10/07/2012
È realmente avvincente e provoca intensa emozione la lettura del bellissimo libro di Ivio Lubrani, dedicato ai Minatori del Giglio (Primamedia editore, Siena 2012): una testimonianza lucida e appassionata di una vicenda collettiva, accettata con sofferenza ma per molti versi disperata che coinvolse per 25 anni, dal 1938 al 1962, la gente di quest’isola aspra e ritrosa, esclusiva e generosa: una gente perennemente rivolta al mare. E a un tratto coinvolta nella illusione mineraria.
Il privilegio di avervi potuto trascorrere tanti giorni per impegni di lavoro coinvolgenti e illuminanti, oltre a brevi periodi di riposo, mi ha consentito di percepire il carattere deciso ma sensibilissimo degli isolani, temprati dalle necessità di strappare dal mare, dalla poca terra coltivabile e poi dal sottosuolo ferroso, l’essenziale per vivere, e mi ha arricchito di ricordi non solo visivi. Il porto, ora offeso da un autentico monumento della stupidità umana, il castello medievale, l’aperta baia del Campese, e poi i poggi, le balze, i tortuosi sentieri, i vigneti appoggiati a pianori rocciosi sono visioni intense, soprattutto se colte sullo sfondo invernale inquieto e talvolta tempestoso, ovvero nelle stagioni di mezzo, allor che l’aria è ammorbidita da un sole ancora tiepido e carpisce, traslucida, il riflesso del mare.
È stata dura per i gigliesi la lotta per vivere e soprattutto per restare su questo frammento strappato dal mare alle colline metallifere del grossetano. E nel libro di Lubrani si ripercorre l’ansia atavica di una comunità fin da epoche non lontane, minacciata, massacrata, violentata dalle scorrerie dei pirati saraceni, e la si ritrova nelle pagine intense dedicate a tragiche vicende di mare o di miniera o alle allucinanti incursioni aeree sull’Argentario e sull’isola stessa: un’ansia atavica, inconsapevole che colsi negli occhi bellissimi e vaganti delle ragazze gigliesi incontrate al porto in occasione del mio primo approdo invernale (3 giugno 1956) motivato da un accertamento medico-legale.
E altri ne sono seguiti, una decina forse; chiamato per accertamenti giudiziari, alternandomi con i colleghi della Università di Pisa. Dolorosamente appresi sin da allora la incredibile storia della miniera del Campese, ancora attiva nonostante la sua avarizia e la sua devastante nocività (patita per l’esigenza di lavorare, respirando polvere e calore, con i piedi immersi nella melma salsa, alimentata dalle acque marine) e conobbi nei volti scuri dei tanti operai che assistevano al camposanto del porto e nelle spoglie prosciugate del compagno perduto la incredibile e spesso mortale asperità di un lavoro ingrato: la estrazione della pirite, la sua frantumazione e lavorazione prima dei processi chimici per la produzione dell’acido.
Vi è tutto questo dolore nel libro del Lubrani, che non ha certo bisogno alcuno d’illustrazione: va solo letto e poi inserito nell’autentico stralunato affresco, intriso di rabbia e d’amore, che Luciano Bianciardi e Carlo Cassola dedicarono ai minatori martiri di Maremma, che ho recentemente ricordato in un mio breve omaggio ai loro compagni dell’Amiata.
Quali che siano i nostri ideali, va fieramente difesa la memoria di una immensa tragedia: scandita dalle ecatombi del Cornacchino, di Ribolla, del Siele, di Ravi, di Caldana: milgliaia di silicotici, centinaia di interventi medico-legali, che mi hanno segnato per sempre. Ma non posso non tornare per un attimo al primo minatore del Giglio che fui chiamato ad esaminare: si chiamava Santi Riello, manovale interno ed armatore nelle gallerie del Campese per una quindicina d’anni, riconosciuto in vita come silicotico e indennizzato con una rendita pari al 100% d’invalidità. Vigeva allora una legge assurda, che esigeva per il riconoscimento post-mortem la presenza dei di noduli di sclerosi silicotica, duri come pallini da caccia: non bastava l’accertamento di altre forme della malattia che aveva condotto a morte il lavoratore.
Ebbene, a questa iniquità, che si palesò anche qui al Giglio e fu confermata da centinaia di casi, indusse due giovani medici legali toscani (Clemente Piccini, con me) a mobilitare le società scientifiche, il sindacato, la politica contro una limitazione, incivile e assurda, tanto che (anche per l’impulso del grossetano Tognoni) il nuovo testo unico sugli infortuni e le malattie professionali (30 giugno 1964, n. 1124) “finalmente armonizzava il rischio alla realtà clinica delle tecnopatie”, stimolando anche da parte dell’INAIL “un impegno severo che sarà tanto più fruttifero quanto più scientificamente convertito e coscientemente affrontato (Silicosi nodulare ma non esclusivamente, editoriale in Malattie del Torace, n. 3, 1965).
Non è fuori luogo, dunque, ricordare quel minatore gigliese … non ignoto, nel presentare un libro che tanti uomini ricorda e onora. Alcuni riposano più in alto, al camposanto del Castello, autentico santuario sul mare. Le lapidi scurite dal tempo riportano cognomi, ricorrenti e spesso inusuali, di uomini e di donne, strappati brutalmente alla vita, e ridestano memorie, leggende, suggestioni che Ivio Lubrani ha ripercorso e illustrato con rispetto, con fedele dedizione alla sua piccola patria. C’è veramente da trarne una lezione civile e morale espressa dai Gigliesi anche del tutto recentemente in termini di fermezza, di generosità e di solidarietà.
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