C’è una mala erba – titolo dell’ultimo romanzo di Antonio Manzini (Sellerio) – che infesta e degrada il nostro presente. E noi ci viviamo in mezzo, arresi alla sua devastazione, fino a fare di quel paesaggio degradato il nostro modello a-morale. Questa è l’amara metafora del racconto di Manzini, che vede come teatro l’immaginario paese di Colle San Martino, 300 abitanti, dove i calendari segnano sì l’anno 2009, ma mentre spippoli sul cellulare, devi fare attenzione a “non calpestare le merde di mucca e di pecore lasciate all’alba dalle bestie dirette ai pascoli a mezza costa”. Un luogo impiombato da una cappa ancestrale e dominato da due spregevoli individui in conflitto tra loro perché uguali: Cicci Bellè, “proprietario di tutto”, usuraio senza scrupoli, il cui scampolo di cuore lo riserva giusto al figliolo, un ragazzone di 32 anni con il cervello di un bambino di 5; padre Graziano, prete reazionario, sempre in giro con un insopportabile nipotino (che in verità è suo figlio) accudito dalla taciturna Ljuba (che del prete è la compagna). Quella di Colle San Martino non è vita. Pare solo la passiva attesa del dissolvimento. Ciascuno incarognito dai propri egoismi, meschinità, dall’arrovellarsi nell’individuazione di un nemico, di un odio. Ed è qui che vive la diciassettenne Samantha, ragazza non proprio fortunata, uno di quegli esseri destinati a non avere futuro. Famiglia economicamente disagiata, genitori inadatti a recepire le sue inquietudini. La mattina, quando va a prendere la corriera per recarsi a scuola, guarda il paese con sconforto e fantastica sul giorno in cui potrà uscire da quella gabbia: “Ancora due anni di liceo, poi quelle quattro stamberghe accucciate in mezzo alla valle come bestie che si riparano dal vento sarebbero diventate una cartolina sbiadita e neanche tanto pittoresca nella sua memoria”. Ma Samantha ne dovrà passare di brutte e tragiche vicende prima di rivalersi sulla vita con il guizzo di quella donna lupo raffigurata nel poster appeso in camera sua, “capelli lunghi, occhi gialli, un corpo da mozzare il fiato, gli artigli al posto delle unghie”. Con la metafora di un piccolo agglomerato di umanità disperatamente arresa e fattasi inumana, con la lotta di un esserino di diciassette anni iscritto dal destino nella lista dei deboli e degli emarginati, Antonio Manzini ha inteso rappresentare l’abbrutimento verso il quale procede la società. Una mala erba che soffoca il presente e depreda il futuro: di Samantha e dei ragazzi come lei. Che poi sarebbe il futuro del mondo.
***
Samantha De Santis alzò le serrande della stanza da letto e il sole quasi la abbagliò.
Finalmente era arrivato il sabato, un sabato di sole per giunta. A scuola le lezioni sarebbero durate solo quattro ore e poi finalmente domenica.
Guardò fuori.
Le cime dei monti erano ancora incappucciate di bianco. Lassù continuava l’inverno. L’acqua caduta nella notte correva per le stradine del paese per fermarsi nelle grate ostruite. Le mucche pigre erano già uscite dalle stalle e passeggiavano indolenti per i campi acquitrinosi con le groppe fumanti. Due cavalli nel recinto col pelo infangato brucavano l’erba limacciosa. Il cespuglio di erica era fiorito, e le camelie, arrampicate sul muretto accanto al cancelletto del suo giardino, avevano tirato fuori in anticipo le prime gemme. I tetti bagnati delle case riflettevano la luce e i comignoli erano pipe che sbuffavano fumo.
Samantha poggiò la fronte sul vetro ancora freddo. Poi si staccò e ci vide un quarto del suo viso riflesso. «Che palle!» disse.
Prese i libri di filosofia e di matematica e scese in cucina per la colazione. Sperava di non incontrare sua madre, non aveva proprio voglia di parlare. Voleva stare da sola coi suoi pensieri, che già quelli le occupavano la mente.
La mamma non c’era. E neanche papà Enzo, il sabato usciva prestissimo per andare a caccia nei boschi. Bevve un bicchiere di latte, si infilò il parka e uscì di casa guardando il cellulare. Era in orario.
Prese un bel respiro. L’aria ancora fresca della notte le penetrò nei polmoni dandole una sferzata meglio di un caffè. Appena in strada, nel giardino accanto, vide zio Primo che lavorava con la pala un fazzoletto di terra di fronte al cancello. Stava cercando di togliere il fango accumulato sulle piante di piselli. Il giardino era ricoperto con delle piastrelle, così quando pioveva l’acqua scivolava via, e in più non si portava la sporcizia in casa, ma avevano lasciato quei metri quadrati di terra davanti all’entrata per l’orticello. Primo si alzava dal letto quando zia Ida, sua moglie, ancora sonnecchiava, e fra pecore, orto e qualche lavoretto in paese aveva sempre da fare. Era un uomo silenzioso, e ogni giorno, prima di mettersi all’opera, indossava un curioso grembiule blu che lo faceva somigliare ad un operaio di una catena di montaggio. «Ciao zio!». Primo le rispose con un cenno della testa; non era suo zio, ma si conoscevano da quando Samantha era una neonata, e Ida e Primo erano sempre stati di famiglia. Senza figli, avevano scelto Samantha come nipote acquisita, tanto che se doveva parlare con qualcuno, lei preferiva zia Ida a sua madre. Ida non aveva studiato ma conosceva la vita meglio di chiunque altro e le voleva bene più di sua madre, Marinella. Ida la rispettava e la stava a sentire, aveva deciso che nel pomeriggio ci avrebbe fatto quattro chiacchiere. Ne aveva bisogno, un bisogno urgente. L’ansia che le toglieva il sonno non se ne andava, le mangiava lo stomaco. Doveva parlare con qualcuno, un adulto, perché il problema ormai non lo sapeva più gestire da sola.
Si incamminò lungo la discesa che arrivava alla strada principale. Cercò di non calpestare le merde di mucca e di pecore lasciate all’alba dalle bestie dirette ai pascoli a mezza costa, di non storcersi una caviglia nelle buche che si aprivano nel vecchio asfalto sdrucito e di evitare i rivoli di acqua e fango che la terra ai margini della stradina continuava a vomitare.
Costeggiò il paese, arrivò alla strada che portava giù alla provinciale e si mise ad aspettare la corriera.
Guardò il cielo, poi i tetti di Colle San Martino. Un gruppo di case ammassate sul dorso di una montagna, freddo d’inverno e d’estate. Circondato dai boschi e da prati che servivano da pascolo, trecento abitanti, tantissimi per quel gruppetto di palazzine a due piani. C’era una chiesa, un bar-spaccio-tabacchi e un barbiere. Tutto lì. Una gabbia dalla quale prima o poi Samantha sarebbe scappata. Ancora due anni di liceo, poi quelle quattro stamberghe accucciate in mezzo alla valle come bestie che si riparano dal vento sarebbero diventate una cartolina sbiadita e neanche tanto pittoresca nella sua memoria.
Roma.
In mezzo alla gente che neanche ti conosce.
I concerti. I pub. Le pizzerie.
Ma al momento questo le toccava. Colle San Martino e il tarlo che da tre giorni le stava rosicchiando la vita. Altro che Roma, concerti e pizzerie. C’era una spada di Damocle che le pendeva sulla testa e nessuno con cui condividerla.
Con uno stridio di freni la vecchia corriera blu si arrestò davanti alla fermata. Samantha salì, mostrò la tessera all’autista e si andò a sedere al centro del pullman. C’erano solo una vecchia con un cesto coperto da un canovaccio seduta accanto al guidatore e un ragazzo stravaccato sui sedili in fondo con le cuffiette dell’iPod nelle orecchie. Lo conosceva di vista. Anche lui andava in città, faceva ragioneria o l’alberghiero. Non si erano mai salutati e mai l’avrebbero fatto. Il pullman con un singhiozzo e uno scricchiolio rugginoso ripartì e riprese la corsa.
Se si sporgeva nel corridoio centrale, davanti al parabrezza Samantha poteva vedere i tornanti serpeggiare in mezzo al bosco. La strada era una striscia di asfalto scorticato, buche profonde si aprivano in più punti e i sassi bianchi della vecchia sterrata rispuntavano dal grigio del bitume come ossa spolpate. Ma era l’unico cordone ombelicale che teneva il paese legato al resto del mondo. Dopo il ponte sul fosso, la corriera rallentò. La corsia di sinistra era franata verso il torrente sei anni prima e quella strozzatura riduceva la strada a un sentiero di campagna. Da sei anni c’era quell’imbuto, e a parte un paio di reti metalliche contenitive nessuno si era preoccupato di venire a riparare la corsia sprofondata. Traffico lassù non ce n’è, pensavano quelli della provincia. A parte i pochi abitanti di Colle San Martino, e la corriera due volte al giorno, a nessuno veniva in mente di inerpicarsi per quelle curve. I grossi pneumatici, in un precario equilibrio fra la carreggiata e il bordo del fosso, riuscirono a portare il mezzo fuori dalla strozzatura per riprendere la discesa verso la provinciale.
Samantha aveva tirato fuori il diario, e per la ventesima volta ne sfogliava le pagine. E per la ventesima volta la risposta della Smemoranda fu sempre la stessa: sei in ritardo di almeno dieci giorni.
Rimise l’agenda nello zaino, si appoggiò al vetro della corriera e chiuse gli occhi. Era una cosa troppo grande per lei. Non poteva farcela contro un nemico così potente. Non ora, non a 17 anni, con un padre disoccupato e una stronza di madre che si preoccupava solo della gente. La gente che pensa, la gente che fa? Buongiorno mamma, sono incinta. Sai di chi? Di quello stronzo nullafacente e ignorante di Roberto Sarcinelli, il figlio di Mimmo Sarcinelli, hai presente? Quello straccione che si guadagna da vivere spalando la merda dei cavalli. Sei felice?
Roberto Sarcinelli? Robertino? Ma come hai potuto, Samantha! le avrebbe detto.
E il guaio era che mamma Marinella avrebbe anche avuto ragione.
Roberto Sarcinelli. Ma come si fa?
[da La mala erba di Antonio Manzini, Sellerio, 2022]
Torna Indietro