La rara felicità. Un poeta in trincea

Luigi Oliveto

16/10/2024

“Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d’amore // Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita”. Sono i versi scritti l’antivigilia di Natale del 1915 da un soldato semplice del 19° Reggimento di Fanteria mandato alla guerra sul fronte del Carso. Aveva ventisette anni e si chiamava Giuseppe Ungaretti. Dal dicembre 1915 all’ottobre 1916, il soldato-poeta redige una sorta di diario di guerra in versi: ogni lirica indica data e luogo in cui è stata composta. Quella appena citata si intitola “Veglia”, riporta l’indicazione Cima Quattro, le quattro punte che formano la cresta del monte San Michele, in Friuli, teatro di numerose e deprimenti battaglie durante il conflitto ‘15-’18. Giorni e giorni per conquistare qualche metro al nemico, e poi riperderlo nel successivo attacco. Lassù tra quelle rocce, tra frustrazione e terrore di morte, furono annotati anche i celebri versi “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”, alludendo alla vita che quanto mai precaria risultava a chi era considerato poco più che carne da macello. Le poesie di Ungaretti vennero raccolte dall’amico Ettore Serra, un giovane ufficiale, e nel 1916 stampate in 80 copie presso una tipografia di Udine con il titolo “Il porto sepolto”. Successivamente comprese nella raccolta “Allegria di naufragi” (1919), in seguito intitolata “L’Allegria” con le edizioni 1931, 1936, e la definitiva del 1942. La vicenda umana e artistica del soldato Ungaretti, che nell’esperienza della guerra trova conferma alla sua vocazione di poeta, ha ispirato il romanzo “La rara felicità” di Andrea Pellegrini (Castelvecchi). Tra storia vera e finzione letteraria vi si racconta dell’amicizia nata nelle trincee del Carso tra un cappellano militare e il fante Giuseppe Ungaretti. A narrarla è lo stesso cappellano, don Carmine Cortese, che, a distanza di anni, ormai anziano ma in salute, affida il suo racconto alle bobine di un registratore Geloso, affascinato da quel marchingegno che, in viva voce, raccoglie il flusso dei ricordi e di come tempo e coscienza li abbiano rielaborati: “Così, io parlo. Delle mie cose, come nulla fosse. Parlo come se non alla scrivania tutto da solo, qui nella sacrestia della mia chiesa, mi trovassi, ma con qualcuno, invece. Ad alta voce parlo in un microfono. E potrò riascoltare quello che dico. Non è un miracolo?”. La narrazione ha quindi il piglio del racconto orale, che meglio rende tutto vero (e l’escamotage narrativo di Pellegrini è, negli esiti, all’altezza delle intenzioni). Ci lasciamo così coinvolgere dai tormenti di un prete arrivato dalla provincia calabra, sperso nella tragedia di una guerra che porta a mettere in discussione fede, umanità, morale, buon senso. Unico argine allo scoramento sarà il rapporto di amicizia che si instaura tra lui e il fante Ungaretti. Un giovane brillante, poco affine a cose religiose, puttaniere di nobili sentimenti, poeta criptico e intenso che quando leggeva i suoi versi ai commilitoni, zitti si lasciavano confortare da quelle parole, anche chi non ne capiva un piffero. Agli occhi di don Carmine, il fante Ungaretti era al contempo angelo e demone. La conferma di come la condizione umana altro non sia che il prodotto di una splendida contraddizione. Forse per questo esiste la poesia, a far sì che quella incongruenza non affondi nel definitivo sconforto.
 
***
 
Undici mesi di guerra e undici mesi di bene verso i soldati. E che ne era seguito? I miei sforzi per loro. I Vangeli all’alba. Le benedizioni della domenica.
Invece di diventare migliori, io che credevo di averne fatti dei santi, cadevano sempre più giù. Sempre più in basso. Anche dentro se stessi, sto a dire. Non solo in quei budelli fondi un metro dove restavano conficcati per settimane. Non tanto per le tane d’appostamento protette dai sacchetti di terra e dai morti che gli facevano da riparo. Né per il tanfo di escrementi e di artiglieria fra i pidocchi e i topi. Non si potevano muovere, i miei soldati, per quelle fosse ingombre di corpi che erano loro stessi, e di gambe contratte e di fucili spianati in mezzo alle munizioni e all’immondizia. Dalle pareti affioravano le scarpe chiodate dei compagni uccisi e le dita dei sepolti, mentre il terreno di là dai muri era seminato di spoglie in putrefazione. Elmetti forati, mi ricordo, cappelli piumati al vento fra i cavalli di Frisia in un miagolare continuo di colpi in volo. Si contorcevano. Bestemmiavano sotto le artiglierie. Invocavano Dio con suoni d’animale. Anche se il loro lato peggiore, sempre che uno ci stesse ancora, lo esprimevano nelle soste. Non c’era angolo di quella steppa, lontano dalle linee, quando si fermavano sporchi di guerra per il riposo, dove non si spiccasse qualche bassezza. Nessuno faceva un passo senza pronunciare una parola cattiva. Si insultava la Madonna. Le prostitute inondavano i fienili. La lussuria e le sbornie dilagavano in un’apatia spettrale.
Cu pocu si campa e cu nenti si mori ripeteva la mia truppa di calabresi. E non sapeva niente, nessuno, du Patratèrnu. Com’erano ignoranti e maleducati quegli zirrùsi! E piene, le cantine, dove si ubriacavano. Come rigurgitavano. Come risuonavano di ogni schifezza. Si beveva. In Quaresima, pure. Si diventava fradici di vino, fuori trincea. Ci si accoppiava a delle sconosciute, violentandole quasi, nelle baracche offerte dal comando. Ma questo per davvero mi aspettavo dagli uomini che Iddio mi aveva dati? Dopo tanto pregare, questo era il risultato?
In fondo non amavo nessuno e li amavo tutti.
Come da lontano o dall’alto.
Come spetta a un buon prete.
Che forse qualcuno, fròciu, mi credeva, e «’u ricchiuni» era il forte ronzio quando passavo. Ma io non mi ero mai vergognato del mio Vangelo. E tutti si traversava quell’età della vita in cui non si è ancora deciso se mettere su famiglia o farsi nomadi. Molti avevano già dei figli e una mugghieri che baciavano nelle foto sgualcite a ogni ristoro. Ma altrettanti sguazzavano soli e senza miraggi, intrufolandosi con gli occhi vuoti nel viscidume di quella guerra uguali a rospi, alle mischie, e spidocchiandosi mezzo ubriachi nei buchi luridi degli accampamenti, quand’era pausa. Io per me avevo scelto il Signore.
Fin da ragazzo, sto a dire.
Un esercito in Libia avevo seguito, e cappellano del reggimento da undici mesi tiravo avanti adesso lungo l’Isonzo, sempre più amareggiato dalla natura degli uomini e senza amici. Che la salita del San Michele si preparava, mentre tenevo le messe. Distribuivo le estreme unzioni. Stringevo viscere e ossa, se necessario. Da Palmanova a Mariano, là in Friuli, fotografavo le croci nei cimiteri restando solo in attesa del colpo mio. E mi sentivo come il più solo dei martiri.
Almeno fino a una notte d’aprile.
«Don Carmine» il dito di un uomo a cavallo ancora si sta alzando verso la volta celeste, nella mia mente, all’inizio dell’unico ponte sul fiume.
Per chiedermi una preghiera.
Capitava di scambiarsi dei doni, durante quelle trasferte, una fiaschetta di vino, un sigaro o una voce, con chiunque si trovasse lungo la strada. ’Nu sceccu non cce vaci sulu o mulinu, ci si diceva, e per una decina di chilometri tramontavano nelle tenebre stellette e gradi, e una comitiva di zingari ci si faceva, inebriati dalla voglia di addormentarci.
La notte di cui parlo siamo in marcia.
Per il ristoro mensile.
«Don Carmine» fa la voce.
A Zdravšcine, il posto di medicazione in prima linea dove anch’io lavoravo era stato il punto di ritrovo per la partenza. Quel mese d’aprile certi giorni di sole lo avevano spalancato che stonavano con i bombardamenti, e nell’aria di primavera l’abitato sloveno sembrava irridere i morti. Per settimane non aveva smesso di rintronarci il 280, fino alla nausea, quando i soldati si bagnavano alla mattina, unico sollievo, in un canaletto del fiume verso Sagrado con il solo intento di un coito. Fatalmente, assieme all’attesa della licenza, l’antipatica ma inevitabile cavalleria aveva invaso la loro carne, alla buona stagione. Che alle buttane, solo, volevano accompagnarsi. Di ubriacarsi, chiedevano. E di sentirsi ancora vivi per una volta. Anche se a ciechi miraggi somigliavano ormai i desideri più che ad attese.
Ma un turno in retrovia spettava a ogni battaglione del reggimento e a Versa la nostra truppa, finalmente, sarebbe stata acquartierata per il riposo.
Così ci accingiamo a varcarlo, l’Isonzo. Come altre volte nel buio. Quel confine maestoso d’acqua chiara che biforcava la guerra. Alle due del mattino. Per eclissarci. Che non lontano il miagolio dei proiettili prosegue, e filare li sentivamo, sciamare, in quell’aria nera.
Fa fresco.
La corrente è vicina.
Un vento fresco si muove dall’altra riva mentre passiamo e la colonna di muli con le ghirbe risale l’impalcatura quando quell’ombra a cavallo mi chiede di pregare per la sua truppa.
«Don Carmine, una preghiera!».
È il capitano Cremona.
«Ma non per me»
Nazareno Cremona di Monteleone Calabro.
Dalla voce lo riconosco dentro le tenebre, quell’ateo, che l’anno avanti con il reparto nostro aveva viaggiato aggregato al 19°. E sto pregando come lui mi ha chiesto, quando un altro mi chiama. Un tenente. Ligure, dall’idioma. Che, impigliata la sua divisa nel filo spinato sopra il ponte, rischia di cader giù.
«Sono figlio di palombari» grida «ma non è l’ora dei tuffi!».
«Chi siete?».
«Tenente Ettore Serra e vi devo un favore» mentre uno shrapnel si spacca in una frustata e spaventa il mulo alle nostre spalle.
Valente.
Così avevo chiamato quell’animale. ’Nu sceccu qualunque di terza classe, di quelli per trasportare il cibo fra le linee, che cambierà la mia guerra! Perché non vuol proseguire. E si pianta. «Valente!». Gli strillo. Lo spingo. Ma niente, là al centro del ponte. Non vuol proseguire. E uguali a feritoie, di uno soltanto, di quei quattro o forse cinque fanti mai visti prima, che corrono ad aiutarmi, riesco a scorgere gli occhi.
«Non è onnipotente, Iddio!» sbraita il soldato, tirando la mia bestia sull’altra riva.
«E voi» grido «chi siete?».
«Ungaretti».
Solo questo, mi dice, già l’ho detto. Credendo di aver offeso soltanto un mulo.
 
[da La rara felicità di Andrea Pellegrini, Castelvecchi, 2024]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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