“La fuga di Anna” è una questione di libertà

Luigi Oliveto

03/06/2022

È il tema della libertà individuale a porsi con vigore e struggimento nelle pagine de “La fuga di Anna”, romanzo d’esordio di Mattia Corrente pubblicato da Sellerio. È infatti una sorprendente scelta di libertà sul limite dello scadere del tempo quella attuata da Anna, che, dopo un’esistenza trascorsa a fianco del marito (sono invecchiati insieme), in un giorno apparentemente uguale a tanti altri, esce di casa per non farne ritorno.
A un anno di distanza dalla scomparsa della moglie, il marito Severino decide di andare a cercarla. Nonostante il peso degli anni, pure lui abbandona il rassicurante spazio domestico, dà un ultimo sguardo alla boccia del pesce rosso e si chiude la porta alle spalle. Lascia l’isola di Stromboli e intraprende un viaggio attraverso la Sicilia nella candida speranza di riportare a casa la sua donna: “Parto. Guardami, Anna. Un vecchio con una valigia, che parte, con la speranza di ritrovarti.” Raggiunge, così, luoghi legati a fatti e stagioni della loro vita. Ma in questo viaggio ad essere percorsa è più che altro la geografia dei sentimenti, delle cose non comprese o taciute, dei trascorsi condizionamenti, delle ipocrisie, delle verità scomode e misconosciute. Da una tale presa di coscienza prende forma il ritratto di Anna, che aveva dovuto sottostare alle imposizioni di una femmina del sud. Essere dunque moglie e madre, quando, invece, avvertiva in sé lo stesso impulso di libertà di suo padre che – la figlia ancora ragazzina – aveva abbandonato la famiglia per insofferenza a vincoli e convenzioni. Adesso – come a calcare le stesse orme del padre per una sorta di ricongiungimento – era stata lei a decidere che almeno l’ultimo scorcio della propria esistenza coincidesse con quella istanza di libertà rimasta inespressa. Per quanto dolorosa potesse essere stata la scelta, perché “la libertà è pericolosa, non cambia le cose solo per te ma pure per gli altri.”
Mattia Corrente padroneggia bene i diversi piani narrativi del racconto, fino al finale con suspense. È una storia intensa, porta profumi e aria di Sicilia. Soprattutto scava nel dilemma che sempre si pone ogni qualvolta ci sia da stabilire su come essere sé stessi senza procurare dolore agli altri. Considerato che scegliere implica sempre abbandonare qualcosa o qualcuno.
 
***
 
Guardami, Anna.
Ho messo i jeans sbiaditi che tanto odiavi. Quante volte mi hai rattoppato le tasche, ricucito la cerniera, i passanti della cinta. Mentre li abbottonavo ti ho immaginata in cucina a braccia conserte, schiarirti la voce fingendo un colpo di tosse. Ma quant’era bello, quel tuo tossire sottile sempre puntuale, la tua voce che mi chiamava per nome e mi sorprendeva di spalle in soggiorno.
«Giuro che li faccio sparire, quant’è vero Iddio» dicevi, e io li toglievo senza nemmeno provare a controbattere. Mi piaceva così tanto sentirti contrariata sempre alla stessa maniera, ogni volta prima di andare a messa. Li ho tolti anche stavolta. Vanno bene i pantaloni verdi di velluto?
Ho stirato la camicia bianca, l’ho lasciata raffreddare sull’asse e sono uscito in terrazzo con la bacinella verde, il rasoio, la schiuma. Ho fatto la barba in piedi, davanti allo specchio appeso al muro. Poi ho aspettato.
Anna, ma che ci faccio qui, in piedi, a sperare che da un momento all’altro mi vieni a chiamare che è già tardi, dobbiamo andare via, che poi il prete non ti confessa.
Che vergogna, far finta che ci sei ancora.
Eccomi. Il viso pulito, la camicia stirata, i pantaloni di velluto e il borsalino dritto sulla testa. Sto per uscire ma torno indietro.
Sono due giorni che non gli do da mangiare. Ho giurato di farlo morire nella sua boccia ma è l’ultima cosa che abbiamo comprato insieme.
Un pesce rosso. Una boccia. Un barattolo di cibo secco per pesci rossi.
Ho dimenticato il suo nome. E adesso non posso, no che non posso ricordare il nome di pesce rosso e ti giuro che ci ho provato. Resto ebete a fissarlo mentre gira nella sua piccola casa rotonda e niente, proprio non me lo ricordo.
Ma dove sei, Anna?
Da quando sei scomparsa inizio a dimenticare. In ogni ricordo di noi ci sono soltanto io. Tu non ci sei più.
Parto. Guardami, Anna. Un vecchio con una valigia, che parte, con la speranza di ritrovarti.
Trascino la valigia sull’uscio, apro il portone e una folata di vento mi solleva il borsalino scaraventandolo nel corridoio, vicino all’appendiabiti. Richiudo il portone, lo scatto metallico risuona nel corridoio e il silenzio della casa mi sorprende di schiena, lo sento penetrarmi il cappotto e stringermi le spalle in un abbraccio invisibile. Vuole trattenermi, impedirmi di andare via. Ho voluto bene al silenzio di questa casa e lui a me, la solitudine mi ha costretto ad affezionarmici. Torno indietro, mi chino a denti stretti e raccolgo il borsalino da terra. Ci soffio sopra, lo scuoto con un paio di manate, l’occhio mi cade sulla mantellina bianca che penzola dall’appendiabiti. Stropiccio una manica tra le dita e chiudo gli occhi. Perché ogni cosa di te mi fa dimenticare che non ci sei? Succede per davvero. Io non ci credo che non ci sei. Ma dura il tempo di un battito di ciglia. Lascio andare la manica di colpo, come se mi fossi scottato le dita.
È il primo di ottobre, cammino rasente ai muri lattiginosi delle case di via Roma e un vento gelido ha preso a inseguirmi fino alla piazza giù al molo.
Oggi è come dicembre, almeno qui a Stromboli.
L’Ossidiana ha appena aperto. Calogero accende le luci delle vetrine e io, come ogni mattina, aspetto sull’uscio che finisca di spazzare il pavimento. Posa lo sguardo sulla mia valigia, sbircia l’ora sull’orologio a muro di fronte al bancone e abbandona la scopa. Mi serve il primo espresso della giornata, dietro di lui la mensola dei liquori con in bella vista una bottiglia di Sambuca.
«Allunghiamolo» gli dico, indicando la bottiglia con il mento.
Calogero alza le folte sopracciglia e sgrana gli occhi, l’espressione di stupore mi ricorda la tua faccia, quando andavamo in visita dal dottore e gli domandavo se ogni tanto potevo bere un bicchierino.
Agguanta la bottiglia trasparente e rabbocca la tazzina.
«Se ci fosse sua moglie mi taglierebbe la mano».
«Ma non c’è» gli ricordo, e mando giù d’un fiato, un fiume di calore che scende fino allo stomaco e poi il solito bruciore, quel groviglio di fuoco nelle viscere delle prime bevute a carnevale, quando avevo diciott’anni, si ballava nei garage e sudavo gioventù e vino.
Mi squilla il cellulare nella tasca interna del cappotto. Lo tiro fuori, fisso inerme il nome di Antonio sullo schermo. È il lamento flebile della sirena a riscuotermi. Ricaccio il cellulare nella tasca che ancora trilla.
Calogero posa sul bancone due bicchierini, li riempie di Sambuca e restiamo in silenzio a guardare l’aliscafo che rallenta, attracca e spegne i motori.
«Se vossia pensa che è viva, comu voli Diu». Beve in un sorso, faccio lo stesso e gli lascio in consegna le chiavi di casa nostra e la vita di pesce rosso.
Oggi è un anno e un mese.
 
[da La fuga di Anna di Mattia Corrente, Sellerio, 2022]
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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