Maurizio Maggiani è un bravissimo raccontatore. Racconta storie di libertà e di quanti, attraverso il tempo, nella libertà hanno creduto; oggi dimenticati, insieme ai loro ideali, nel risucchio di un’amnesia collettiva dove pesticcia l’umanità dei senza-passato e senza-futuro. Merita, dunque, leggere l’ultimo suo romanzo, “L’eterna gioventù” (Feltrinelli), per ritrovare l’afflato di quel sentimento libertario che, lungo i secoli, è stato declinato in vicende e latitudini diverse, ma sempre con eguale cuore, tenacia, idealità. Di questo parlano le affabulanti pagine di Maggiani: di una eterna gioventù (di una eterna rivolta) ogni volta rivissuta in chi ha combattuto rivoluzioni e guerre di libertà. Ecco, allora, come ci si ritrovi nelle vite di molteplici personaggi quali Garibaldi e Anita, Antonio Meucci, Emma Goldman, Gaetano Bresci, Carlo Tresca, Sandro Pertini. Tra costoro c’è un personaggio leggendario: la Canarina, una donna nata nel 1901, “l’essere umano più antico del mondo”, che conosce ogni storia poiché l’ha vissuta (ha centovent’anni). Con lei e suo nipote, l’Artista, scorre, giustappunto, un secolo di storia. La Canarina porta questo nome perché così erano chiamate le donne che durante la Grande Guerra lavoravano al munizionamento nell’industria bellica (il tritolo rendeva gialli mani e volti). La Canarina aveva iniziato questo lavoro a sedici anni e ogni giorno aveva nascosto qualche granello di tritolo sotto le unghie dei piedi (una sorta di guerra personale) che poi deponeva in una cassetta fino ad accumularne cinque chili. Sarebbe poi stata quella cassetta ad attraversare mari, età, istanze di rivolta. Poiché – scrive Maggiani – "La rivoluzione è un lampo, è una stella di San Lorenzo, è una cometa di Natale, bisogna andarle dietro. Poi vederla finire di là dalla linea di tiro chissà dove. Da qualche parte dove lampeggia e tuona. Il vecchio garibaldino guarda gli arcobaleni andare e venire sull’acqua e pensa infine che andrà di là dal secolo a vedere cos’è". ll libro, come si legge in esergo, è “dedicato ai perseveranti”, ovvero a chi non rinuncia al sogno, e quello stesso sogno affida alle generazioni future; e a chi, dunque, lo prende in consegna riscrivendolo nel sentimento del proprio tempo, alimentandolo di nuova passione. Affinché l’eterna gioventù possa rimanere tale. Un grande sogno che in qualche cantuccio del nostro angusto presente sarà pure nascosto.
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Nel fosco fin del secolo morente un vecchio garibaldino si lasciò alle spalle l’ultima rivoluzione e prese la strada per tornare a casa. Si tolse la camicia rossa con i galloni da maggiore e si vestì da straccione, a Salonicco trovò un imbarco da mozzo di sottocoperta su un vapore che portava mille pecore vive al porto di Genova. Tenne a bada le pecore per una settimana, sbarcò, si fece pagare e si ricordò che non sapeva più dov’era casa sua, allora riprese dalla sacca la camicia rossa e salì sul primo tranvai per Quarto. A Quarto si cacciò in acqua vestito com’era e nuotò verso il largo finché ne ebbe la forza, poi si lasciò andare, perché aveva vissuto tutto quello che c’era da vivere e non gli importava più di niente, se non di finire dove aveva cominciato, nell’acqua da dove il Generale Garibaldi l’aveva pescato e portato con sé nella più gloriosa di tutte le rivoluzioni.
Allora aveva tredici anni e il sergente reclutatore l’aveva cacciato perché gli pareva troppo gracile, lui arrivò a nuoto sotto le murate del Lombardo con le caldaie che erano già in pressione, e fu il Generale in persona a lanciargli la sagola per issarlo a bordo. Era di maggio e l’acqua era freschina, lo mandarono ad asciugarsi alle caldaie e gli misero addosso una camicia che gli arrivava alle ginocchia.
Adesso si era in ottobre e l’acqua gli sembrava tale e quale, fu riportato a riva contro la sua volontà sul barchino di un pescatore di palamito, fu portato in città sopra un carro dei volontari del fuoco e innalzato al Caricamento come un eroe, l’ultimo, il redivivo, il Garibaldo.
Si dà il caso che il pescatore fosse un fervente repubblicano iscritto alla Società dei Carabinieri Genovesi, il corpo dei fucilieri garibaldini. Si tennero dei festeggiamenti e delle rimembranze nei circoli operai e nelle società clandestine, la compagnia dei camalli promosse una colletta perché gli venisse donata una sciabola d’onore. Infine, quando le autorità di pubblica sicurezza presero a infastidirsi e a minacciare arresti, fu caricato su un treno perché tornasse a Montemaggio, alla sua città natale. Un telegramma alla locale società garibaldina annunciò il suo arrivo, alla stazione lo aspettava tutto il paese e tra la folla tutta la sua famiglia, mancava da trentasette anni, da quando era partito per andare alla sua prima rivoluzione, non conosceva più nessuno e nessuno sapeva più riconoscerlo.
Aveva cinquant’anni tondi, era alto più di sei piedi e tutto pieno di nervi e di muscoli, aveva sotto il mento e sul braccio destro due cicatrici di ferite d’arma bianca, aveva i due buchi di una pallottola che gli era entrata e uscita sotto il costato a un dito dalla milza. Aveva la barba e i capelli ancora tutti del loro colore castano, i capelli gli uscivano dal berretto fin sul collo. Garibaldo, acclamava la folla intorno, Garibaldo. Gli misero in braccio un neonato e gli dissero, questo è l’ultimo della tua famiglia, si chiama Armando, anche lui quando era partito da casa si chiamava Armando, Armandino da tanto che era magro e minuto. Tenne questo nuovo Armando per il tempo necessario a non offendere, poi lo ripose senza sapere di che farsene.
A lui quel clamore non fece né caldo né freddo, si lasciò portare in tutte le case che lo volevano nutrire e dissetare, mangiò quello che c’era da mangiare e bevve quanto poté, per il resto cercò di aprir bocca il meno possibile. Concluso il giro delle felicitazioni tornò a riporre la sua camicia rossa nella sacca, riprese a vestirsi di stracci e se ne andò via. Il treno costava troppo e prese la strada per Genova a piedi, tale e quale quando se ne partì la prima volta. Adesso non c’erano rivoluzioni dove andare, c’era solo il mare che gli poteva dare sollievo, sopra o sotto c’era solo il mare. A tredici anni il mare nemmeno sapeva bene cos’era, solo l’orizzonte laggiù alla fine del fiume.
Quell’uomo, quel garibaldino nato Armando e universalmente conosciuto come Garibaldo, era il mio bisnonno. Di lui so tutto, tutto mi è stato raccontato della sua fantastica vita da sua figlia, mia nonna. Mia nonna nata Anita e conosciuta da tutti come la Canarina. La vecchia. E so molto anche di lei, direttamente da lei detto e per tramite delle leggende che sulla Canarina si tramandano, e so qualcosa di suo figlio Sirio, nome di battaglia Bruto, mio padre, il mio eroico padre. So anche qualcosa di mio figlio Maurizio, detto Mauri, per averlo cresciuto e ascoltato e infine seguito attraverso le comunicazioni a distanza e alcuni articoli di giornale.
Mauri il meraviglioso. E poi c’è questo ragazzo qui con me, Saverio come doveva essere il mio nome, il figlio di mio figlio, il Menin. Di lui non so ancora niente, lo guardo e in un attimo si dilegua, ha quasi quindici anni, l’età del garibaldino quando sfilava a Napoli conquistata con il Generale. E poi ecco, ci sono io. Io sono l’Artista, sono quello di mezzo, ho sottomano il va e vieni delle generazioni, siamo una progenie di figli unici, ci riproduciamo con cautela e non è difficile tenere a mente di tutti. Non è nemmeno difficile raccontarlo, è il mio privilegio di uomo senza leggenda. Libero di questo peso posso parlare per bocca degli eroi, la mia voce è me, la mia voce è loro. È il mio dovere.
Si è sempre generato per amore nella nostra famiglia, è forse da qui che ha origine la cautela nel farlo. E molto altro è stato fatto per amore, senza reticenze e vergogne. E abbiamo un destino. Prima o poi finiamo tutti da qualche parte in mare, finiamo tutti nella rivoluzione, finiamo tutti nell’eroismo, e infine moriamo. Una famiglia leggendaria. È così, è proprio come se esistesse un destino. Tranne il sottoscritto, quello di mezzo, che ha fatto poco di tutto, poco mare, poca rivoluzione, nessun solitario eroismo e in compenso tanta galera. Buono, questo sì, a ascoltare, a leggere, a ricordare, e a mettercene anche del suo quando è necessario. Perché se è un destino che tiene questa famiglia, bisogna pur trovargli una ragione.
[da L’eterna gioventù di Maurizio Maggiani, Feltrinelli, 2021]
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