La storia di Piera, in arte Rosa, nel romanzo di Alberto Schiavone

Luigi Oliveto

14/03/2019

Il linguaggio esplicito, la dovizia di particolari con cui vengono descritte alcune scene, la storia in sé – quella di una prostituta giunta al termine della sua onorata carriera – potrebbero ingenerare qualche borbottio moralistico. Ma sarebbe decisamente fuori luogo, perché il romanzo “Dolcissima abitudine” di Alberto Schiavone ha il pregio di raccontare la realtà come fosse una favola. Tale, infatti, sembra la vicenda di Piera Cavallero, in arte Rosa, che per cinquant’anni ha venduto il proprio corpo con professionalità e dedizione, forte dell’insegnamento di sua madre che, nella Torino del dopoguerra, le aveva trasmesso il mestiere. Rosa (assai più pragmatica della ‘bocca di rosa’ deandreiana) si era saputa gestire bene. Non aveva mai battuto la strada, esercitava in proprio, a casa sua. Una clientela affezionata (ai tempi d’oro anche venti uomini al giorno) che le aveva procurato molti soldi. Dalla miseria si era ritrovata ricca, fino a potersi permettere investimenti, speculazioni, interventi di chirurgia plastica. Nel suo letto gli uomini avevano cercato non solo sesso, ma anche affetto, consolazione, ascolto; e raramente ne erano usciti delusi. In qualche modo Rosa li aveva amati. Giunta a sessantaquattro anni l’unico tormento a renderla inquieta è il pensiero del figlio, partorito e abbandonato quando lei era adolescente e di cui, ora, come un’ossessione, vuole conoscere tutto. Il romanzo inizia con Piera/Rosa che si reca al funerale del suo ultimo cliente. Da lì, il lettore segue ricordi, pensieri, dolori della protagonista decisa a chiudere i conti con il passato. È così che insieme alla vicenda di Rosa scorre la storia di mezzo secolo, dai primi anni Cinquanta ai giorni nostri. E tra le pagine si insinua continuamente un’irrisolta domanda: “Chi decide che cosa si diventa?”
 
***
 
Rosa viaggia sul regionale che porta a Milano, ma lei scenderà prima, a Chivasso. Alle dieci inizierà il funerale di Aldo, e lei spera che per mezzogiorno sia tutto finito, così da riuscire a prendere il treno di ritorno delle dodici e quarantatré ed essere a casa verso l’una e mezzo, massimo le due, e mangiare qualcosa di caldo.
Non che abbia fretta, Rosa, anzi, non ha proprio nulla da fare. Ma ci si sta abituando.
Con la morte di Aldo finisce ufficialmente la sua lunga carriera, cinquant’anni di marchette. Non sono per niente pochi. L’anno prossimo compirà sessantacinque anni, non sono pochi anche loro.
I finestrini del treno sono appannati, troppo caldo dentro e troppo freddo fuori. Ha la tentazione di togliersi il giaccone, ma guardandosi attorno vede solo sporco e facce ammassate che non le piacciono. Il treno è scomodo, lento, lo condivide con persone di cui non ha voglia di sapere il perché. La curiosità è un lusso e lei ne ha sempre scampato il bacio.
Impegno è resistere ancora mezz’ora.
Aldo era stato da lei circa tre mesi prima. Settantaquattro anni di uomo nominato Cavaliere del Lavoro da due, le aveva anche portato la targa a far vedere. Importava nulla, a lei, ma gli aveva fatto i complimenti.
Aldo quel giorno si era subito capito che aveva qualcosa di importante da dire, e Rosa era quasi contenta perché le novità erano un avvenimento utile a guarnire la noia. Tanta, nauseante, tutta uguale. Lontani i tempi in cui doveva aprire le finestre per far uscire gli odori del letto. Aggiustare l’alito, i capelli agitati e fare il bidet.
Aldo le aveva detto di avere un tumore e che non gli sarebbero rimaste molte settimane ancora. La morte ferma al fondo della via, in attesa.
Quella era stata la novità.
Lei gli aveva preparato un tè con il limone, si era quindi seduta sulla sedia di fronte a lui. Non c’era molto da dire e nessuno dei due aveva pensato a un discorso, neppure Aldo che ne avrebbe avuto la possibilità e il tempo.
«Quanto è che ci conosciamo?»
«Aldo mio, e chi lo sa. Una vita.»
«Quarantacinque anni a gennaio prossimo. Ma non so se ci arriverò.»
«Hai buona memoria.»
«Me la ricordo ancora, la prima volta con te.»
«Non avevi avuto tante altre prime volte.»
Aldo aveva sorriso timido e imbarazzato, impacciato come appunto quella prima volta. Rosa si era alzata, gli aveva tolto gli occhiali e pettinato con delicatezza i pochi capelli, standogli in piedi dietro le spalle. Un esercizio che a lui garbava, tanto, dopo l’amore.
«Hai voglia di fare un ballo con me?»
«Sei il solito romantico.»
Rosa conosce quale canzone Aldo voglia ballare. Così si alza e lo accontenta.
Dallo stereo parte la musica, sono gli anni Sessanta del Novecento, Aldo è un giovane senza tanti sogni ma dall’animo pigro e semplice, perciò ingenuo.
Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare.
Finiti la canzone e il lento, erano rimasti in silenzio per altri dieci minuti. Poi Aldo aveva raccolto gli occhiali e indossato la giacca, guardando allo specchio se tutto fosse a posto prima di ritornare in pubblico. Aggiustarsi, una premura ormai inadatta ai loro incontri. Le si era avvicinato dandole un ultimo bacio sulle labbra, intimo eppure sbrigativo. Prima di varcare la soglia aveva però appoggiato sul mobile d’ingresso cinquanta euro, la tariffa convenuta di recente. Rosa non doveva impegnarsi troppo e lui passava con lei non più di mezz’ora.
Sarebbero stati quelli gli ultimi soldi guadagnati da Rosa.
Certo, per qualche secondo aveva avuto l’istinto di ridarglieli. Un ultimo gesto consegnato alle platee. Ma era solo una puttana, e la sua coscienza ne aveva viste troppe per compiacersi di un atto del genere. Nessun applauso, come nessun discorso. Non era mica un film! E poi avrebbe forse umiliato Aldo, ribadendogli la prossimità della fine. Che pagasse.
 
Il controllore non passa e quando scende al binario Rosa butta il suo biglietto con un po’ di rabbia.
Dalla stazione al Duomo ci sono circa cinquecento metri e decide volentieri di camminare. Trova già una discreta folla ad attendere la bara, intravede i tre figli e in mezzo a loro la vedova. Rosa rimane in fondo, defilata come una colpevole.
La cerimonia non dura molto, perché raramente i funerali dei vecchi durano molto, così tutti escono in silenzio spargendosi nel piccolo sagrato e tracimando nella piazza.
Indugia per cercare un bar dove bere un caffè e farsi chiamare un taxi per il cimitero, quando sente arrivare di fianco a lei una presenza. È troppo tardi per evitare l’incontro e se ne rimprovera, mentre quella di fronte a lei sta già iniziando a parlare.
«Pensavo che almeno in questa giornata non avrei dovuto condividere mio marito con lei.»
«Ho fatto quello che mi sembrava giusto.»
La vedova ha le labbra serrate in bilico tra il pianto e lo sputo.
«Allora non faccia la timida, non proprio oggi. Vuol venire in auto con i familiari? Vuole dare lei l’ultimo saluto a mio marito?»
Rosa vede sopraggiungere alle loro spalle un uomo, il secondogenito Michele. Lo riconosce perché lo ha visto in alcune foto. Ha ancora qualche secondo di tempo.
«Balenga, hai le calze rotte.»
La vedova non fa cenno di controllare. Rimane interdetta da quel contrattacco sporco. Il figlio le posa le mani sulle spalle mentre Rosa è ormai di schiena.
Ha appena deciso che non andrà al cimitero, Aldo non se ne avrà a male. Si dirige puntuta di nuovo verso la stazione. Meglio così, ritornerà prima a casa. Controlla nella tasca della giacca di avere ancora il foglietto con gli orari dei treni. Farà in tempo a prendere quello delle dodici meno venti e a bere anche un caffè, senza dover aspettare nell’atrio o peggio nella fetida sala passeggeri.
Un bar vicino alla stazione le ispira fiducia, non ci sembrano essere troppi scocciatori o perditempo, così preferisce una cioccolata calda e si siede dieci minuti ad aspettare l’orario giusto.
Aldo è stato l’ultimo dei suoi clienti ad andarsene, uno dei più fedeli. Tanti come lui avevano iniziato a frequentarla da giovane e con lei sono diventati adulti, uomini e poi vecchi. Rapporti che hanno resistito ai divorzi, ai lutti, alle malattie e ai trasferimenti. Alle crisi e all’impotenza.
Alla povertà mai, perché Rosa non ha mai fatto credito. Piuttosto gratis, ma solo a chi voleva lei.
Con la morte di Aldo finisce la sua carriera e chissà, forse anche il tempo del suo nome d’arte. Rosa ha voluto significare in tutti questi anni la professione di Piera Cavallero, nata nel 1942 a Torino.
 
[da Dolcissima abitudine di Alberto Schiavone, Guanda, 2019]
 
Torna Indietro
Lascia un Commento

Scrivi un commento

Scrivi le tue impressioni e i commenti,
verranno pubblicati il prima possibile!

Ho letto l'informativa sulla privacy e acconsento al trattamento dei dati personali ai sensi dell'art. 13 D. lgs. 30 giugno 2003, n.196

Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

Vai all' Autore

Libri in Catalogo

NEWS

x

Continuando la navigazione o chiudendo questa finestra, accetti l'utilizzo dei cookies.

Questo sito o gli strumenti terzi qui utilizzati utilizzano cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Chiudendo questo banner o proseguendo la navigazione, acconsenti all’uso dei cookie.

Accetto Cookie Policy
X
x