Il centenario della nascita di Luciano Bianciardi (1922-1971) sta rivelandosi utile occasione per riconsiderare la specificità di questo scrittore, giornalista, traduttore pressoché dimenticato. Personaggio fino ad oggi circoscritto a risicate schede bio-bibliografiche che, nel tentativo di ricondurlo a un qualche modello, lo dicono sbrigativamente scapigliato, espressionista, emulo degli americani e inglesi di cui era stato traduttore. Pigre notazioni che andrebbero tanto meno ampliate. Ad esempio per prendere atto che esiste una cifra propriamente bianciardiana, da lui perseguita e affinata nelle diverse forme di scrittura, dalla narrativa al giornalismo, e che privilegia la parola come gesto politico, istanza di ribellione, disincanto, giudizio sulla realtà. Non ci si fermi, insomma, alla parte facile delle sue pagine che – d’accordo – trasudano egualitarismo, satira sociale, irriverenza verso la morale corrente, sbotti di anarchia. Si colga anche il lavorio di scrittura che vi sta in filigrana, la sperimentazione di un linguaggio non così scontato per l’epoca, sempre teso alla coerenza con le ragioni di quella stessa scrittura.
Un’opportunità per leggere/rileggere tre significativi titoli della narrativa di Bianciardi è ora offerta dal libro “Trilogia della rabbia” (Feltrinelli) dove, preceduti da una puntuale prefazione di Francesco Piccolo, sono raccolti i romanzi “Il lavoro culturale” (1957, ripubblicato con aggiunte nel 1964), “L’integrazione” (1960), “La vita agra” (1962). Tre romanzi autobiografici a testimonianza di tre diversi periodi della vita dello scrittore. “Il lavoro culturale” vede l’autore sdoppiarsi argutamente in due personaggi: Luciano Bianchi, calciatore mancato e antifascista; suo fratello Marcello, giovane intellettuale di provincia. È Luciano a raccontare, con buona dose di ironia, gli sforzi (pressoché vani) del fratello, impegnatissimo e votato all’affanno nella promozione di iniziative che possano emancipare la piccola ed arretrata Grosseto del dopoguerra. “L’integrazione” narra ancora di questi due fratelli che da Grosseto emigrano a Milano, la città del ‘fare’, dove nell’eccitazione del boom economico anche l’industria culturale ed editoriale procedeva con ritmi esagitati, con verbose quanto inutili riunioni. Lo sguardo che ne offre Bianciardi è oltremodo tagliente. Impietoso il ritratto dei milanesi e di ciò che si chiamò società dei consumi: “Guardali in faccia: stirati, con gli occhi della febbre, dimentichi di tutto tranne che dei soldi che ci vogliono ogni giorno [...]. Sgobbano, corrono come allucinati dalla mattina alla sera, per comprarsi ciò che credono di desiderare; in realtà quello che al padrone piace che si desideri”.
Sempre Milano è teatro della vicenda raccontata ne “La vita agra”, il romanzo che dette notorietà a Bianciardi (5000 mila copie vendute in poco più di una settimana). Successo ulteriormente amplificato dal film (1964) che ne ricavò Carlo Lizzani, con interprete principale Ugo Tognazzi. Pure in questo caso la vicenda calca in buona misura l’autobiografia. Il protagonista lascia la provincia alla volta del capoluogo lombardo per lavorare in una casa editrice, ma con il segreto intento di compiere un attentato al grattacielo di una grande industria per vendicare la morte in miniera di 43 uomini (chiaro riferimento all’incidente avvenuto il 4 maggio 1954 alla miniera di Ribolla gestita dalla Montecatini): “Ora appunto io venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento, chiedendomi a quale finestra, in quale stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pratica degli assegni assistenziali […] Chiedendomi dove, in che cantone, in che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione […] La missione mia, di cui dicevo pocanzi, era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi e, in ipotesi secondaria, occuparli, sbattere fuori le circa duemila persone che ci lavoravano, chine sul fatturato, sui disegni tecnici e sui testi delle umane relazioni, e poi tenerli a disposizione di altra gente”. Il progetto non avrà seguito. A distrarre il protagonista interverranno vicende lavorative, amorose, interlocutori mutamenti di vita personali e sociali. Resteranno in lui inquietudine, frustrazione, rabbia. Quella medesima rabbia, indomita e sconsolante, che Bianciardi riversò tutta nella parola scritta, mai immune – financo nella parodia e nello sberleffo – da una smorfia di insofferenza, disillusione, presa di distanza.
***
[…] Eravamo un bel gruppetto; ci si trovava ogni sera al caffè, a chiacchierare, a giocare a carte, poi, quando era tardi e il cameriere accennava a voler chiudere, cominciava la nostra lunga passeggiata, fino alle due o alle tre di notte. La nostra città era piccola, e si faceva presto a raggiungere la periferia, verso la campagna piatta e buia.
Lontano abbaiava un cane, e si avvertiva, come un sordo limio, il canto dei grilli. La strada si perdeva in uno sterrato brullo, ineguale; qua e là si vedevano mucchi di detriti, i bassi casotti dove i muratori ripongono gli attrezzi, le cataste dei mattoni, le fosse rettangolari bianche di calcina, un rullo compressore, alto e scuro, e più lontane le nuove costruzioni, appena cominciate.
Noi andavamo spesso a vedere crescere la nostra città, a vederla avanzare vittoriosa dentro la campagna, contro la campagna, a conquistare altro terreno. Si muoveva, si muoveva sensibilmente, a vista d’occhio, la nostra città; lanciava, come un drappello ardito, un gruppo di case nuove, che si lasciavano alle spalle, in una sacca, orti e prati, un po’ di verde ancora odoroso di campagna e di letame, che rapidamente intristiva e si seccava. Noi eravamo entusiasti di questa marcia vittoriosa, ed ogni sera ne parlavamo come di un fenomeno assoluto ed eccezionale.
Il senso vero della città, proprio quello che sfuggiva a queste talpe di medievalisti eruditi, ed a quelle cornacchie di archeologi, eccolo qui: la città tutta periferia, aperta, aperta ai venti ed ai forestieri, fatta di gente di tutti i paesi. Non somigliava, dicevamo noi, a nessun’altra città italiana, e forse aveva ragione il tenente Bucker a trovarvi aria di casa e a desiderare di restarvi a lungo, ogni volta che il suo lavoro lo portava fra noi.
Il tenente Bucker era un giovane professore americano, venuto su con il suo esercito, durante la guerra, ed affermava appunto che la sua città, Kansas City, somigliava alla nostra. Ed a noi questo paragone era piaciuto, ne avevamo fatto un simbolo: Kansas City, Kansas City è la nostra realtà, altro che storie! Le origini della città? L’anno di fondazione? Ma era il 1944, né più né meno. Prima di allora non esisteva, era stata fondata dagli americani, che, giungendo fra noi, avevano spianato un campo per farvi atterrare gli aerei, aperto rivendite di coca-cola, spacci di generi alimentari, dancings, depositi di materiale, creando all’improvviso un centro di traffici nuovo.
[…]
Così, quando veniva qualcuno importante, uno scrittore, un giornalista, un intellettuale, da Roma o da Firenze, non lo portavamo certo a vedere il vecchio càssero, o le mura, o quell’antica tavola del Lorenzetti. Non era certo questo che poteva interessare noi e il nostro ospite, serio, intelligente, moderno, sensibile, spregiudicato. La città nuova gli facevamo vedere, la periferia in espansione, gli sterrati, gli orti ed i poderi via via rosicchiati dai nuovi quartieri di abitazione.
La nostra passeggiata preferita era alle Quattro Strade, un posto chiamato così perché davvero vi si incrociavano quattro strade: di Roma, di Livorno, del mare e infine quella della nostra città: al centro del quadrivio si levava altissimo un cipresso, e lì vicino un garage, con tutti gli impianti per pulire le macchine e ripararle, i distributori di benzina, un bar aperto tutta la notte, che faceva anche cucina per gli autisti dei grossi camion col rimorchio, i quali viaggiavano tutta la notte e facevano sosta lì per la cena.
Si è sempre detto che per mangiare bene bisogna fermarsi dove vanno gli autisti, e così ci piaceva portare il nostro ospite alle Quattro Strade. Non c’era tovaglia, è vero, né grande varietà di piatti, ma in compenso c’era la compagnia dei camionisti, uomini robusti, atticciati, con giubbotti di pelle, gente decisa e sbrigativa, che pensava al lavoro, a mangiare e alle donne.
Noi ordinavamo bicchierini di grappa e si restava lì un paio d’ore, a sorseggiarla, a guardare i camionisti, a parlare di letteratura. Letteratura americana, naturalmente; e veniva sempre il momento in cui il nostro ospite osservava che quell’angolo di provincia, così, con la campagna a ridosso e la grande strada della capitale, e i camionisti, un posticino così, tranquillo, bene illuminato, pareva proprio uscito da una pagina di Hemingway. O di Saroyan.
La provincia doveva essere un po’ tutta così, fosse America, Russia, o la nostra città. La provincia, culturalmente, era la novità, l’avventura da tentare. Uno scrittore dovrebbe vivere in provincia, dicevamo: e non solo perché qui è più facile lavorare, perché c’è più calma e più tempo, ma anche perché la provincia è un campo di osservazione di prim’ordine. I fenomeni, sociali, umani e di costume, che altrove sono dispersi, lontani, spesso alterati, indecifrabili, qui li hai sottomano, compatti, vicini, esatti, reali.
Una provincia come la nostra, oltretutto, offriva, per la cultura, il vantaggio di non avere tradizioni, ubbie passatiste, tabù sociali, come succede altrove. C’erano, è vero, gli etruscologi ed i medievalisti, con i loro cocci, le loro sòccite, i loro buccheri e le loro scartoffie, ma cosa contavano? Chi li prendeva sul serio? Nella nostra città si poteva ricominciare tutto daccapo, e in Italia, quanto a cultura (ma anche per il resto) c’era proprio gran bisogno di ricominciare tutto daccapo.
Eravamo orgogliosi: si doveva star qui, lavorare, produrre. Nessuno di noi si sarebbe mai sognato, un giorno, di partire per Roma o per Milano. Bella città, Roma, senza dubbio, e piena di facili promesse: le mostre d’arte, il teatro, Cinecittà, i concerti, i salotti letterari, le riviste, i caffè, e tanta bella gente (tutta venuta, a guardar bene, dalla provincia): scrittori, registi, pittori, intellettuali insomma. Ma lì poi cosa avevano fatto, cosa stavano facendo?
Una città parassitaria, ecco cos’era Roma, e non soltanto per via dei ministeri. Si succhiava la provincia, per vivere di splendida rendita. Uno di noi, a turno, andava a Roma, una volta alla settimana, ed al ritorno ci informava delle novità, dei premi letterari, dei libri che dovevano uscire, delle nuove compagnie teatrali, delle deliziose malignità che si dicevano nei caffè, dei pettegolezzi correnti.
Ci spiegava che lo scrittore Tal dei Tali andava a letto con la Tale, che il regista di quel certo film era poi un pederasta, mentre sua moglie se la faceva con un collega, divorziato da una pittrice lesbica. Insomma l’intellighenzia romana, dicevamo noi, ad altro non pensava che a scambiarsi le donne.
Tutti su un letto a duecento piazze, dicevamo ancora, tutti su un letto a duecento piazze avrebbero potuto mettersi gli intellettuali di Roma. Se si potesse far costruire un letto a duecento piazze, e mandarlo a Roma, diciamo in piazza Navona, che è grande abbastanza, in capo a un mese ce li troveremo sopra tutti, incastrati l’uno con l’altro, con le loro donne, come in certi disegni fantasiosi e osceni che circolavano fra i banchi, al tempo del liceo. Non solo, ma se un uomo mutava donna, ecco che tutto il sistema ne era rivoluzionato, e tutti gli altri centonovantanove dovevano mutare anch’essi la donna. Dato che simili mutazioni erano tutt’altro che rare, si poteva calcolare che nello spazio di venti mesi ciascuno si giaceva con la sua sposa legittima: poi ricominciava la bufera infernale.
E Milano? Milano era lontana, su, oltre il Po, vicino alla Svizzera, una città di fabbriche, di grandi imprese, di traffici. Gli intellettuali lassù sparivano dietro a un grosso nome, e diventavano funzionari di un’industria, tecnici della pubblicità, delle human relations, dell’editoria, del giornalismo. Cessavano di esistere come clan, come corporazione, come grande famiglia; non erano più il sale della terra, i cani da guardia della società, i pionieri dell’avvenire, gli ingegneri dell’anima.
No, non c’era altra possibilità: bisognava lavorare da noi, in provincia, nella nostra città.
[da «Il lavoro culturale» di Luciano Bianciardi, in Trilogia della rabbia, Feltrinelli, 2022]
Torna Indietro