C’era una volta l’uomo che non doveva chiedere mai. Perché sapeva chi era, cosa voleva, quanto valeva. L’uomo che non aveva dubbi, mordeva la vita, la percorreva a passi decisi e non certo per strade secondarie. Già intorno ai quattro mesi di vita, quando i testicoli si accomodavano nel posto deputato, lui poteva dirsi quel tipo di uomo. Come tale crescere, esistere, malamente tollerare lo sgarbo della morte. Questi sì che erano uomini: di solito mediocri, ma pienamente realizzati. Poi qualcosa è cambiato. Colpa delle stagioni che non sono più quelle di una volta. Infatti il clima è cambiato: culture, sensibilità, sentimenti. Così che l’uomo non sa più chi è. Al punto che tutti i giorni vorrebbe farla finita, ma il codardo dal fiero scroto non ne trova il coraggio. Ripiega allora sull’uccisione di qualche donna, che, solo per il fatto di essere migliore di lui, sta lì a ricordargli quanto sia inadeguato. Anche sui maschi che, vivaddio, non arriverebbero a tanto, ma faticano a liberarsi da stereotipi di genere, continuano a pesticciare tra i ruderi di una cultura patriarcale, non riescono a commisurarsi alla vita, potrebbe esercitare un effetto liberatorio la lettura dei racconti di Matteo Bussola raccolti sotto il titolo “Un buon posto in cui fermarsi” (Einaudi). Storie diverse, ma accumunate da un unico tema: la fragilità maschile. Còlta giustappunto fuori da certi stereotipi, nelle sue contraddizioni, nei rovesci delle tante maschere che hanno sembianza di maschio. Nel campionario umano di Bussola, ecco allora un uomo in carriera cui si rivela improvvisamente una dimensione della vita completamente diversa, e la persegue. La fatica di un padre nell’accogliere (che è molto più di accettare) la malattia mentale del figlio. Un anziano votato ad accudire la moglie malata di Alzheimer, accanto dunque a un essere reale, ma completamente assente. Il dramma di un asociale (tecnicamente un hikikomori) innamorato online, che vive il dramma di dover uscire dal proprio isolamento. Un bambino che apprende come la felicità significhi, talvolta, disattendere le promesse che altri, direttamente o no, ti hanno estorto. Gli uomini raccontati da Bussola non sono affatto forti. Ognuno sa trovare però una risposta al senso della propria vita: “Che la vita non è una montagna da scalare, un treno da non perdere, un obiettivo da centrare, ma è una piccola stanza da arredare con cura. Non è una cima da raggiungere a tutti i costi. È la scelta di un buon posto in cui fermarsi”.
***
Ti diranno che dietro ogni grande uomo c’è una grande donna.
Spesso è vero.
Quel che non ti diranno è che quest’immagine contiene già l’idea di cui cercheranno di convincerti per il resto della vita: che il tuo compito di uomo sia quello di stare sempre davanti.
Non ti diranno che esistono anche uomini, grandi o piccoli che siano, che coltivano la vocazione dello stare accanto, o quella di scomparire, o altri che di donne non ne hanno mai avute e, forse, mai ne avranno. Non ti diranno che, pure dietro un grande uomo, non c’è che una vita con il suo repertorio di inadeguatezze, di dolori, di inciampi e cadute. Di solitudini e incomprensioni, di giudizi taglienti, di immaginari disattesi e aspettative mal riposte. Figuriamoci dietro un uomo piccolo e ordinario. Figuriamoci dietro uno come me.
A volte dietro un uomo non c’è che un’ombra, tutto ciò che avrebbe voluto o potuto essere, e invece. Ci sono scie di rimpianti, una manciata di rimorsi, la sensazione di avere compromesso ogni cosa, di avere mancato il tempismo, di essere stato l’uomo giusto nel momento sbagliato o quello peggiore nel momento perfetto. Di avere deluso una donna o un uomo, un figlio o un genitore oppure sé stesso, continuando a ignorare quale fra queste sia la cosa davvero imperdonabile.
Quello che soprattutto non ti diranno è che a volte vinci proprio quando perdi.
Non ti diranno che ci addestrano alle vette, mentre ci sono vallate meravigliose. Ti sentirai forzato alla retorica della sfida, al culto dell’efficienza, al continuo e inappagato desiderio di un altrove, come se la vita stesse sempre da un’altra parte e mai qui, accanto a te. A vincere il mondo anziché imparare a camminarci dentro. A sognare il cielo piuttosto che perderti in un filo d’erba.
Molti anni fa mio padre mi ha fatto una domanda, una delle pochissime che mi abbia mai rivolto, perché poi, per il resto, da me non ha preteso che risposte a domande che sapeva solo lui.
Era estate, eravamo sulla spiaggia, il tramonto rendeva ogni cosa brillante e indefinita, mamma ci aspettava per rientrare, noi eravamo sempre gli ultimi. La pelle tirava cotta dal sole e papà mi aveva portato di nuovo a vedere i granchi.
– Che cos’è un uomo? – mi ha chiesto, entrambi eravamo chini sulle rocce.
– Un uomo?
– Che cosa fa di un uomo un uomo? – ha precisato.
Ci ho pensato un po’.
– Un uomo è uno che non si arrende, – ho detto cercando di impressionarlo.
Lui ha continuato a guardare i granchi, ne ha preso in mano uno che pareva riflettere la luce, si agitava fra le sue dita come un piccolo ballerino dorato.
– No, – ha detto. – Un uomo è uno che non mantiene le promesse.
È una risposta che non ti aspetteresti, vero?
Di solito si dice che un uomo è uno che le promesse le mantiene. Ho capito solo dopo molti anni quel che intendeva mio padre, come ho compreso il suo amore per i granchi: non la mantieni, una promessa, quando non sei come ti vogliono, non la mantieni quando contraddici i copioni già scritti, se nella fotografia sei fuori fuoco, quando scegli di non avere alcun potere in un mondo in cui il potere è maschile per definizione, e sai già che questa scelta ti renderà irrilevante e invisibile. Ma, forse, anche più libero. Non mantieni una promessa quando sei un marinaio che pianta un orto, o un contadino che prende il largo. Quando ritrovi il tuo senso in una deviazione, in una caduta, nel desiderio di restare a terra, accanto alle cose che scorrono in profondità, senza cedere all’imperativo morale di rialzarti subito. Quando accetti di essere incrinato, spaccato, di forzare la maschera di rabbia e violenza e controllo che ti spetterebbe per destino, quando ti senti inabile alle sfide e rifiuti la divisa che ti vorrebbero imporre per statuto.
Anch’io ho tradito una promessa a cui tenevo, sai? Ma non sono sicuro che questo faccia di me il tipo di uomo che intendeva papà.
Avevo giurato che per niente al mondo mi sarei perso il momento della tua nascita, e invece tu sei nato e io non c’ero. Però se vuoi possiamo recuperare adesso. Magari potrei raccontarti una storia. I padri fanno spesso così, raccontare storie è il loro modo per spiegare ciò che è davvero importante. E poi le storie che sentirai da bambino resteranno le più belle e, pensaci: questa per te sarà la prima.
Oltretutto, questa qui non la sa proprio nessuno.
Perché di solito un bambino arriva semplicemente grazie all’incontro di due persone, tu invece sei arrivato grazie a tanti piccoli gesti sghembi e improbabili, a scelte inattese, a una serie di imprevisti e risolutezze e vulnerabilità che, sommati insieme, disegnano la tua strada fino a qui. È una storia composta da tante storie diverse che sono in realtà la stessa, un racconto di uomini che hanno fatto come fanno i granchi quando devono diventare più grandi: hanno abbandonato una corazza di apparenti sicurezze esponendo alle intemperie il loro ventre molle. Si sono sottratti al conflitto, hanno deposto le armi, hanno accolto le proprie ferite per sperimentare un nuovo modo di stare nel mondo, perché hanno capito la stessa cosa che, mi auguro, un giorno imparerai tu.
Che la vita non è una montagna da scalare, un treno da non perdere, un obiettivo da centrare, ma è una piccola stanza da arredare con cura.
Non è una cima da raggiungere a tutti i costi.
È la scelta di un buon posto in cui fermarsi.
[da Un buon posto in cui fermarsi di Matteo Bussola, Einaudi, 2023]
Torna Indietro