Impossibile dimenticare ciò che fu definito il più grande naufragio nel mar Mediterraneo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. È il 18 aprile 2015. Un barcone di migranti proveniente dalla Libia si rovescia in mare, i soccorsi giungono in ritardo e muoiono affogate un migliaio di persone. Un numero spaventoso che si fa ancora più impressionante quando sia pensato non come numero, ma una conta di vite umane, considerate singolarmente e guardate da vicino nei loro occhi, storie, affetti, speranze. La tragedia trovò un simbolo straziante nel corpo di un ragazzino maliano di 14 anni cui era stata cucita addosso una pagella scolastica, affinché i suoi bei voti potessero accreditarlo al sogno di un’esistenza migliore. Oggi quel toccante episodio viene in qualche modo evocato dal romanzo di Simona Sparaco “La vita in tasca” (Solferino). Non racconta, però, solo il dramma di un ragazzino costretto a lasciare il proprio paese e quanto resta della sua famiglia. In parallelo c’è la storia di un altro adolescente il cui disagio non è tanto legato a condizioni materiali, ma alle prese con problemi e sbandate dell’età. Ecco così Malik, spinto dalla madre, vedova e malata, a lasciare il Ghana con la pagella piena di 10 cucita addosso (in matematica è un fenomeno) per raggiungere a Nizza lo zio Zuri. Ed ecco Mattia, che vive a Milano con la madre divorziata e che poco apre i libri di scuola accatastati sulla sua scrivania Ikea. Entrambi hanno tredici anni, paure e incertezze di natura diversa, ma che ugualmente incombono sulle loro fragili spalle. Malik deve attraversare il deserto, il mare, vedersela con trafficanti di vite umane, approdare a un mondo sconosciuto, avverso. Mattia si salva dal bullismo entrando, però, in un brutto giro; lui ha da percorrere il deserto della solitudine affettiva, arrancare per darsi una identità, un posto tra i coetanei, una fiducia in se stesso. Due ragazzi. Ma anche due madri, lontane per geografia, condizione sociale, aspettative: ad accumunarle è la trepidazione che si prova per il futuro di un figlio, quel moto d’animo materno, uguale sotto ogni cielo. A un certo punto – strani e imprevedibili sono i casi della vita – accadrà che Malik e Mattia, con le loro diverse sfide, si ritroveranno a condividere qualcosa di veramente decisivo per il loro destino. Simona Sparaco ha prodotto un romanzo di grande intensità che, a ben pensarci, interpella sul nostro grado di accoglienza del futuro, fragile e incerto come l’adolescenza dei due ragazzi protagonisti, diversi nelle loro storie, uguali nella loro richiesta di cittadinanza nel mondo e, se possibile, di diritto alla felicità; o, perlomeno, a quanto più le somigli.
***
[…]
Malik osserva sua madre rientrare, vorrebbe correre ad abbracciarla, ma non ci riesce.
Lei si accuccia in fondo alla stanza, ai piedi della cesta dove tiene le ultime foglie di baobab. Sembra come rimpicciolita. Ha preparato del naboulou per cena e si è avvicinata una scodella. Il fuoco è spento e le arachidi sono state tritate. Malik avverte lo stomaco contrarsi. A giudicare dalla cena, sembrerebbe un giorno speciale, ma lui non si azzarda a chiedere il perché.
«Ho preso 10 in matematica» si limita ad annunciare, e la madre si volta.
I suoi occhi tornano vivi solo quando riceve una notizia del genere, o una lettera di Zuri.
«La prossima pagella sarà ancora più bella, vedrai.»
Fara sorride: «Era già la più bella possibile».
«Hélène ti saluta» aggiunge Malik, andando a sedersi al tavolo vicino alla finestra.
Da lì si vedono le stelle, e, ritagliato nel piccolo riquadro, c’è anche l’alberello che ha piantato suo padre: così esile e precario in mezzo a tutta quell’aridità, eppure un punto fermo da quando Malik ha memoria. Come la scuola, come Hélène, come il suo amico Sef.
«Parlami, Malik. Parlami delle storie che stai imparando.»
A Malik piacciono quelle della sua terra, dell’impero del Ghana e dei guerrieri che si cospargono il corpo di fuliggine quando partono in battaglia, ma sua madre preferisce ascoltare le vicende d’oltremare, di quei mondi lontani che sono per lei inaccessibili. Così, mentre Fara avvolge la carne nelle foglie di baobab, suo figlio l’accontenta, inventando laddove non ricorda.
D’un tratto il ragazzo si accorge che sopra il tavolino vicino alla porta, dove di solito tiene i libri di scuola, c’è una giacca nera, e subito accanto la scatola del cucito, che è rimasta aperta con le forbici in vista. Ma Malik non fa in tempo a chiedere che la carne gli viene servita davanti.
Fara si siede al suo fianco e con un gesto severo gli intima di non usare la mano sinistra, poiché Malik l’aveva già allungata, dimenticando le buone maniere. Lui subito si corregge, poi si avventa sul riso e sugli involtini con un’avidità tale che anche le dita gli finiscono in bocca. La madre sorride. Assaggia anche lei, ma con inerzia, come un uccellino molto stanco.
La carne si scioglie in bocca e l’intensità del sapore speziato s’irradia fin sopra le orecchie. Malik ignora le anomalie, come il fatto che sua madre abbia cucinato tutto quel cibo, e abbandona lo stato di allerta, che di solito lo accompagna da quando esce dalla scuola fino al momento in cui crolla nel sonno. Si limita a godere del pasto e del silenzio.
Intanto Fara si alza e raggiunge il tavolo di lavoro, dove riprende tra le dita la giacca impermeabile che deve ancora finire di cucire.
Una volta placata la fame, Malik si mette a osservare sua madre seduta di spalle. Così nera e ricurva, gli sembra un sacco della spazzatura. Vorrebbe di nuovo abbracciarla, tuffarsi nel suo odore come quando era bambino e vivevano in città, ma per pudore non lo fa. Non immagina che lei ha gli occhi lucidi al pensiero di doversi separare da lui e che gli sta cucendo addosso un nuovo destino.
Poco dopo Malik si alza e la raggiunge. Le posa una mano sulla spalla. «Ibu» la chiama. È così felice per quel 10 in matematica, si domanda perché la gioia negli occhi di sua madre si sia già spenta.
Fara non vuole che lui si accorga delle sue lacrime, così rimane ferma al punto da sembrargli indifferente.
Le dita di Malik premono sulla sua spalla e allora lei con una mano si asciuga furtivamente le lacrime e con l’altra le raggiunge. Le raccoglie tra le sue, gliele stringe. Poi emette un sospiro profondo, come se il contatto con le dita di suo figlio le fosse colato lungo la spina dorsale.
È chiamata a un compito difficile. Proprio lei, che diffida di tutto e riannoda ogni giorno il laccio che tiene strette le sue paure, deve spiegare a Malik che il mondo lo sta aspettando e che lui deve solo avere la forza di andargli incontro. C’è un orizzonte infinito di possibilità al di là del mare. Bamba è un territorio minato ormai, persino il sole è diventato ingombrante. Lei sarà forte per lui e lo aspetterà. Deve prometterglielo, anche se sa che non è così.
Finalmente trova il coraggio di voltarsi.
«Figlio» gli dice. «Io non la vedrò, la tua prossima pagella.»
Malik rabbrividisce. Sua madre ha la stessa espressione di quando gli deve dare una cattiva notizia e lui non vuole sentirla parlare di morte, in quel suo modo brusco e di poche parole, o sapere che è troppo stanca per andare avanti. Così fa per indietreggiare, ma lei lo arpiona con uno sguardo severo. «Tocca qui» gli chiede, allungandogli la giacca.
Malik resta immobile. La madre gli afferra di nuovo le dita e quasi bruscamente le porta a contatto con il tessuto impermeabile e rigonfio.
«Lo senti?»
Malik annuisce.
«È la tua ultima pagella, è solo questa che ti serve e la porterai con te.»
Malik deglutisce, la gola arsa e bollente.
«Non è qui che andrai avanti» continua sua madre «ma in un posto bello, pieno di acqua, di piante e di cibo».
Lui sgrana gli occhi, allarga la bocca.
«Sì, Malik, devi andare via» gli dice lei con voce ferma, e Malik si sente più piccolo di quando ha perso il primo dente ed era solo davanti al fiume.
«Dove andiamo?» chiede.
«Dove andrai tu» lo corregge Fara, quasi impassibile. «Raggiungerai lo zio Zuri in Europa.»
Malik continua a fissarla imbambolato, come se non avesse capito. Del resto il mondo non si è mai spinto oltre qualche ora di cammino lontano da lei, come potrebbe davvero capire?
«Malik?»
Lui scuote la testa, è ovattata, i suoni attutiti, la mente si oscura, i 10 nella pagella scompaiono, come i sapori della cena appena consumata e gli odori della sua casa, e quelli della scuola già troppo lontana. «Ma… ma tu cosa farai?»
«Io ti aspetterò qui.»
Le pupille del ragazzo oscillano nel vuoto.
«L’Europa, figlio. L’Europa.»
[da La vita in tasca di Simona Sparaco, Solferino, 2022]
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