È uscito tradotto in italiano “La donna gelata” (L’Orma Editore) di Annie Ernaux. Un romanzo del 1981 (“La Femme gelée”) riconducibile alla trilogia d’inizio della scrittrice francese, che, pure nelle opere successive, si contraddistinguerà per una forte impronta autobiografica. Anche se, proprio dopo la pubblicazione di “La Femme gelée”, l’autrice pretese dall’editore Gallimard di togliere dalle copertine dei libri che la riguardavano qualsiasi riferimento a specifici generi letterari. Rimostranza in parte condivisibile per come le sue storie (che, è vero, sono la sua storia) riflettano comunque spaccati di società e di esistenze (soprattutto femminili) in cui può ritrovarsi chiunque. Del resto lei ha sempre sostenuto di essere “ethnologue de soi-même” e ad una “etnologa di sé stessa” viene facile tramutare l’io in noi. Le pagine di Annie Ernaux paiono, infatti, sociologia fattasi letteratura. Così è anche per “La donna gelata”, dove si racconta di una coppia con due figli, che, nonostante professi nobili ideali di eguaglianza e progresso, di fatto va a riprodurre l’asimmetria tipica di una coppia dove lei, e solo lei, deve sobbarcarsi tutto il peso della quotidianità. Ecco, allora, come la pagina della Ernaux si faccia, eccome, sociologia (sociologia del matrimonio), istanza politica, invettiva sulla parità di genere. “La donna gelata” è giustappunto il racconto di un faticoso, sofferto processo di consapevolezza ed emancipazione femminile. Sorprendente, fin dagli esordi, è la scrittura dell’autrice francese che, rifuggendo da qualsiasi orpello o pungolo emotivo, arriva dritta a fare sponda nei sentimenti di chi legge.
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Donne fragili e vaporose, fate dalle mani dolci, aliti leggiadri della casa che in silenzio fanno nascere l’ordine e la bellezza, donne senza voce, sottomesse: nel paesaggio della mia infanzia, per quanto mi sforzi, non riesco a vederne molte di donne così. E non ne trovo nemmeno del modello inferiore, meno raffinato, tutto stracci e olio di gomito, quelle che strofinano il lavello finché ci si può specchiare, capaci di preparare pranzi e cene con gli avanzi, e quelle che arrivano all’uscita di scuola un quarto d’ora prima della campanella, dopo aver già sbrigato tutte le faccende domestiche, perfettamente organizzate sempre e comunque, fino alla morte. Le donne della mia vita parlavano tutte a voce alta, avevano corpi trascurati, troppo grassi o troppo scialbi, dita ruvide, volti senza un filo di belletto o altrimenti truccati in modo esagerato, vistoso, con grandi chiazze rosse sulle guance e sulle labbra. Le loro competenze culinarie non si spingevano oltre il coniglio in umido e un colloso budino di riso, non sospettavano nemmeno che la polvere andasse tolta tutti i giorni, avevano lavorato o lavoravano nei campi, in fabbrica, nei negozietti aperti da mattina a sera. C’erano le vecchie, che andavamo a trovare la domenica pomeriggio, con i loro savoiardi e la fiaschetta di acquavite per correggere il caffè, il goccetto.Donne in nero, avvizzite, dalle gonne che sanno di burro dimenticato a irrancidire in dispensa, nulla a che vedere con le dolci nonnine del libro di lettura, i capelli candidi raccolti in una crocchia sulla nuca, che coccolavano i nipotini e raccontavano fiabe, quelle che si chiamano ave o antenate. Le mie, le prozie, mia nonna, non erano accomodanti, non amavano che gli si saltasse in braccio, non ci erano più abituate, un bacetto di saluto all’inizio e alla fine della visita era più che sufficiente, e dopo l’immancabile «quanto ti sei fatta grande» e «vedi di non andarmi male a scuola» non avevano più molto da dirmi, parlavano in patois con i miei genitori di quanto tutto costava tanto, dell’affitto e della superficie catastale, dei vicini, e ogni tanto mi guardavano e ridevano. A trovare la zia Caroline, quella delle domeniche d’estate, ci andiamo in bicicletta lungo sentieri accidentati che due gocce di pioggia trasformano in pantani, in capo al mondo, un paio di fattorie circondate dai campi, nel mezzo di una piana sperduta. Bussiamo alla porta senza troppa convinzione, zia Caroline non è mai in casa, bisognerà andare a cercarla dai vicini. La trovavamo a riempire sacchi di cipolle o a dare una mano mentre partoriva una mucca. Rincasava, armeggiava attorno alla cucina, spezzava legnetti per il fuoco, poi ci preparava uno spuntino leggero, uova bazzotte, pane e burro, liquore di angelica. La guardavamo con ammirazione, «quante energie, Caroline, hai l’argento vivo addosso! Se c’hai il culo che canta il medico muore!». Lei ridacchiava, protestava, «e che vuoi, a riposarsi e morire c’è sempre tempo». Ogni tanto un po’ di paura, così isolata, senza nessuno… Lei si sorprendeva, strizzava gli occhi, «ma che vuoi che mi facciano, alla mia età…». Io li ascoltavo appena, passavo dal retro della casa, senza finestre, circondato di ortiche più alte di me, e andavo vicino allo stagno a recuperare i piatti rotti, i barattoli di latta che buttava là, arrugginiti, pieni d’acqua e di insetti. A fine pomeriggio ci scortava per un pezzo camminando accanto alle nostre biciclette, per più di un chilometro quando il tempo era bello. Poi la vedevamo farsi sempre più piccola tra la colza. Sapevo che quella donna di ottant’anni, con i suoi corsetti e le sue sottogonne anche con il sole cocente, non aveva bisogno di pietà né di protezione. Non più della zia Elise, grassa e gelatinosa, viva, un po’ sudiciona, a casa sua uscivo da sotto il letto con fili di fiocchi di polvere appiccicati al vestito, mi giravo e rigiravo tra le dita un cucchiaino tutto incrostato prima di trovare il coraggio di affondarlo nella pelle rugosa della mia pera cotta. Lei mi fissava senza capire, «cos’è che c’hai che non mangi?», e poi la sua risata poderosa, «hai paura che ti tappa il buco del culo?». E non ne aveva bisogno nemmeno mia nonna, che abitava in una baracca tra i binari della ferrovia e la fabbrica di legname, nel quartiere della Gaieté. Noi arrivavamo e lei continuava a rammendare, a raccogliere le verdure da dare ai conigli, a fare il bucato, e mia madre si innervosiva, «non riesci a star ferma manco all’età tua». Mia nonna inorridiva a quelle osservazioni. Erano passati solo pochi anni da quando, aggrappandosi alle erbacce, si inerpicava sul terrapieno della ferrovia per vendere mele e sidro ai soldati americani dello sbarco. Poi, borbottando qualcosa, portava in tavola il pentolino del caffè, sempre bollente e coperto da un velo sottile di schiuma. Lo bevevano e lei versava il goccetto sui fondi zuccherosi. Parlano, roteano le tazzine per far spandere l’acquavite, c’è un vicino che ha fatto qualcosa, un proprietario che non vuole fare le riparazioni, io un po’ mi annoio, non c’è quasi nulla da mangiare e niente da esplorare, in questa casa minuscola e senza terreno intorno. Mia nonna succhia con avidità il fondo della sua tazzina, io le guardo il volto dagli zigomi forti, sulla sua pelle e sull’uovo di legno che usa per rammendare le calze c’è la stessa luce gialla. A volte, quando crede di essere da sola nel minuscolo pezzo di giardino dietro la baracca, le capita di fare pipì in piedi, a gambe aperte, sotto la lunga gonna nera. Eppure era arrivata prima nel suo distretto, all’esame delle elementari, e sarebbe potuta diventare maestra di scuola se la bisnonna non avesse detto mai e poi mai, è la maggiore, mi serve a casa per fare il suo nel tirar su gli altri cinque. Storia sentita mille volte, la spiegazione di un destino andato così. Correva come me, senza sospettare nulla, andava a scuola, d’un tratto la sventura si abbatte su di lei, cinque bambini che la tirano indietro, fine della storia. Ciò che proprio non capivo era perché a sua volta ne avesse fatti sei, e senza l’ombra di un sussidio signora mia. Non bisognava essere una cima per capire da subito che i figli, le creature, come dicevano tutti, erano la vera scalogna, la catastrofe assoluta. Al tempo stesso atto irresponsabile, mancanza di gnegnero, e anche una roba da poveri. Le famiglie numerose che vedevo intorno a me erano composte da schiere di ragazzini smoccolanti, carrozzine spinte da donne affannate, sbilanciate da buste della spesa colme di provviste, e infiniti piagnistei alla fine di ogni mese. La nonna si era fatta incastrare ma non gliene si poteva fare una colpa, un tempo era normale, sei, dieci figli, da allora ci si era evoluti. E le mie zie, i miei zii erano tutti talmente stufi di quelle famiglie numerose che non ho un cugino che non sia figlio unico. Come me, d’altronde, figlia unica, e per di più ravveduta, come si diceva di quella particolare specie di bambini frutto del ripensamento di genitori che non ne volevano, o non ne volevano altri. Prima e ultima, questo era certo. Ero convinta di essere stata molto fortunata.
[da La donna gelata di Annie Ernaux, trad. di Lorenzo Flabbi, L’Orma, 2021]
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