La religione come eredità di insegnamenti. Dio e la generazione incredula

Francesco Ricci

05/06/2017

“Ma Dio cos’è?”. L’adolescenza, l’età per definizione dei grandi interrogativi esistenziali intorno alla vita e alla morte, si confronta prima o poi con la domanda che viene incontro, all’improvviso, al lettore di Risvegli, straordinaria lirica appartenente al “Porto Sepolto”, la raccolta d’esordio di Giuseppe Ungaretti. Quando il poeta nativo di Alessandria d’Egitto compose questi versi – che recano in calce l’indicazione Mariano il 29 giugno 1916 – non aveva ancora abbracciato la fede religiosa. Eppure, la parola Dio echeggiava con forza tra due spazi bianchi, s’insinuava tra due isole di silenzio, mentre l’esistenza di Ungaretti scorreva tra la miseria crudele della guerra in trincea e il conforto delle memorie dell’infanzia africana: “Rincorro le nuvole / che si sciolgono dolcemente / cogli occhi attenti / e mi rammento / di qualche amico / morto // Ma Dio cos’è? // E la creatura / atterrita / sbarra gli occhi / e accoglie / gocciole di stelle / e la pianura muta”. A quel tempo, Dio per Ungaretti possedeva un valore meramente simbolico, rimandando all’idea di eternità, di immutabilità: era, in sostanza, l’antitesi di quella transitorietà, nella quale il poeta si scopriva immerso e dalla quale si sentiva afferrare alla gola ogni giorno di più.

Neppure i giovani del Terzo Millennio eludono questa domanda cruciale. Continuano a porsela, ma la risposta che si danno è spesso diversa rispetto al passato e ciò determina significative conseguenze anche sul piano della formazione e dell’istruzione (in fortissimo calo, ad esempio, appare il numero di chi si iscrive alle scuole cattoliche, specie alla media superiore, e di chi sceglie di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica). Recenti studi, infatti, ci informano che fra i giovani di età compresa tra i 13 e i 19 anni a dichiararsi cattolico praticante è ormai soltanto un adolescente su quattro. Il 36% si definisce cattolico non praticante, senza apprezzabili differenze numeriche fra ragazzi e ragazze (poco meno di trent’anni fa la percentuale era ancora del 50%). Inoltre, se alla metà degli anni Ottanta erano pochi coloro che si dicevano completamente indifferenti alla religione, oggi la percentuale si assesta sopra il 30%.

Per comprendere la galassia dei giovani credenti, un utilissimo punto di partenza può essere costituito dal volume “Dio a modo mio” (2015), curato da Rita Bichi, docente di Sociologia presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, e Paola Bignardi, già presidente dell’Azione Cattolica, che hanno raccolto i risultati di un’indagine promossa dall’Istituto Giuseppe Toniolo. I ragazzi e le ragazze intervistati, centocinquanta in tutto, di età compresa tra i diciannove e i ventinove anni, residenti sia in piccole che in grandi realtà urbane e con alle spalle percorsi scolastici diversi, consentono di tracciare una figura di credente sostanzialmente coerente e uniforme. Quasi tutti, infatti, dichiarano di conoscere poco Gesù, di amare il Papa e molto meno la Chiesa e le gerarchie ecclesiastiche, di avere un brutto ricordo del catechismo (“la trasmissione di un sapere codificato e di una serie di regole da seguire”) e uno ottimo, invece, dell’oratorio, di pregare poco e di andare poco a Messa, di essersi allontanati dalla fede dopo la cresima e di essersi riavvicinati alla religione qualche anno dopo. Il dato, però, che colpisce maggiormente è l’interpretazione che essi danno del cristianesimo quasi esclusivamente come un’etica, che insegna l’amore, il rispetto, l’uguaglianza. A essere privilegiata e accettata è, dunque, la dimensione orizzontale della fede – il nostro rapporto col prossimo – a scapito di quella verticale – il nostro affidarci a Dio, principio e fine della nostra esistenza: il millenario binomio appare ormai spezzato.

Dio, dunque, non è morto, non è uscito di scena. Né è stato ucciso né tantomeno, come si legge in un verso di Deus absconditus di Giorgio Caproni, “s’è suicidato”. Scorrendo le lettere che compongono il volume “Quello che dovete sapere di me”, capita ancora di imbattersi nel diciassettenne che ringrazia Dio perché “la vita che abbiamo non è quella che desideriamo. È questa condizione la sola che ci può spingere a stringerci più vicini”, nel diciottenne che lo definisce il suo “migliore amico”, aggiungendo di avvertirne la presenza “soprattutto quando mi perdona!”, nella ventenne che si dice grata per le sofferenze che accompagnano quotidianamente lei stessa e la sua famiglia, dal momento che sono state proprio tali difficoltà “a renderla la persona” che è oggi. A essere mutato in profondità, però, è il concetto di Dio. Se i suoi attributi fondamentali sono sempre stati, come ci ricorda Hans Jonas in una celebre conferenza tenuta nel 1984 (e pubblicata nel 1987), la bontà, l’onnipotenza, la comprensibilità da parte dell’uomo, è l’idea stessa di potenza di Dio che col tempo è entrata in crisi, è andata in frantumi. La svolta epocale, secondo il filosofo di origine ebraica, si ebbe negli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz, dinanzi alla quale il Signore restò muto, in silenzio, come il più indifeso dei bambini: “Dio tacque. Ed ora aggiungo: non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo”.

La successiva conoscenza, accanto agli orrori della Shoah – che Elie Wiesel chiamò senza mezzi termini “una tragedia umana ma anche e soprattutto uno scandalo teologico” – degli altri crimini e massacri che hanno insanguinato il XX secolo, ha finito con l’erodere gradualmente la fede in Dio. Perlomeno nel Dio padre onnipotente del cristianesimo, sensibile alle richieste di aiuto delle sue creature e in grado di intervenire nella storia. Al suo posto i giovani si sono abituati ad amare e a pregare un Dio pensato come “un fratello maggiore”, a loro prossimo nella sofferenza e nella fragilità perché anche lui di entrambe partecipe. L’altro fattore che connota questa “generazione incredula”, come l’ha definita Armando Matteo in un libro pubblicato nel 2010, è la percezione chiara dell’inaccettabile scarto che sussiste tra la teoria e la prassi in molti uomini di Chiesa (si pensi alla questione della pedofilia, degli abusi sessuali compiuti da sacerdoti, dall’alto tenore di vita di alcuni cardinali). E dinanzi a un credo professato e riaffermato con ostinazione, ma che non riesce a tradursi in testimonianza, in esperienza di vita, in esempio concreto, la verità scade al livello di opinione e cresce la tentazione di una religione fai da te.  Una religione, in sostanza, non più vissuta come garante e promessa di senso (quello del male resta un enigma e il dolore, come già credeva Manzoni, non si spiega dentro la storia), ma come un’eredità di insegnamenti, che aiutano a muoversi lungo un cammino senza più pietre miliari né cartelli indicatori.
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Francesco Ricci

Francesco Ricci

(Firenze 1965) è docente di letteratura italiana e latina presso il liceo classico “E.S. Piccolomini”di Siena, città dove risiede. È autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento, tra i quali ricordiamo: Il Nulla e la Luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento (Siena, Cantagalli 2002), Alle origini della letteratura sulle corti: il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Siena, Accademia Senese degli Intronati 2006), Amori novecenteschi. Saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Pavese, Bertolucci (Civitella in Val di Chiana, Zona 2011), Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, scritto con lo psicologo Silvio Ciappi (Firenze, Mauro Pagliai 2011), Un inverno in versi (Siena, Becarelli, 2013), Da ogni dove e in nessun luogo (Siena, Becarelli, 2014), Occhi belli di luce (Siena, Nuova Immagine Editrice, 2014), Tre donne. Anna Achmatova,...

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