La regola del bonsai. Quando la memoria inibisce presente e futuro

Luigi Oliveto

30/06/2022

Crudele, farsesco, magico. È l’ultimo romanzo di Carlo D’Amicis “La regola del bonsai” (Mondadori). Vi si fantastica che dalla relazione di Hitler con Eva Braun sia nata una figlia, Klara, cresciuta dalla sorella del Fürer. Klara, donna ribelle e di disordinati amori, sposerà Rudolf Wolf. Metterà al mondo Werner, il cui vero padre non è certo se sia colui che, comunque, assume la sua genitorialità. Il bambino ha sette anni quando, davanti alla televisione – è il giorno dello sbarco dell’uomo sulla luna – apprende dal presunto padre quale personcina fosse stato il nonno materno. Il più grande criminale della storia, la personificazione del male. Da allora Werner tenterà di scrollarsi di dosso la terribile onta; anzi, di più, la colpa che lui sente come propria. Ecco così un uomo che per fuggire da quella vergogna si ritrova, cinquantasettenne, a condurre un’esistenza da barbone, mentre i genitori invecchiano nella loro tragica quotidianità. La madre, ex bella donna, cantante d’opera fallita, ingurgita sonniferi e alcolici acquistati con i soldi che ricava dalla vendita del proprio sangue a filonazisti rimbambiti. Il padre sfoga la sua nevrosi coltivando bonsai e rammaricandosi di non essere riuscito a coltivare il figliolo con eguali risultati. A crucciarsi della vita randagia di Werner è anche l’agente di spettacolo Danny Grunberg, che, fiutando il redditizio ‘business della memoria’, vorrebbe fare del nipote di Hitler un’attrazione. Questo l’angusto scenario in cui Werner, giorno dopo giorno, prova a scansare sé stesso, gli altri, una memoria che ormai gli ha inibito presente e futuro. Finché una siffatta vita, vanamente ripiegata su di sé, pare aprirsi ad altri punti di vista. Accade in virtù di un viaggio – reale e soprannaturale – che lo sbalzerà dalla Germania al profondo Sud italiano. Qui incontra una ragazzina dai modi molto diretti e naturalmente distante dai tormenti della storia passata. Si crea pertanto una situazione inaspettata e misteriosa dove le cupezze di Werner paiono svanire nella luce di nuove consapevolezze su come la memoria debba rapportarsi al presente e, dunque, al futuro.
 
***
 
Me ne stavo disteso sul divano, con gli occhi chiusi e le braccia incrociate sul petto, quando mia madre aprì la porta di casa, entrò di corsa nel soggiorno e mi passò accanto senza badare minimamente al fatto che ero morto.
I suoi pensieri, come al solito, erano tutti proiettati sulla credenza dei liquori, ma a metà strada si bloccò davanti al televisore (lo tenevo acceso in sottofondo, a rappresentare l’indifferenza del mondo per la mia dipartita) e restò a bocca aperta a fissare lo schermo.
Solo quando l’inquadratura si spostò sulla piazza gremita, si decise a battere le palpebre.
Si voltò verso di me, indicò lo scalmanato che, esaurita una breve pausa scenica, aveva ripreso ad arringare la folla e poi scandì lentamente: «Werner, quello è tuo nonno».
Mia madre era imprevedibile, non sapevo mai se crederle o no, ma la tonalità in re minore con cui pronunciò queste parole risuonò nel soggiorno come l’introduzione di una messa da requiem. Visto che il mio funerale, ormai, era fallito, mi sollevai sui gomiti e diedi un’occhiata fuori dalla bara.
Che ci faceva un nostro parente in televisione? Perché era tanto agitato? E come mai la moltitudine di gente assiepata ai suoi piedi era ancora più agitata di lui?
Già pentita della sua rivelazione, la mamma scosse la testa (come a liberarsi anche del pentimento), spense frettolosamente il televisore e riprese la sua corsa, lasciando cadere dietro di sé la borsetta, la stola in finta volpe e tutte le domande che le lanciavo appresso. Incalzata dalla mia curiosità, la sua mucosa gastrica – già cronicamente infiammata – s’irritò ancora di più.
«Ti prego, Werner, lasciamo perdere» singhiozzò sfilandosi anche le scarpe. «Fai finta che non ti abbia detto niente.»
Fare finta era la mia occupazione principale (fingermi morto, in particolare), così trovai naturale assecondarla. Sul teleschermo, però, era rimasta una strana iridescenza. Nel patetico tentativo di proteggermi dalle sue radiazioni, abbracciai un cuscino e me lo schiacciai contro la pancia.
«Il nonno è un comico?» mi scappò.
Lanciata verso la bottiglia di vodka, difficilmente la mamma si sarebbe fermata una seconda volta. Ma la mia domanda ottenne almeno di farla rallentare.
«Cosa te lo fa pensare?»
Senza nominarli esplicitamente (nella nostra casa aleggiava una certa ostilità verso tutto ciò che non suonava teutonico), le spiegai che dei baffi così strani li avevo visti solo addosso a Charlot e a Oliver Hardy. La mamma rise, dandomi la più grande soddisfazione di quella giornata (ah, quanto desideravo essere un comico anch’io!).
«Devi sapere» disse con l’aria di svelarmi un segreto «che in caso di attacco chimico un paio di baffi a spazzolino sono molto più pratici di quelli a manubrio.»
Dondolando lentamente le gambe dal divano, annuii più o meno allo stesso ritmo. Capire – ecco un’altra delle cose che a quei tempi fingevo di fare.
«Per la maschera antigas, mi segui?» aggiunse lei.
Mimò un bocchettone che aderisce alle labbra. Sentivo che cominciava a spazientirsi. Invece di domandarle per quale motivo il nonno avrebbe dovuto subire (o provocare?) un attacco chimico, le chiesi se anch’io, a carnevale, avrei potuto avere una maschera.
«Certo, tesoro» disse così per dire. «Da cosa ti vorresti travestire?»
Non era importante (già allora presagivo che la cosa fondamentale sarebbe stata nascondermi sotto delle mentite spoglie qualsiasi) e a carnevale mancava ancora tanto tempo. Mia madre invece ne aveva pochissimo, il suo demone schioccava le dita e, adeguando al suo ritmo un motivetto di Udo Jürgens, scomparve in cucina per versarsi il primo Schnaps della serata.
Io aspettai qualche secondo, poi mi alzai e andai ad accendere di nuovo il nostro Telefunken. Appena in tempo per apprendere dalla voce dello speaker che il padre di mia madre era stato una vergogna nazionale, nonché, di gran lunga, il peggiore criminale della storia.
 
[da La regola del bonsai di Carlo D’Amicis. Mondadori, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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