31/05/2011
Una buona dose di comparazione non farà male ai senesi che vogliano capire meglio come e quando la loro città abbia assunto le forme più visibili e quotidiane della sua struttura. Marc Bloch, il più grande storico del Novecento, scriveva che non c’è “conoscenza autentica senza una certa gamma di comparazione” e che sommamente giovevole è istituire un confronto tra realtà diverse eppur dotate di affinità. Tenendo ben a mente questo sanissimo principio Monica Busti ha sfornato un libro che è il frutto di annose e meticolosissime ricerche, tese a studiare, come suona il titolo, “Il governo della città durante il ventennio fascista” (Deputazione di storia patria per l’Umbria, Perugia 2010). E il sottotitolo chiarisce subito che le pagine della ricerca hanno per oggetto tre città: “Arezzo, Perugia e Siena tra progetto e amministrazione”. Si tratta a parere dell’autrice di tre città medie, che plausibilmente tipizzano modelli urbani legati ad un passato da rispettare e sospinte verso una modernizzazione prudente, ma non pigra. E tutte e tre hanno avuto durante il ventennio fascista arricchimenti notevoli. O hanno allora registrato l’elaborazione di piani – spesso per fortuna rimasti lettera morta – di ambizioso respiro. Gli sviluppi dell’economia sono stati difformi, ma non al punto di impedire un significativo raffronto. Ha sostenuto Emilio Gentile che il fascismo non fu affatto il regno di una vana e retorica parola: non solo Roma fu scena di una “ideologia pietrificata”.
La modernità - Esaminando bene, con il distacco oggi possibile, città come le tre prescelte, si acquisisce netta la consapevolezza che la modernità non hai mai sconvolto i sonni di centri così poco propensi all’innovazione come durante il regime mussoliniano. Che da un lato tendeva a “congelare le economie dell’area in esame”, la cosiddetta Terza Italia, e dall’altro sollecitava un cambiamento programmato e controllabile. L’indagine della Busti si divide in tre parti: nella prima si delineano i confini della regione analizzata, nella seconda ci si sofferma sui programmi politico-urbanistici promossi dalle amministrazioni e, infine, nella terza (“Materia e simboli”) si guarda alla “concreta modificazione dei modi di vita, lavorativi e abitativi”.“La conservazione del medioevo – precisa l’autrice –, punto fondamentale dei piani e dei progetti, refrain degli articoli giornalistici e delle lamentele degli eruditi locali, è valutata sulla effettiva accentuazione degli stereotipi e miti locali e rispetto alle finalità simboliche e educative del potere”. Ebbene: il sugo che si ricava dall’accurata esplorazione è condensabile in poche righe. Il segno più cospicuo ereditato dal regime fu l’accentuazione classista nella disposizione degli spazi, con l’esilio in periferie ben dosate delle classi meno abbienti (da noi si pensi a Valli e a Ravacciano). Ciò non impedì – è onesto riconoscere – decorosi insediamenti di edilizia sovvenzionata. Parallelamente si manifestò una grande attenzione nel dotare i centri di “nuovi spazi per la socialità”, intonati con una linea di “nazionalizzazione delle masse” che faceva leva su sport e spettacoli, fiere e folklore.
I borghi di servizio - E non è da credere che taluni indirizzi, oggi criticabilissimi, non abbiano avuto ascolto nella rinascita dopo la guerra: si pensi all’idea di “borgo di servizio”, cioè di piccole aggregazioni sparse, che “si accordavano alla perfezione con i richiami alla ruralizzazione così intensi nel Ventennio”. A Siena il Piano Piccinato del 1959 rilancia quel modulo come una delle linee fondamentali di crescita. E quanto alle previsioni di incremento demografico, se di Perugia agli inizi degli Anni Trenta si immaginava il raddoppio (da 30.000 a oltre 60.000 abitanti), a Siena si riteneva attuale piuttosto decongestionare il centro attraverso nuove vie di scorrimento: altra ipotesi coltivata e riproposta pari pari dal Piano del 1959. Enfatizzare la “nostalgia del passato” fu un’altra delle idee-guida e produsse operazioni onerose e di successo: più che di restauro delle mura si deve parlare di ricostruzione di interi tratti. Le Porte tra il 1932 e il 1939 furono (troppo) restaurate ed assunsero la fisionomia assai scenografica che conservano. In Fortezza si piazzò, nel 1937, un anfiteatro classicheggiante che è stato ad oggi l’inserimento più coraggioso e emblematico di una riconversione da uso militare a attività artistico-teatrali: intuizione lasciata a se stessa ma già potenzialmente ricca di (tuttora attesi) sviluppi. La sventurata stazione di Angiolo Mazzoni fu inaugurata nel 1935. Del ’38 è lo stadio del Rastrello, che suscitò le proteste di Mino Maccari e di quanti lo videro come opera faraonica mal dislocata: avevano torto marcio. Anche l’idea di dar vita attorno alla Fortezza medicea, nella neonata espansione di San Prospero, di un Parco urbano nacque allora e con gli anni ha semmai subito letture via via più riduttive: il cosiddetto Parco delle Rimembranze fu inaugurato ufficialmente il 22 aprile del 1923. Partecipa di questa temperie nazionalistico-patriottica il gelido e cimiteriale Asilo Monumento, che Lando Bortolotti definì come un “ridicolo incrocio fra asilo infantile e monumento ai caduti”, ma che commosse l’interventista Piero Calamandrei e chissà quanti altri spiriti democratici. Nel 1935 ecco l’inaugurazione del Sanatorio ai Tufi e nel 1942 del Dispensario centrale del Consorzio antitubercolare a Sant’Ansano. Certo: le trasformazioni furono meno eclatanti di quanto immaginato con eccesivo fervore dai vari Viligiardi e Mariani. Ma, a rifletterci bene, pare indubbio che la modernizzazione più pianificata e invadente risalga all’urbanistica di quei decenni, ad una serie di opere pubbliche che miravano a consolidare il consenso al sistema offrendo occasioni di sociabilità e servizi di cura, gradevolezza estetica e fruibilità collettiva. E quante feste o parate benedette dal regime o annesse alla sua forsennata e astuta propaganda punteggiavano i giorni apparentemente quieti di città contente di rispecchiarsi nel proprio glorioso passato! Nel 1925 il Monte dei Paschi celebrò il III centenario della propria fondazione con magniloquenti iniziative, non certo inferiori a quelle che nel 1972, con una dilatazione avveduta dei tempi, dettero nazionale risalto al V centenario. La “nostalgia del passato” si tramuta sovente in appassionata – e nobilitante, non arbitraria – retrodatazione delle origini.
Articolo pubblicato su "Il Corriere di Siena” il 30 maggio 2011
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