Talvolta la realtà può essere tanto crudele da non possedere nemmeno tutte le parole per essere raccontata. Occorre allora spostarsi nella metafora, magari nel fiabesco, dove anche la crudezza, così simbolicamente trasposta, dà forza al racconto e, di rimando, svela per intero ‘il vero’. Tale è l’operazione che con grande bravura riesce a fare Simone Perotti nel recente romanzo “I momenti buoni” (Mondadori). Fiaba nera su un mondo angusto e infernale di criminalità, violenza, droga, guerra tra bande, devianze, famiglie disastrate, scuola che non resta certo immune da ciò che la circonda e vi viene portato dentro. E’ in questo degrado che sono cresciuti i due ragazzini protagonisti, il Tranquillo e il Pratico. Se la devono vedere con i fratelli più grandi, con chi detta legge nel quartiere, con cattivi o imprevedibili maestri che si chiamano Il Vecchio, la Prugna, il Padre, il Marinaio, la Signora. Le case dei giovanissimi protagonisti sono luoghi di sopruso e violenza, sono la Casa Diroccata e la Reggia (dove c’è il minaccioso Sorcio, il Principe e il Primo Cavaliere pronti a dare bòtte per un niente). Il Tranquillo e il Pratico si ritrovano, sodali, a difendersi da tutto ciò; peraltro contravvenendo al patto d’odio che le rispettive famiglie (i clan) perseguono da anni l’una contro l’altra. Impauriti ma rincuorati dalle reciproche confidenze, intuiscono che sarebbe possibile sottrarsi a quel mondo e a quelle logiche, forse cominciando a salvare TeneraSilvia, l’amata compagna di classe, e il Ronin, il genietto chiuso in casa da un anno. Sarebbe dunque praticabile aggirare un destino che altri vorrebbero far intendere ineludibile. Il racconto procede nella tenera e tormentosa ricerca di questa via di salvezza: una via melmosa, subdola, scabrosa, cosparsa di vetri. Metafora nella metafora, la vicenda, al di là del suo ristretto universo narrativo, allude chiaramente all’universo mondo, ai suoi molteplici spaesamenti, alle piccole e grandi geografie dove chissà quanti Tranquillo e Pratico vorrebbero trovarsi altrove. Non è un caso che il libro sia dedicato “a tutti quelli che nascono nel posto sbagliato”.
***
Io sono il Tranquillo
Due bambini, o ragazzini, come cavolo si chiamano a quell’età? Uno seduto sul muretto, all’ombra. L’altro alla fermata, anche se non sta aspettando niente.
Uno sguardo li aggancia. Sopracciglia aggrottate, un occhio chiuso, tutta la rabbia e il sospetto del mondo.
L’autobus arriva, soffia. Li copre uno alla vista dell’altro. Poi riparte. Un uomo attraversa, una ragazza s’incammina sul marciapiede. Quello seduto sul muretto, il Pratico, è ancora lì. Pensava che l’altro, il Tranquillo, sarebbe salito. Invece è sempre alla fermata, stessa posa di prima. Senza la maschera dura, il Pratico è sguarnito. Prova a riassumerla in fretta, ma su due piedi non ci riesce.
Il Tranquillo si muove. Attraversa la strada, gli si piazza davanti. Non si sono mai trovati così vicini, uno faccia all’altro. È proibito, e nel caso dovrebbe succedere subito qualcosa di brutto. I fratelli maggiori, al loro posto, si starebbero già pestando. Invece i due frugano con gli occhi di qua e di là. Cercano un’espressione. Non la trovano.
«Io sono il Tranquillo. Mi riconosci?» Il Pratico fa segno di sì, posizione di difesa, ma prevale qualcos’altro. Quando sei curioso, non puoi fare la guerra.
Basta. Non accade altro. Seduti sul muretto, si scambiano una cicca, uno fa vedere all’altro un’app sul telefono.
Dopo un tempo abbastanza breve il Pratico scende dal muretto. Si sbatte la mano sul culo, polvere sui jeans. Si guardano un istante. Un gesto col mento. «Oh.»
Quella volta basta così. Per due nemici, il primo giorno, è anche troppo. Ma il primo giorno di che?
Di questa storia.
La Reggia
Nella Reggia ci vivono il Re, la Regina, la Principessa, il Principe. E poi lui, il Tranquillo, l’unico suddito, destinato a vagare, ma senza essere neppure un cavaliere errante. Sembra che nessuno si accorga di lui, nella Reggia, a parte il Duende, che cerca e insegue il Tranquillo dovunque. È una specie di mostro, mezzo animale, mezzo uomo. Il Duende se ne sta tutto il tempo nascosto, in qualche angolo, dietro un divano. A volte il Tranquillo passa in un corridoio, o getta un occhio dentro al ripostiglio, e capisce che il Duende è stato lì di fresco. Quando la Reggia è popolata scompare, ma ogni tanto il Tranquillo lo vede spuntare sotto a una tenda della finestra, solo la punta delle zampe artigliate. E allora si sposta, se deve passare fa il giro largo.
Chi chiama il Tranquillo, nella Reggia, lo fa sempre berciando, urlando, apostrofandolo. Il Principe lo odia. Appena può lo picchia. Gli torce un braccio spingendolo sul divano con l’altro, serrandolo al collo, pugno chiuso sulla guancia. Lui non sopporta il Tranquillo, odia i suoi silenzi.
«Che cazzo pensi?! Stai sempre zitto..., sei una merda, non servi a niente.» Livello di stronzaggine: otto.
La Principessa invece lo disprezza e basta. Lo considera niente, una crosta da staccare con le unghie, una macchia sulla camicetta da coprire coi capelli. Se lo incrocia per strada, nei pressi della scuola, fa finta di non vederlo, indica dalla parte opposta, in modo che i suoi amici si voltino. Che nessuno lo colleghi a lei. Il Tranquillo la spia quando si spoglia.
«Porco!» e gli tira quello che trova.
Di notte la immagina. L’ha anche sognata, ma non se ne ricorda, a parte che era nuda. E umida. Che pisciava davanti a lui. Aperta. Il Tranquillo prova per lei un misto di ribrezzo, desiderio, altro che non sa. È iniziato tutto quel giorno: era convinto di essere solo nella Reggia, tornato da scuola prima del tempo. Sospeso dal Preside per aver scritto una frase oscena sul suo diario, nemmeno sulla lavagna. Quei rumori che non ha sentito subito, quando è entrato in casa. O forse sì, li ha sentiti, perché è andato dritto verso la stanza da letto del Re.
Ma quel giorno è il non-tempo, il non-luogo, non se ne può parlare, è lo spazio-tempo cancellato. Un ronzio alla testa che sale e lo fa diventare paonazzo, senza bisogno di pensarci consapevolmente. E allora scaccia tutto. Non pensa, il Tranquillo. Pensa troppo, il Tranquillo. Troppo è uguale a niente. Anche per questo, nella Reggia, sta male.
Il Re non c’è mai. Quando c’è è sempre notte, e qualcosa non va. Non si sa mai niente di preciso sul conto del Re. Se si tratta di lui è tutto un segreto. L’unica che si vede di giorno è la Regina. Fa avanti e indietro, parla da sola, urla. Oppure riceve la visita di due amiche, le PovereDonne, guardano la televisione, lo schermo enorme, smisurato, dicono sempre che è bellissima quella televisione. Parlano di altre PovereDonne, inferiori a loro. Poi abbassano la voce, sussurrano nei passaggi più scabri. Ma il Tranquillo le sente lo stesso. Infatti sa sempre cose che non dovrebbe sapere.
La Regina teme il Re. Lo detesta, lo odia. Ha paura di lui. Quando lo fa arrabbiare, il Re le molla un ceffone. Lei urla. Sono i momenti in cui gliene dice di tutti i colori, fa riferimento a episodi che il Tranquillo non conosce, o conosce solo a frammenti. Lei fugge per i corridoi e le stanze della Reggia. Lui urla più forte di lei, e quando lo fa gli esce una voce stridula, graffiata, e sembra un altro uomo, uno che il Tranquillo non conosce. Le dice cose orrende, se la raggiunge e ha bevuto o preso altre cose, la picchia, gliele dà di santa ragione. Ma lo fa solo quando c’è la Principessa, così lei corre, grida, li divide, lo guarda con odio. Si afferrano, il Re e la Principessa, si strattonano, è un po’ come se si abbracciassero, quasi che si vogliano trattenere. E il Re a quel punto si ferma. C’è quel fatto, tra loro, quello a cui non deve neanche pensare.
Dopo cala il silenzio. Il più totale che la Reggia conosca. L’unico. Sono i momenti buoni. Il Tranquillo sa che per un po’ non accadrà niente. Allora si cerca l’angolo più remoto, si sdraia, naviga sul suo telefono nuovo, enorme, luminoso. Vaga lontano. Soprattutto, prende in mano un libro. Sa che il Principe non vuole, e sfrutta quei momenti di pace dopo le botte, quando tutto è congelato, per leggere. Se lo vede gliele dà forte. Nessuno legge nella Reggia. È una cosa grave leggere, è vietato.
Nessuno scrive della Reggia. Almeno, il Tranquillo non ha mai trovato libri sulla Reggia. Solo su altro, su tutto, e per altri. E lui legge proprio per quello: chi li ha scritti non sa di lui e della Reggia, di quell’inferno, e gli parla con parole diverse, come se fosse un altro, abituato a vivere in un posto diverso, senza la Regina, il Re Preside per aver scritto una frase oscena sul suo diario, nemmeno sulla lavagna. Quei rumori che non ha sentito subito, quando è entrato in casa. O forse sì, li ha sentiti, perché è andato dritto verso la stanza da letto del Re.
Ma quel giorno è il non-tempo, il non-luogo, non se ne può parlare, è lo spazio-tempo cancellato. Un ronzio alla testa che sale e lo fa diventare paonazzo, senza bisogno di pensarci consapevolmente. E allora scaccia tutto. Non pensa, il Tranquillo. Pensa troppo, il Tranquillo. Troppo è uguale a niente. Anche per questo, nella Reggia, sta male.
[da I momenti buoni di Simone Perotti, Mondadori, 2021]
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