La favola nera di Arturo Perez-Reverte

Luigi Oliveto

20/02/2020

È una favola nera il romanzo di Arturo Perez-Reverte “I cani di strada non ballano”, edito da Rizzoli per la traduzione di Bruno Arpaia. Storia di cani che ragionano, provano sentimenti, filosofeggiano, fanno progetti. Un apologo crudo e niente affatto retorico dove l’universo canino è specchio di quello umano, ma con qualcosa di meglio. La storia comincia sul greto del fiume dove la vicina distilleria sversa residui di anice. È luogo abituale di ritrovo dei cani del quartiere, lo chiamano Abbeveratoio di Margot. Là si incontrano ogni sera per scambiare due chiacchiere, confidarsi le loro paturnie, slinguare dentro l’acqua per farsi un bicchierino (e anche più d’uno) d’anisetta. Si inscenano amori e gelosie (due di loro sono innamorati della stessa cagnetta), ciascuno manifesta nel bene e nel male la propria personalità (il levriero Boris, ad esempio, è un essere alquanto fatuo), talvolta si raccontano il mondo in cui hanno vissuto o vivono tutt’ora, come il fascinoso Agilulfo, un segugio molto acculturato perché la casa in cui abita è dotata di una fornitissima biblioteca. In questo affiatato crocchietto di amici, a un certo punto, però, comincia a diffondersi inquietudine. Sono diversi giorni che due di loro mancano all’appuntamento serale: il ridgeback rhodesiano di nome Teo e il levriero russo Boris, detto Il Bello. Si teme che la scomparsa sia dovuta a qualcosa di terribile; che siano finiti, non certo per loro scelta, nel giro dei combattimenti. Così che un cane del gruppo, anziano e d’esperienza, decide di andare a cercarli. Si chiama Nero e purtroppo quel mondo lo conosce molto bene, è un ex lottatore sopravvissuto a due anni di combattimenti organizzati in un capannone di periferia. Ne porta i segni sul corpo e nell’anima. Lui sa quanta esperienza, sangue freddo, volontà occorrano per salvarsi da un “inferno dove soltanto la violenza e la crudeltà ti davano modo di sopravvivere”. Nero, dunque, parte da solo alla ricerca dei due compagni e dovrà nuovamente farsi consapevole di quanta cattiveria e ferocia sia insita nella vita. Non inganni il taglio favolistico utilizzato dall’autore. Ribadiamo che si tratta di una favola assai cruda ed esplicita, a tratti sconcertante per asprezza e violenza. C’è comunque un eroe coraggioso e solitario, Nero, a cui “piacciono quelli che sono leali, e di questi tempi non lo siamo più neanche noi cani”. Eppure – Nero ne è convintissimo – è proprio la lealtà che fa la differenza tra il mondo canino e quello umano, rendendo più ‘umani’ coloro che procedono a quattro zampe nella vita. Lealtà vuol dire sincerità, dedizione per i propri simili, saper discernere il giusto dall’ingiusto, sostenere l’innocente e condannare il colpevole. Insomma, “i cani non ballano, ma sopravvivono con lealtà”.
 
***
 
Il mio padrone credeva che combattessi per lui, ma si sbagliava. Ho sempre combattuto per me. A causa della mia razza e del mio carattere, sono un lottatore nato: a quei tempi pesavo cinquanta chili, misuravo settantaquattro centimetri dalle zampe al garrese e avevo una bocca dai forti canini in cui sarebbe entrata la testa di un bambino. Sono nato meticcio, incrocio fra un mastino spagnolo e un fila brasileiro. Da cucciolo ho avuto uno di quei nomi teneri e ridicoli che mettono ai cagnolini appena nati, ma da allora è passato molto tempo. L’ho dimenticato. È da tanto che tutti mi chiamano Nero.
Agilulfo – un segugio magro, filosofo e colto che di queste cose ne capisce – assicura che sono nato per il combattimento; che sono un guerriero antico con una stirpe gladiatoria vecchia quanto la storia degli umani. A quanto pare, i miei antenati hanno sbudellato orsi e lupi in montagna e leoni nel Colosseo, hanno accompagnato le legioni romane e fatto a pezzi i barbari nelle foreste della Germania e sul limes del Danubio, sono andati a caccia di indios nei Caraibi e di schiavi neri fuggiaschi nelle selve amazzoniche. Un bel curriculum, dice Agilulfo. Forse per questo, aggiunge, noi cani della mia casta, fin da cuccioli, abbiamo gli occhi da vecchio, l’anima piena di rozze cuciture e lo sguardo rassegnato, fatto di secoli di sangue e fatalità. L’uomo ci ha resi assassini, o quasi. E lo sappiamo.
«Salve, Nero.»
«Salve, collega.»
«Un sorso di anice?»
«A quello non dico mai di no.»
«Serviti da te.»
È stato Agilulfo a parlarmi per primo della scomparsa di Teo e di Boris il Bello. Quella sera ero andato, come al solito, all’Abbeveratoio di Margot, accanto alla distilleria di anice che sversa nel fiume, ed ero lì a slinguazzare nel canale di scolo, pensando alle mie cose. Senza troppo successo.
Negli ultimi tempi, pensare mi costa molti sforzi. La mia testa non è più quella di prima. Le idee e i ricordi vanno e vengono, e le vecchie cicatrici che ho sul muso, sulle zampe e sul dorso sembrano diventare fresche. Sto invecchiando, suppongo. A noi cani succede in fretta.
«A cosa pensi, Nero?»
«Non saprei dirtelo.»
Agilulfo mi osservava attento, sempre più preoccupato. A volte – e mi succede con frequenza – rimango imbambolato, o assorto con qualcosa di fisso nella testa, mentre il corpo mi formicola con uno strano tremito. Qui non si tratta più dell’età, ma della memoria. Non a caso per due anni mi sono guadagnato da vivere con quelli che chiamano combattimenti di cani, sapete di cosa parlo: un cerchio – lo Scannatoio, in gergo cagnesco –, un mucchio di umani sudati e vociferanti che scommettono denaro e due lottatori dagli occhi febbrili che si affrontano a morsi. All’ultimo sangue. E cose del genere non accadono e poi si dimenticano facilmente.
«A volte sembri andato, Nero. Come se non fossi qui.»
«Forse non ci sono.»
Agilulfo si è strofinato il muso dopo un sorso nel canale di scolo. Ho già detto che è un cane colto. Il suo proprietario è un umano con una biblioteca grande e va molto al cinema.
«Essere o non essere» ha sentenziato grave, «come ha detto il bardo.»
«Che bardo?»
«Non ne ho idea. Il mio umano lo chiama così.»
«Ah.»
«Ha scritto teatro, a quanto pare.»
«Accidenti.»
Spesso torno in me, con i canini scoperti, mentre ringhio al vuoto dopo aver creduto di essere circondato da grida di umani, fumo di sigarette, spettri di cani che ho ammazzato o che ho lasciato invalidi: gli stessi che mi hanno inflitto sul corpo, e sospetto anche da qualche parte dentro, i segni che punteggiano il mio pelo scuro. Margot la Portegna, la bovara delle Fiandre che si occupa dell’Abbeveratoio – lo ripulisce dall’immondizia e dai pezzi di plastica, tiene lontani i gatti e le loro pisciate e i piccioni e le loro cacate – racconta che quando non ci sto con la zucca mi metto a combattere con l’aria, come se fossi impazzito.
«In quei casi, che» dice di solito, «la cosa migliore è togliersi di torno e aspettare che si calmi il casino… Il Nero incazzato è una brutta bestia, che. Ti fa a pezzi senza che gli si sposti un pelo.»
Agilulfo, che ha più esperienza e acume, sostiene che il mio caso ha a che fare con quegli umani che chiamano pugili.
«Lo sai» riassume. «Quelli che vanno in giro suonati a forza di ricevere cazzotti e di andare al tappeto.»
A me, di andare al tappeto è successo poche volte, e mai alla fine di un combattimento. Per questo posso raccontarlo, è chiaro. Quando un cane da combattimento va davvero al tappeto, lì finisce la sua carriera e spesso la sua vita. Se è ferito grave, gli danno il colpo di grazia senza riguardi; e se ce la fa ancora, finirà per servire come sparring per altri cani che iniziano, o legato in uno spiazzo, un garage o un sudicio capannone, come cane da guardia, a pezzi dentro e fuori. Pazzo di sete, solitudine e paura.
«Non sappiamo ancora niente di Teo» mi ha detto Agilulfo quella sera.
Ho bevuto un altro sorso dal canale e ho tenuto la testa e le orecchie basse, preoccupato. Teo era il mio migliore amico. O lo era stato fino a poco tempo prima. Un ridgeback rhodesiano serio e forte, di totale fiducia. Raramente mancava alle nostre riunioni da Margot.
«L’ho visto qui due settimane fa» ho detto ad Agilulfo. «E anche tu.»
«Certo. Quando te ne sei andato, è rimasto con Boris il Bello… Hanno slinguazzato anice fino a tardi e se ne sono andati chiacchierando delle loro cose. Li hanno visti insieme dalle parti del Varco del Topo.»
«Chi li ha visti?»
Agilulfo contemplava, stoico, una zecca che gli saliva lungo la zampa destra.
«Susa.»
«La sgualdrina?»
«Sì. A quanto racconta, erano rilassati, agitavano la coda.»
«È stata l’unica cosa che hanno agitato?»
«Così assicura lei. Il signorino e il tipo tosto, dice di aver pensato. Gli ha abbaiato un po’, loro l’hanno salutata e hanno proseguito.»
«Senza nemmeno annusarla?»
«È una vecchia conoscenza.»
Ho sorriso come sorridiamo noi cani, tirando un po’ fuori la lingua e sbuffando due o tre volte: arf, arf, arf. Susa era una meticcia di strada di quelle che non dicono mai di no. Di solito si appostava di fronte al Varco del Topo in cerca di compagnia, ed era raro che non la trovasse. A volte i cani giovani ci andavano in gruppo, e lei ne scozzonava diversi allo stesso tempo. Io stesso, in altri periodi, avevo avuto a che fare con lei, come ogni cane maschio dei dintorni, a eccezione di Rudi, alias Perlina la Dog Queen: un delicato cagnolino grigio perla che suonava un’altra musica.
«A partire da lì» ha continuato a raccontare Agilulfo, «non si sa più nulla di loro. Né dell’uno né dell’altro. A quanto pare, Boris non è mai arrivato a casa sua.»
«E Teo?»
«Nemmeno lui, sembra.»
«Che strano.»
«A chi lo dici… Lui è un animale abitudinario.»
Sono rimasto per un po’ in silenzio. Teo viveva con una vecchietta vedova, di pochi mezzi, a cui sorvegliava il giardinetto in cambio di cibo. Spesso si sdraiava all’ombra dei panni stesi.
«Non lo vedo da un sacco di tempo, come ti ho detto» ho concluso alla fine, appoggiando la testa fra le zampe. «E l’ultima volta ci siamo scambiati a stento una mezza dozzina di grugniti.»
Agilulfo ha dato un’altra leccata nel canale e si è asciugato il naso strofinandomelo sul fianco. Poi ha ruttato con effluvi all’anice prima di stendersi accanto a me. Con il fatto che era filosofo – «abbaia a te stesso» era il suo motto preferito – si permetteva spesso certe confidenze.
«E non si fa nemmeno vivo» ha commentato. «Siccome abito vicino a casa sua, mentre venivo qui ho dato un’occhiata. Il cibo e l’acqua sono sempre intatti, sulla porta… E quanto a Boris il Bello, i suoi padroni hanno messo degli avvisi di scomparsa qualche giorno fa. Non li hai visti i cartelli attaccati ai lampioni e agli alberi?»
Ho negato con la testa. Ero rimasto a lungo a dormicchiare sotto un ponte del fiume, con uno strano mormorio nelle tempie. Non era la mia settimana migliore. Quello che ignoravo era che stavano arrivando giornate peggiori.
 
[da I cani di strada non ballano di Arturo Perez-Reverte, trad. Bruno Arpaia, Rizzoli, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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