi scontri tra governo e i guerriglieri del Sendero Luminoso. Toño, proprio in nome dell’ineguagliabile Lalo, progetta di scrivere un libro sulla storia della musica criolla. Arriva a pensare come proprio quei ritmi, quelle melodie che eseguite da Lalo Molfino facevano piangere in un comune sentimento di appartenenza, possano assumere un valore morale, persino politico, per condurre il paese a una pacificazione.
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Per quale motivo poteva averlo chiamato quell’esponente dell’élite intellettuale peruviana, José Durand Flores? Il messaggio gli era stato riferito alla pulpería del suo amico Collau, che era anche una rivendita di riviste e giornali, e lui aveva richiamato, ma non aveva risposto nessuno. Collau gli aveva detto che la telefonata l’aveva presa sua figlia Mariquita, di pochi anni, e che magari non aveva capito bene i numeri; di sicuro avrebbe riprovato. A quel punto le oscene bestiole che a suo dire lo perseguitavano fin dalla più tenera età avevano cominciato a far impazzire Toño.
Per quale motivo poteva averlo chiamato? Toño Azpilcueta non conosceva personalmente José Durand Flores, ma sapeva chi era. Un apprezzato scrittore, cioè una persona che Toño un po’ ammirava e un po’ detestava perché se ne stava lassù e veniva citato con epiteti come «illustre letterato» e «celebre critico», i consueti elogi che in quel paese si guadagnavano fin troppo facilmente gli intellettuali appartenenti a quella che Toño Azpilcueta definiva «l’élite». Che cosa aveva fatto quel personaggio fino ad allora? Era vissuto in Messico, ovviamente, e nientemeno che Alfonso Reyes, saggista, poeta, erudito, diplomatico e direttore del Colegio de México gli aveva scritto una prefazione per la sua celebre antologia Ocaso de sirenas, esplendor de manatíes, pubblicata da quelle parti. Si diceva che fosse un esperto dell’inca Garcilaso de la Vega, che ne avesse riprodotto la biblioteca a casa sua o in qualche archivio universitario. Era molto, ovviamente, ma non così tanto, anzi, in fin dei conti quasi niente. Richiamò e di nuovo non gli risposero. E loro, i roditori, erano già lì e si muovevano su tutto il suo corpo, come capitava ogni volta che era eccitato, nervoso o impaziente.
Toño Azpilcueta aveva presentato alla Biblioteca Nacional del centro di Lima la richiesta di comprare i libri di José Durand Flores, e anche se la signorina che lo aveva servito aveva detto di sì, che lo avrebbero fatto, non li avevano mai acquisiti, quindi Toño sapeva che si trattava di un accademico importante, ma non sapeva perché. Il nome gli era noto per via di una stranezza che tradiva o smentiva i suoi gusti esterofili. Tutti i sabati, sul giornale «La Prensa», pubblicava un articolo in cui parlava bene della musica criolla e persino di cantanti, chitarristi e suonatori di cajón come Caitro Soto, che aveva accompagnato Chabuca Granda, cosa che, ovviamente, portava Toño a nutrire una qualche simpatia nei suoi confronti. In compenso, per gli intellettuali raffinati che disprezzavano i musicisti criollos, che non li citavano mai né per elogiarli né per metterli in croce, nutriva un’enorme antipatia – dovevano andare all’inferno.
Toño Azpilcueta era un erudito nel campo della musica peruviana – tutta, quella della costa, quella delle Ande e persino quella amazzonica –, a cui aveva dedicato la sua vita. L’unico riconoscimento che aveva ottenuto, perché di soldi non se ne parlava proprio, scontato, era di essere diventato, soprattutto dopo la morte di Morones, il grande professore originario di Puno, il maggior esperto di musica peruviana del paese. Aveva conosciuto il suo maestro quando era ancora alla scuola La Salle, poco dopo che suo padre, un immigrato italiano dal cognome basco, aveva preso in affitto una casetta a La Perla, dove Toño era vissuto e cresciuto. Una volta morto il professor Morones, era diventato lui l’«intellettuale» che sapeva di più (e scriveva di più) della musica e dei balli che costituivano il folclore nazionale. Aveva studiato all’Universidad de San Marcos e si era laureato con una tesi sul vals peruviano seguita dallo stesso Hermógenes A. Morones – Toño aveva scoperto che quella «A» puntata celava il nome Artajerjes –, del quale era stato assistente e discepolo prediletto. In qualche modo Toño aveva anche portato avanti i suoi studi e le sue ricerche sulle musiche e sui balli regionali.
Al terzo anno il professor Morones gli aveva permesso di tenere alcune lezioni e alla San Marcos si aspettavano tutti che, quando il suo maestro fosse andato in pensione, Toño Azpilcueta avrebbe ereditato la cattedra. Anche lui era convinto che sarebbe stato così. Perciò quando aveva concluso i cinque anni di studi alla facoltà di Lettere, aveva continuato le ricerche per scrivere una tesi di dottorato che si sarebbe intitolata I «pregones» di Lima e che, naturalmente, sarebbe stata dedicata al suo maestro, il dottor Hermógenes A. Morones.
Leggendo i cronisti coloniali, Toño aveva scoperto che i cosiddetti pregoneros cantavano invece di declamare le notizie e le disposizioni comunali, che dunque giungevano ai cittadini accompagnate da una musica verbale. Grazie alla signora Rosa Mercedes Ayarza, grande esperta di musica peruviana, aveva saputo che i pregones erano il rumore più antico della città, visto che i venditori ambulanti annunciavano in quel modo i rosquetes, il bizcocho de Guatemala, il pesce fresco, il bonito, la cojinova e i pejerreyes. Erano i suoni più antichi delle vie di Lima. Per non parlare dei pregones delle venditrici di causa, di frutta, di picarones, di tamales e di tisanas.
Quando pensava a quelle cose, si infervorava fino alle lacrime. Le vette più profonde della nazionalità peruviana, quel sentimento di appartenenza a una comunità unita dalle stesse disposizioni e dalle stesse notizie, erano impregnate di musica e di canti popolari. Avrebbe dovuto essere il nucleo più significativo di una tesi sviluppata su un mucchio di schede e quaderni, tutti conservati gelosamente in una valigetta, fino al giorno in cui il professor Morones era andato in pensione e con il volto addolorato lo aveva informato che la San Marcos aveva deciso, invece di nominarlo suo successore, di sopprimere la cattedra dedicata al folclore nazionale peruviano. Era un corso facoltativo e ogni anno, cosa inspiegabile, inaudita, aveva sempre meno iscritti tra gli studenti della facoltà di Lettere. La sua triste fine era stata decretata dalla mancanza di alunni.
L’arrabbiatura che si prese Toño Azpilcueta quando capì che non sarebbe mai diventato professore alla San Marcos fu tale che stava per ridurre in mille pezzi ogni scheda e ogni quaderno conservato nella sua valigia. Per fortuna non lo aveva fatto, ma aveva abbandonato completamente il progetto e il sogno di una carriera accademica. Gli era rimasta soltanto la consolazione di essere diventato un grande esperto di musica e balli popolari o, come amava dire, l’«intellettuale proletario» del folclore. Perché Toño Azpilcueta sapeva così tanto di musica peruviana? Tra i suoi antenati non c’erano cantanti, chitarristi e meno che mai ballerini.
Suo padre, emigrato da un paesino italiano, aveva lavorato per le ferrovie delle Ande centrali, aveva passato la vita a viaggiare, e sua madre era una signora che entrava e usciva dagli ospedali per curare i suoi molti malanni. Era morta a un certo punto della sua infanzia, e il ricordo che Toño conservava di lei derivava più dalle fotografie che il padre gli aveva mostrato che dalle esperienze vissute. No, non c’erano precedenti nella sua famiglia. Aveva cominciato tutto da solo, a quindici anni, scrivendo articoli sul folclore nazionale perché aveva capito di dover tradurre in parole le emozioni che provocavano in lui gli accordi di Felipe Pinglo e degli altri cantanti di musica criolla. Aveva avuto un certo successo, tutto sommato. Aveva mandato il suo primo articolo a una delle riviste dalla vita effimera che si pubblicavano negli anni Cinquanta. Lo aveva intitolato Il mio Perú perché trattava, precisamente, della casetta di Felipe Pinglo Alva, nel quartiere di Cinco Esquinas, che Toño aveva visitato con un quaderno in mano, riempiendolo di appunti. Lo scritto gli era stato pagato dieci soles, che lo avevano indotto a credere di essere diventato il più grande conoscitore e scrittore di musica e balli popolari peruviani. I soldi li aveva subito spesi, insieme ad altri risparmi, in dischi. Era ciò che faceva con ogni spicciolo che aveva per le mani, lo investiva in musica, al punto che presto la sua collezione di dischi era diventata famosa in tutta Lima. Le radio e i giornali avevano cominciato a chiedergli i dischi in prestito ma, siccome glieli restituivano di rado, era stato costretto a diventare spilorcio. Avevano smesso di disturbarlo quando aveva scambiato la sua preziosa collezione con i materiali necessari per costruirsi una casetta a Villa El Salvador. Non aveva importanza, si era detto, continuava a portare la musica nel sangue e nella memoria, ed era sufficiente per scrivere i suoi articoli e perpetuare l’eredità intellettuale del celebre Hermógenes A. Morones di Puno, che riposi in pace.
La sua era una passione unicamente ed esclusivamente intellettuale. Toño non era né un chitarrista né un cantante, e neppure un ballerino. Da giovane aveva patito molto per il fatto di non saper ballare. A volte, soprattutto durante le peñas o le tertulias a cui si presentava sempre con un taccuino nella tasca della giacca, le signore lo invitavano a ballare e lui, bene o male, riusciva a fare qualche passetto di vals, che era piuttosto semplice, ma mai di marineras, di huainitos o di balli del Nord, i tonderos di Piura o le polcas. Non riusciva a coordinare i movimenti, gli si attorcigliavano i piedi; qualche volta era pure caduto – che figuraccia – e dunque aveva preferito assecondare la pessima fama di non saper ballare. Restava seduto, immergendosi nella musica, a osservare come uomini e donne molto diversi, venuti da tutta Lima, si fondevano nell’abbraccio fraterno che confermava, ne era sicuro, le sue intuizioni più profonde.
[da Le dedico il mio silenzio di Mario Vargas Llosa, trad. di Federica Niola, Einaudi, 2024]
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