“La straniera” di Claudia Durastanti, spaesata ma ubiqua

Luigi Oliveto

21/02/2019

Per sua stessa amissione, Claudia Durastanti, con l’ultimo romanzo “La straniera”, non ha avuto bisogno di ricorrere alla fiction. Ha attinto direttamente dalla storia della propria vita (e della propria famiglia) ritenendola interessante non solo per il contenuto, ma persino nella forma. È innanzi tutto una storia di migrazioni, e dunque di luoghi, mondi reali o metaforici; con tutto ciò che comporta spostarsi, viaggiare, conoscere, sentirsi ovunque stranieri, ma anche predisposti a mettere radici dappertutto. Nipote di emigranti lucani, l’autrice è infatti nata a Brooklyn, a sei anni è tornata in Basilicata, oggi vive a Londra. Avverte l’autrice: “La storia di una famiglia somiglia più a una cartina topografica che a un romanzo, e una biografia è la somma di tutte le ere geologiche che hai attraversato”. E a seguirla in questo attraversamento di luoghi, tempi, sentimenti sono costretti i lettori. La narrazione ruota attorno alla figura della madre, irrequieta ragazza degli anni Settanta, affetta da sordità, sempre in giro per il mondo. Già è romanzesca la relazione sentimentale che essa instaura con colui che sarà il padre della scrittrice, sordo pure lui. Un legame passionale e problematico, che anche in ragione del loro handicap li fa ora forti (risentiti) ora fragili (isolati) verso il mondo esterno. Poi, come in una sorta di dissolvenza, la vicenda esistenziale dei genitori lascia la scena alla figlia, con nuove perlustrazioni in luoghi conosciuti o da scoprire, a ridisegnare mappe di terre e di sentimenti, di passato e futuro, luce e oscurità, scelte e casualità, ragione e cuore. Sempre con l’animo di chi – da straniero – in ogni luogo prova, al contempo, spaesamento e sintonia. Chiedendosi dove e quale sia casa sua, misurandone continuamente la distanza.
 
***
Mia madre è nata gli ultimi giorni del 1956 in una masseria sul fiume Agri, in Basilicata. Di solito i miei nonni materni alloggiavano in paese d’inverno e non in quel fabbricato mezzo distrutto, ma erano stati sorpresi da una nevicata e così mia madre è nata in una stalla circondata da gatti e bestie magre. I suoi genitori lavoravano nei campi e lei trascorreva molto tempo con le nonne. Una di loro era una accidental American come me: era nata in Ohio dove suo padre era di passaggio – non abbiamo notizie di questo nomade o soldato di ventura, sappiamo solo che ha dato inizio a una serie di migrazioni sconsiderate – e poi si era trasferita in Basilicata con la madre, trasformandosi in un’immigrata al contrario che abbandonava il futuro per disintegrarsi nel passato. (A sei anni avrei fatto la stessa fine, trasferendomi da Brooklyn a un paesino lucano in cui c’erano più capi di bestiame che persone.) In paese veniva trattata come una persona misteriosa: anche se non parlava mai in inglese aveva sempre prodotti di marche strane, stoffe di jeans che resistevano all’usura e candele che non si scioglievano nonostante ardessero per ore. L’altra nonna era silenziosa e vulnerabile, il suo mondo era definito da apparizioni cineree nel cielo, esorcismi fatti con un cucchiaio d’argento posato sulla fronte, andava alle processioni scalza ed era convinta di avere un dialogo privilegiato con la Madonna.
Quando ero piccola, mia madre mi portava a passeggiare lungo il fiume vicino al quale era nata, e io faticavo a ricongiungerlo con le acque mitiche e tumultuose in cui era stata immersa a quattro anni per farle abbassare la febbre della meningite. Appena si erano accorti che aveva la temperatura alta erano corsi a bagnarla nel fiume, ma stando ai medici e ai vicini di casa quel rimedio impulsivo non sarebbe servito a nulla. L’infezione poteva farla diventare cieca, matta, sorda o morire, e tutte le donne impegnate a sorvegliare sulla sua esistenza e a pregare vicino al lettino in cui stava annodata e spenta votarono a favore della sordità. Sarebbe stato difficile, ma almeno avrebbe visto il mondo e avrebbe trovato un modo per farsi capire.
Mio nonno Vincenzo era basso, scuro e donnaiolo. Quando lui e mia nonna Maria sono emigrati in America negli anni sessanta, non lo hanno fatto perché erano poveri – lo erano – o perché avevano bisogno di un lavoro migliore, ma perché lui era troppo galante con le donne del paese, e mia nonna ne soffriva. Suonava la fisarmonica ai matrimoni e alle feste, portava pantaloni scuri e camicie rimboccate ai gomiti, non aveva capelli bianchi tra quelli tirati indietro con la gelatina. Il loro era stato un fidanzamento combinato: erano cugini di primo grado e a volte, a sentire le chiacchiere e i pettegolezzi dei compaesani, sembrava che i miei zii fossero nati bassi e mia madre fosse diventata sorda per quella cattiva ricombinazione del sangue. I miei nonni avevano infranto le leggi della distanza ed erano stati puniti per questo, ma mia madre ha perso l’udito per colpa di una malattia infettiva e i miei zii erano bassi come tanti ragazzi del Sud in quegli anni. Gli aristocratici e i vampiri si accoppiavano tra loro per preservare la specie, secondo gli antropologi poco accurati invece alcune tribù africane lo facevano per evitare le maledizioni, quando in realtà esistevano dei codici precisi per impedire un eccesso di familiarità tra amanti; a volte era impossibile fidanzarsi persino con un ragazzo con lo stesso animale guida, e chissà se nella mia famiglia gli amori finiti male erano dovuti proprio a quello, all’incontro di fantasmi e totem impossibili da conciliare.
Mia nonna è stata una moglie da letteratura contadina, mite dove lui era pirotecnico, pratica quando lui era evasivo. Aveva la pelle chiara e una bocca larga e sottile. Da adolescente era stata infatuata di un altro ragazzo, timido come lei, ma mio nonno era quello che tutte volevano: non c’era scelta. Rinunciare all’invidia degli altri, questo è il vero tabù in un piccolo paese. Se qualcuno diceva qualcosa di meschino, lei scuoteva la testa oppure tappava la bocca al malcapitato; non si arrabbiava molto spesso. Non sapeva come difendere sua figlia quando la chiamavano “la muta” o le dicevano che era una poveretta a cui Dio doveva fare più attenzione.
Mia madre in realtà si difendeva da sola e non provava indulgenza verso chi non la capiva quando parlava: a quattro anni ha versato un calderone d’acqua bollente su una vicina che stava spettegolando su di lei, lo aveva capito da come la donna gesticolava e la guardava con commiserazione. Era rimasta affacciata alla finestra a ridere, suscitando la segreta approvazione dei suoi familiari.
Andava d’accordo solo con i suoi fratelli e con le nonne che parlavano in dialetto a bocca stretta; il loro labiale era impossibile da decifrare ma avevano un istinto al gesto e la toccavano sempre, così come mia madre ha sempre toccato me. In realtà i suoi fratelli non credevano che fosse sorda, e quando giocavano a nascondino e contavano i numeri ad alta voce abbandonandola a se stessa tra le stradine del paese non lo facevano per escluderla, ma perché si fidavano della sua capacità di orientarsi. Per loro mia madre non era una vittima, e non è mai stata speciale. Ancora oggi, dopo aver fatto vite molto diverse, dopo che i miei zii hanno quasi disimparato l’italiano in sessant’anni di vita negli Stati Uniti, le parlano come se potesse sentirli, hanno queste conversazioni buffe e asincrone tipiche delle famiglie esplose.
Da piccola era vivace e ostile e per disciplinarla i suoi genitori hanno deciso di mandarla in collegio dalle suore a Potenza. Le maestre la riconoscevano dal sorriso abbacinante; quando non aveva la divisa indossava maglie a righe e raramente si faceva vedere con una bambola in mano.
In collegio ha imparato a esprimersi con la tortura. In casa non abbiamo mai avuto grossi coltelli da cucina perché le ricordavano gli anni della scuola, quando le suore dell’ex Istituto Suore Maddalena di Canossa gliene posavano uno sulla lingua e le dicevano di urlare per insegnarle a tirare fuori dei suoni dalle corde vocali, oppure le facevano toccare dei fili elettrici e le chiedevano di gridare ancora più forte. È così che mia madre ha imparato a riconoscere il suono della sua voce.
Riusciva a parlare meglio delle altre bambine perché dopo la meningite aveva ancora dei residui di udito che si sono affievoliti fino a sparire per sempre. All’inizio non viveva in una camera iperbarica del silenzio, la sua coclea si era frantumata in maniera irregolare e così i suoni andavano e venivano e il mondo era un posto di presenze fantasmagoriche e ululati improvvisi. A volte cerca di descrivermi il terrore che si prova, nel suo essere sordastra e afflitta da mal di testa perenni: è come se vivesse con qualcuno alle spalle che cerca di spaventarla in continuazione. Da piccoli io e mio fratello lo facevamo per davvero, spuntando in una stanza all’improvviso, arrampicandoci sulla sua schiena per farle avvertire la scossa del contatto sperando che ridesse, ma lei reagiva ai nostri assalti con dei lunghi silenzi in cui noi ci pentivamo della nostra crudeltà, non abbastanza da smettere. La possibilità di un agguato le ha trasformato il corpo in maniera irreversibile; le ha incurvato la schiena e l’ha resa incapace di guardare davvero negli occhi le persone.
In collegio, mia madre ha imparato la lingua dei segni. L’ha usata con le suore che le facevano da maestre, con le amiche sorde, più tardi con mio padre anche se lui detestava fare gesti, ma mai con gli altri udenti. Non ha mai chiesto ai suoi genitori o ai suoi tre fratelli di impararla, non lo ha chiesto ai suoi figli. Capire perché abbia rinunciato a imporre la sua lingua privata non è difficile per me, che ho avuto paura di parlare ad alta voce per tanto tempo: la lingua dei segni è teatrale e visibile, ti espone in continuazione. Ti rende subito disabile. In assenza di gesti, puoi sembrare solo una ragazza un po’ timida e distratta. Leggendo le labbra degli altri per decifrare cosa stavano dicendo fino a consumarsi gli occhi e i nervi, parlando con la sua voce alta e forte e dagli accenti irregolari, sembrava solo un’immigrata sgrammaticata, una straniera. A volte quando prendeva l’autobus e gli autisti le chiedevano se fosse peruviana o rumena, lei annuiva senza dare altra spiegazione, quasi lusingata dal loro errore.
 
[da La straniera di Claudia Durastanti, La nave di Teseo, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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