Troppo poco si fa memoria del genocidio armeno, un milione e mezzo di persone deportate e uccise. Il “grande crimine” – così è detto dagli armeni – commesso dall’impero ottomano tra il 1915 e il 1916. Secondo molti storici il primo genocidio dell’età moderna, per la crudele sistematicità con cui fu perpetrato. Ovviamente (triste avverbio anche in tal caso) non mancano i negazionisti. Questo drammatico capitolo del Novecento è ora riproposto nel romanzo “La restauratrice di libri” di Katerina Poladjan (Sem). Pagine in cui la storia intreccia la finzione producendo un racconto di forte intensità. Per quanto non nuovo, già è suggestivo l’escamotage narrativo. Helene, una ragazza tedesca restauratrice di libri antichi, raggiunge Erevan, capitale dell’Armenia, per svolgere il suo lavoro ed apprendere le tecniche della legatoria armena. Le viene affidato il restauro di un evangelario domestico degli inizi del Settecento destinato ai malati, logorato dall’uso e dal tempo. Diverse mani, negli anni, lo avevano sfogliato o semplicemente toccato. Gli ultimi a possederlo, nel 1915, erano stati Hrant e Anahid, fratello e sorella, due bambini in fuga dal genocidio armeno. Quel libro rappresentava l’unico legame con la loro casa, con la famiglia sterminata dai soldati turchi. Il restauro è complesso, richiede delicati interventi di bisturi, ago, filo, recupero del colore. Sul bordo di una pagina appare una scritta poco più che scarabocchiata: “Hrant non si sveglia, aiutami, fallo svegliare”. Da ora in poi Helene si trova quanto mai convolta in quella tragedia che lei, di famiglia armena, aveva sempre rimosso. Decide dunque di partire alla volta del Mar Nero, fino all’altra parte dell’Ararat, per ripercorrere fino in fondo il dramma dei due fratellini, ma anche nell’intento di ritrovare i sopravvissuti della propria famiglia (ha con sé una foto donatale da sua madre). La narrazione così si disgiunge tra passato e presente. Il lavoro di ricucitura, ripristino, riconnessione di lacune svolto sul libro va a coincidere con il recupero di una memoria, dolorosa ma necessaria. Ed ecco come quel libro si riveli essere, ancora una volta, la heineniana “patria portatile” che spesso gli esiliati hanno appresso per tentare di sentirsi a casa laddove non è per loro casa.
***
Evelina mi condusse oltre l’ingresso presidiato fino ai laboratori dell’Archivio centrale. Una volta lì ci volle ancora parecchio prima che tutto il personale arrivasse e potessi finalmente esaminare l’oggetto. Un evangeliario domestico, destinato ai malati – i miracoli di Gesù, alzati e cammina, apri gli occhi e vedi –, datato intorno al 1710. A causa probabilmente dell’umidità le pagine del blocco libro erano ondulate, la rilegatura danneggiata. La copertina era in pelle, presumibilmente di vitello, decorata in rilievo, quindici centimetri per ventuno. Agli angoli e attorno al capitello si evidenziavano lacune, sul piatto anteriore e posteriore erano visibili graffi e segni di abrasione. Resti della sguardia posteriore – l’antiporta tipica dei manoscritti armeni – erano incollati alla faccia interna del contropiatto. L’antiporta era conservata solo per un terzo, mancavano i fermagli. Lo soppesai: equivaleva a un meloncino, un sasso di medie dimensioni. Accarezzai il dorso, era piatto come quello dei manoscritti orientali.
«Sarà stanca del viaggio.»
«Per niente.»
Evelina mi congedò comunque. Per un antico manoscritto ci volevano spirito riposato e mani ferme, così trascinai la mia valigia sul selciato butterato fino a un edificio di quattro piani, un blocco squadrato nel tipico stile dell’edilizia socialista, in una strada dal nome impronunciabile, Tpagričner. Si entrava dal cortile interno, il portone era accanto a un’area giochi per i bambini. Nella penombra della tromba delle scale trovai, al secondo piano, la porta giusta. Si apriva su un soggiorno con angolo cottura, poi c’erano una camera da letto e un bagno. Su una mensola all’ingresso c’era un bigliettino: BENVENUTA HELENE MAZAVIAN, BUON SOGGIORNO! Ispezionai la doccia, completa di impianto audio e luci colorate. Il letto era ampio, con la testata pitonata rosa pallido. Dal letto vedevo il cielo. Staccai dal muro i quadri – una marina e l’Ararat innevato –, li infilai dietro l’armadio e appesi una foto di Danil sopra il letto. Il suo sguardo familiare, affettuoso, un po’ beffardo. Posai le scarpe all’ingresso, riempii l’armadio. Il ferro da stiro c’era, ma gli appendiabiti erano pochi. Aprii la finestra e guardai giù nel cortile. Si sentiva odore di autunno. Un tizio con un cappello di lana verde era al telefono accanto all’altalena. Con la mano libera tamburellava sul tubo arrugginito. «Dikranian, mi ascolti?» gridava arrabbiato in russo.
Dikranian. Abovyan. Petrosian. Mazavian. Chiusi la finestra. In una ciotola appoggiata sul tavolo tondo del soggiorno c’erano dei melograni. Rossi, lo stesso rosso dei manoscritti armeni. Alberi rossi, terra rossa, mare rosso, la porta dell’inferno, i giardini del paradiso, i fiumi Qishon, Gihon, Tigri ed Eufrate. Il rosso, ricavato dalla cocciniglia, staccata con cautela all’alba da una foglia verde, bollita nell’acido solforico, seccata, macinata e trasformata in pigmento. Nessuno dei due coltelli che trovai nel cassetto della cucina era adatto ad aprire il frutto. Presi il mio bisturi, un taglio netto e la camicetta fu tutta spruzzata di rosso. Scioglimacchia, appendiabiti, coltelli da cucina, annotai su un foglietto. Poi mi bloccai in mezzo alla stanza, indecisa tra sentirmi sola o felice.
Chiamai Danil, lasciai suonare il telefono a lungo. Lo vidi cercare il cellulare, lo udii schiarirsi la voce.
«Che mi dici del Caucaso?»
«Il Caucaso è buio.»
«Com’è andato il viaggio?»
«A Mosca ho dovuto aspettare parecchio.»
«Com’è l’appartamento?»
«Interessante.»
«Altro?»
«Non ancora.»
«Un bacio, rospo.»
[…]
Evelina mi condusse al laboratorio. Tutti erano intenti alla loro attività; alcuni mi rivolsero un sorriso timido, altri un saluto formale. L’umidità in quello spazio era eccessiva, lo avvertii immediatamente, e faceva troppo caldo. La temperatura ideale sono venti gradi Celsius e questo lavoro non è adatto a chi ha le mani sudate. Evelina mi indicò una postazione libera accanto alla finestra. Il libro era pronto. Mi sedetti, lo spostai un po’ a sinistra, posai a destra l’astuccio con i miei attrezzi personali, presi il contenitore con gli strumenti in dotazione e scelsi quello che mi serviva. Evelina, che era rimasta alle mie spalle, annuì. «Faccia con calma, questo evangeliario esiste da trecento anni e nelle prossime settimane nessuno glielo porterà via.»
Trattenendo il fiato, aprii per la prima volta il libro. Iniziava con un ciclo di raffigurazioni a pagina intera di episodi della vita di Gesù. La genealogia di Cristo, l’annunciazione a Maria, l’omaggio dei Re Magi. L’arcangelo si avvicinava cauto da destra, la croce stilizzata con tratto sottile. Maria reggeva un triangolo con la mano sinistra, le dita della destra allargate. Al centro il testo, su due colonne, inchiostro rosso e nero, scrittura bolorgir, non erkat’agir, il cui uso si diffuse a partire dal Tredicesimo secolo. Dallo slancio delle lettere si indovinavano i movimenti della mano del copista. Osservai un inizio di degenerazione ossidativa nelle miniature, alcuni scolorimenti, le iniziali istoriate e la cartagloria talvolta molto sbiaditi. Marcate muffe inattive sulla genealogia di Cristo. Continuai a sfogliare. Qui la volta celeste, là una colomba, con il becco perpendicolare al suolo, lo Spirito Santo in picchiata, uomini uccello, lettere ornate dorate. Poi una figura femminile con mantello purpureo. Il rosso del mantello era ben conservato. Plinio il Vecchio racconta nella Naturalis historia che per ottenere un grammo di pigmento porpora puro erano necessarie circa diecimila lumache di mare, che venivano schiacciate e lasciate a macerare sotto sale per più giorni, poi la massa ottenuta veniva fatta cuocere nell’urina finché non si riduceva a un sedicesimo. Solo alla luce, grazie a una reazione enzimatica, il giallo si trasformava in rosso porpora. Da sotto il mantello purpureo la figura guardava il mondo di malumore. La chiamai Tyros.
[da La restauratrice di libri di Katerina Poladjan, trad. di Emilia Benghi, Sem, 2021]
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