Laura Pariani, una grande “raccontatrice”

Luigi Oliveto

18/07/2019

Laddove c’è un ribelle, che magari lotta per la giustizia e il riscatto dei poveri, ci sarà sempre una leggenda e qualcuno che la racconta. Nel caso dell’ultimo romanzo di Laura Pariani (“Il gioco di Santa Oca”, La nave di Teseo) a tramandare la leggenda è la cantastorie Pùlvara, una ‘camminante’ per le campagne della brughiera lombarda, che in cambio di “un tocco di pane nero” e di un bicchiere “di vinello asprigno”, canta e incanta quanti si raccolgono attorno a lei per ascoltare le gesta di Bonaventura Mangiaterra. Un ribelle, appunto, che nell’autunno del 1652 convince un gruppuscolo di uomini ad unirsi a lui per insorgere contro i soprusi di nobili e governanti. Bonaventura è un trascinatore le cui parole sanno ammaliare, sono “come miele”. Ad affascinare è proprio la sua Bella Parola, qualcosa che ha a che fare con l’evangelica Buona Novella applicata alla rivoluzione: le ricchezze devono essere equamente distribuite. Tanto è il suo carisma che l’iniziale, esiguo gruppo dei seguaci aumenta fino a preoccupare il potere costituito. Così che nobili e Inquisizione schierano contro di lui un poderoso esercito, e il confronto/scontro con questo ribelle si rivelerà per molti aspetti spiazzante. Vent’anni dopo, “spinta a tornare nella brughiera degli incanti”, la cantastorie Pùlvara ripercorre gli stessi luoghi, teatro dell’epopea del santo rivoluzionario, di colui che, affamato e assetato di giustizia, “raccontava del giardino di Santa Oca il cui premio attende alla fine di un lungo cammino chi non si dà per vinto”. Bonaventura è già leggenda tra i contadini della brughiera lombarda, ma essa – riordinandone il racconto – ne alimenta il mito. Lei, peraltro, conosce ‘il vero’ di quella storia, perché in gioventù, travestita da maschio, aveva fatto parte della banda di Bonaventura. Ora, dunque, con la sua “raccontazione”, ripercorre le stazioni di un sogno di giustizia, bello e tragico. E tappa dopo tappa (di casella in casella, come nel gioco dell’oca) si avvicina sempre più al mistero di Bonaventura Mangiaterra, fino a renderlo reale. “Se sai contare con la lingua sciolta, non sarai mai completamente perduto”, fa dire la Pariani alla cantastorie Pùlvara. L’autrice può affermarlo a ragion veduta. Lei sa ‘contare’ con grande efficacia, soprattutto in virtù di una lingua che combinando dialetto, latinorum giuridico ed ecclesiastico, cascami di francese, spagnolo, tedesco rimasticati in bocca di popolo, sortisce uno strepitoso effetto, evocante, talvolta spassoso. Ha perfettamente ragione la Pariani/Pùlvara: “a questa gente di brughiera [e a noi con loro, verrebbe da aggiungere] che cosa resterebbe senza le storie dei raccontatori?”.
 
***
Ottobre 1672
Casella numero quattro
I mercanti di bombasìne o i drappelli di soldati, che da Busto Grande si dirigono al porto di Tornavento, la chiamano Strada della Brughiera Granda. In realtà è soltanto un sentiero di sabbia, circondato da una folta boscaglia di roverelle, sambuchi e noccioli su cui si inarca un cielo di nubi grevi. Non sono molti i villaggi che traversa: tutti uguali, con tetti coperti da muschi, finestre cieche, vecchi pozzi, qualche melo selvatico, orticelli di verze delimitati da scése. È su questo sentiero che Pùlvara si sta inoltrando, nella seconda metà di ottobre nell’Anno Domini 1672, apparentemente senza una meta precisa, ma di certo confidando nel proprio fiuto di camminante.
Scosta i rami ormai spogli del biancospino e si avventura tra le ortiche che le arrivano al ventre; per non infangarsi raccoglie alle ginocchia la lunga gonna che la intralcia non poco. Tende l’orecchio ascoltando la vita della brughiera pulsarle intorno: cadono gli alberi, marciscono i rami tra le foglie infracidite al suolo; la bruma carezza allo stesso modo la sanguisorba e la felce, senza far differenza tra carpini e rovi. Snasa l’aria che sa di legno putrido, cercando di penetrare con lo sguardo oltre la massa oscura delle farnie. Le dà un brivido la sensazione che cento occhi seguano il suo passaggio sul sentiero silenzioso: la lepre scatta e fugge quando sente il suo odore; la volpe s’acquatta nel brugo; il cinghiale smette per un attimo di addestrare il suo piccolo prima di addentrarsi senza fretta nel cuore del bosco; il nibbio vola alto sorvegliandola; il succiacapre conta i peccati che Pùlvara porta sul gobbo eppoi apre il becco come se fosse pronto a ghermirle l’anima.
Incurante, Pùlvara prosegue con ostinazione. Conosceva un tempo questo finistèrre nostrano, l’ha traversato più volte in lungo e in largo vent’anni fa, epperciò molti particolari della brughiera li percepisce col cuore e con la memoria.
Si stira la schiena, sulle spalle la borsa le pesa. È lunga la via per arrivare al fiume e le giornate si vanno scorciando, conviene affrettarsi. È allora che sente, lontano, un suono misterioso, inquietante. Un corno?... Si alza lamentoso verso il cielo che si scurisce.
La mano di Pùlvara corre al coltellaccio da zingara che porta alla cintura; peraltro in mano stringe un bastone nocchieruto: è gallina vecchia e al caso saprebbe difendersi.
Di sicuro un villaggio è vicino, o perlomeno una cassìna. Meglio che lei prepari una storia: aver la lingua sciolta è sempre stata la mia salvezza, pensa Pùlvara. La gente di sta terra volpina ama infatti ascoltare racconti, poiché i nati in brughiera son creature ignude e spogliate d’ogni cognizione, simili a quella tavola rasa d’Aristotile nella quale non è scritta né dipinta alcuna cosa. Gente senza parole. Come dice il conto antico:
Ai tempi dei tempi, quando la terra l’era giovine, Domineddio spasseggiava nel sò paradiso. E siccome non ci aveva niente da fare, ha cominciato a creare le bestie dei boschi, l’erba tròja, i passerìtt e i salci da legare i cavàgni. Cammina cammina, ti inventa fulmini di qui, nebbia di là; e ruèdi, noccioli, lanche del Tesìn... Quando l’è stato stracco, ha detto: ‘Cià, dato che sono al lavoro, facciamo l’uomo.’ E subito ci si è messo. Ma siccome voleva essere bondanzioso, ne ha fatti due: il Ricco e il Poerètt. Compagni in tutto e per tutto. Ma quando son spuntati dal polveràme, quei due si son vardâ e l’han capito subito che qualcosa non andava. Di occhi ce ne avevan due, uno per sbarlugiare le settebellezze, l’altro per piangere. Così anche per le orecchie, ché una serve a scoltare i bei canti e l’altra per sentire i comandi. Lo stesso per i buchi del naso: uno per snasare la pacciatòria, l’altro per fiutare i pericoli. E s’ciàu. Ma la bocca l’era una sola. E allora come facevano a starci dentro allo stesso modo il Mangiare e il Parlare?... Allora il Ricco e il Poerètt vanno da Nossignùr Padreterno a chiedergli conto. Eccosì Domineddio decide la questione: ‘Alla bocca del Ricco darò il Parlare, ché tanto il Mangiare ce l’ha già di suo. Alla bocca del Poerètt darò il Mangiare e riempire il piatto sarà l’unico pensiero della sua vita. Tanto più che i poveri meno parlano e meglio è.’ È per questo, che la gente di brughiera non ha mai saputo parlare e far valere le sò ragioni...
È sempre così: i terrieri fanno cerchio intorno ai camminanti che sanno ben narrare, pendono dalla bocca che conosce le parole giuste per rendere viva e vera la raccontazione. Proprio per questo Pùlvara le storie le sceglie con cura, si può mica narrare qualsiasi cosa a chicchessia. E quando finisce di raccontare, le genti le offrono sempre da bere una scodella di quel vinello asprigno che produce sta terra magra e l’implorano: “Ancora una volta.” Ché anche se la storia ormai la conoscono, le parole solo quando sono pronunciate sono vive.
[…]
Mercoledì, 2 ottobre 1652
Santi Àngiar dul Signùr, luna nuova
Giuàn detto Gaĵna, terriero e cavatore
Cassìna dei Quattro Venti
“Il gallo che sta sul trespolo, il bianco, è il più forte. Mi ha dato delle belle soddisfazioni. Ma anche gli altri due si difendono con onore.” Alto sei piedi e massiccio come una quercia, Giuàn detto Gaĵna snocciolò i pregi del suo gallo da combattimento. E per dare più forza alle sue parole, il giovanottone batté un pugno sul palmo aperto della mano sinistra e sputò.
Da dove gli veniva la passione per ste bestie? Eh, sarebbe stata lunga storia da contare. Di sicuro, dai tempi in cui sopà l’aveva messo a servizio al crocevia dell’Infocata. Allora, anni fa, ci stava un’ostarìa: locanda sul cantòn, fa soldi anca il cojòn... Il padrone, Orsolino Mangiaterra, possedeva un gallo che usava per intrattenere i viaggianti quando si fermavano la notte: non di splendido piumaggio, ma feroce e animosissimo. Giuàn, che a quell’epoca aveva tredici anni, non aveva il permesso di avvicinarsi al recinto dov’era rinchiuso, solo padron Orsolino se ne prendeva cura, essendo molto geloso della sò bestia: dava l’impressione di averlo caro perfino più di somié Cunda o del nipote Bonaventura, carne della sò carne, ché era figlio di sotùsa Madalena, uccisa dai Franzé in una delle correrìe dopo la battaglia di Tornavento.
Quando Giuàn cominciò a servire a cà Mangiaterra, Bonaventura aveva dodici anni, uno meno di lui, epperò molto più mignonetto e così gracilino di ossa e muscoli da parere ancora un piscinlètt. Sonònna Cunda comunque non gli risparmiava nessuna fatica: “Serra la bocca, spacca la legna, corri a prender l’acqua al pozzo, fa’ il fieno per i conigli, hai lavorato male oggi epperciò filerai a dormire senza cena, e non osare piangere, ché le lagrime son robe da femmina.” E mai che sò nipote si ribellasse. Mai a dire: “Son stanco, ci ho la picùndria.” No. Citto-e-mosca, gnanca un frigno, nemmeno le sere che sonònna per castiganza lo chiudeva a dormire nel pollaio. “Lo facciamo per indurirgli il cuore,” spiegava Cunda Mangiaterra, “per farlo maschio animoso, ché la brughiera è terra di ferocia e chi non sa azzannare vien divorato.”
“In questo, devo ammettere, padron Orsolino e somié avevano ragione: la nostra è sempre stata terra di pericoli: gli eserciti vanno e vengono ai fianchi e alle coste di noi terrieri poverettini, senza darci tregua.
[…]
“Bonaventura era coraggioso fin da piccolo. Io sovente cercavo di nascondòni di sobbarcarmi parte del lavoro che sonònno gli assegnava, perché ero più forte e Bonaventura mi ispirava una certa qual tenerezza, ma ‘si vien grandi solo ingronchendosi le spalle,’ sosteneva Orsolino Mangiaterra e non c’era verso che mutasse parere riguardo all’educazione del nipote. Eccosì, come ho già detto, da bonòra stavamo infasciando il fieno via via che il sole l’asciugava, per poi riporlo in cassìna.”
Epperò all’udire padron Orsolino gridare, per un momento Giuàn rimase con la testa in una specie di stordimento d’aria, che nella memoria gli avrebbe poi dato, a ritornarci sopra col pensiero, l’impressione di un tuono prolungato. Rigirandosi, col torso avvitato, scorse il vecchio in mezzo alla porzione di prato in cui l’erba era ancora alta: immobile, nella destra la falce a mezz’aria, mentre con la sinistra indicava un punto della brughiera dove si apriva il sentiero proveniente da Busto Grande. Solo allora Giuàn si avvide che al margine della boscaglia era comparso un gruppo di soldati, con picche e archibugi. Subito padron Orsolino si buttò a gattoni nel prato, a rischio di rompersi mani e ginocchia, eppoi fece un lungo giragira tra i mucchi di fieno già infasciati, risollevandosi infine di scatto per correre verso cà Mangiaterra. Giuàn e Bonaventura lo imitarono raggiungendolo di pressa in cucina: sacramentando a mezzavoce, il vecchio e somié stavano nascondendo un fazzoletto di scudi nella buca sotto il cassone della farina. Bonaventura domandò se si trattasse della soldatesca dei Franzé che erano passati dal crocevia dell’Infocata quattro lune prima. Il vecchio rispose con una scrollata di spalle, mentre sua moglie si crocesegnava in fretta: “Ecché te n’infàla. Prega piuttosto Monsù Domineddio, che ci difenda dai loro rubarìzi... Perché, che siano Franzé o Ispagnoli o Imperiali, per noi fa istèss: danno guasto ai fieni e alla méliga, rubano la pollaglia e i fagioli, usano il nostro vino per lavare la schiena dei sò cavalli, per puro spregio di noialtri terrieri... Ladri che ruberebbero pure a Tònine Jesus in Croce, superbiosi come pavoni e senza vergogna come putànn.” Padron Orsolino raccomandò a Giuàn di stare all’erta: “Corri subito a controllare che la gabbia del gallo sia ben chiusa e bada di non fare avvicinare nessuno.” Eppoi, squadrando il nipote dall’alto in basso quasi lo stesse soppesando, aggiunse: “E tu, Bonaventura, comportati come ti abbiamo sempre insegnato: parla il meno possibile, ché in bocca serrata non entran mosche. E se ci riesci, fa’ pure finta di essere un pisquàn-gnagno che non capisce quel che gli dicono.”
 
[da Il gioco di Santa Oca di Laura Pariani, La nave di Teseo, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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