La domanda di Covacich: di chi è questo cuore

Luigi Oliveto

02/05/2019

Il racconto ha inizio nell’ambulatorio di un centro di medicina sportiva, dove il protagonista sta sottoponendosi a una ecocardiografia. La diagnosi non è del tutto rassicurante. C’è una leggera disfunzione al cuore, ragione per cui è bene abbandonare ogni pretesa agonistica, la corsa, il nuoto, che per l’uomo sdraiato sul lettino costituiscono molto più di una passione: lui, infatti, pratica sport e il culto dell’eterna giovinezza con applicazione maniacale. D’ora in poi, invece, gli sarà concesso solo un misurato jogging per le strade di Roma. Da qui muove il romanzo di Mauro Covacich intitolato “Di chi è questo cuore”. Sorta di autofiction (il protagonista ha il nome e le sembianze dell’autore) che intreccia storia personale, cronaca, sguardi sulla città e sulle molte solitudini che la abitano. La corsettina mattutina diventa per Mauro l’attraversamento di un’umanità varia, desolante, ripiegata su sé stessa e sui propri indecifrabili destini. Come indecifrabile appare il rapporto con Susanna, la sua compagna. Una relazione fatta di distanze, sospetti, incontri, separazioni, fantasmi notturni. Eh sì, quella corsettina del mattino ne sfiora di cose, disperazioni, e soprattutto egoismi. Del resto, la vita cos’altro è se non una corsa “dall’egocentrismo infantile all’egoismo adulto, uno slittamento fatto di spostamenti impercettibili, dalla dissipazione di sé, in fondo generosa dell’egocentrico, verso la sempre più ossessiva conservazione di sé dell’egoista. […] Devo imparare a volermi bene è diventato il mantra dell’individuo, di qualsiasi individuo, esclusi i disperati e i moribondi”. Viene facile, dunque, chiedersi se il cuore malato del protagonista non sia pure quello del nostro presente. E’ la domanda che, senza retorica – anzi, con crudo realismo – pone Covacich: di chi è questo cuore?
 
***
 
Dopo cinque minuti di corsa lenta, incrocio gli zingari napoletani. Alle undici del mattino vengono a riempire le taniche alla fontana e poi si fermano qui per qualche ora, sul piazzale che di venerdì è occupato dal mercato. Ma oggi non è venerdì e non verranno disturbati almeno fino alle lezioni di scuola guida del pomeriggio. Formano una colonia di tre camper che cambia posto anche più volte nel corso della giornata, nessuno di loro però, che io sappia, si allontana dal Villaggio. Sembrano condannati a uno strano tipo di turismo, un turismo stanziale in una zona non particolarmente significativa della città. Non li ho mai visti chiedere l’elemosina, né in centro né al supermercato, come fanno le donne del clan rivale. Nessuno di loro gira con i trolley da spesa e il ferro uncinato per recuperare robe vecchie dai bidoni della raccolta differenziata, né i loro bambini rubacchiano nella metro, risultando già da piccoli troppo minacciosi anche solo a incrociarne lo sguardo, per cui si limitano a spaventare la gente del quartiere, in bicicletta, o meglio ancora in monopattino. Susanna sostiene che una sera, passandogli accanto mentre tornavamo a casa, li ha sentiti pronunciare la nostra via.
“Potrei giurarci,” mi ha detto. “Quelli sanno dove abita chiunque. Sono un po’ i guardiani del Villaggio.”
Forse potrei chiedere a loro chi era il tizio grasso della notte scorsa, ma preferisco ignorarli, meglio non perdere il ritmo. La moglie del capo mi osserva incastrata nella sua sedia sdraio, mentre i due figli più grandi stanno appollaiati sulla soglia del camper. Sento i loro occhi puntati, ’o solito strunz ca nun tene che ffa’. È un pensiero che posso capire. Peraltro, da quando la gente ha scoperto la pista ciclabile del lungotevere vengono in parecchi a correre da queste parti, alcuni spingendosi fino a Villa Glori, sicché do meno nell’occhio.
Prima di attraversare il ponte e scendere sull’argine, concludo la ricognizione. L’ingresso del supermercato è piantonato dalla consueta moltitudine: la guardia giurata, i volontari di Save the Children, i due ragazzi indiani che portano i carrelli al parcheggio, la questuante rom di turno al mattino. Poco più in là, un senzatetto si offre di pulire i fanali delle macchine con stracci che sembrano gatti, mentre gli altri suoi compari si scaldano al sole già muniti di tetrapak, alcuni seduti sulla panchina più vicina al parco giochi, comunque fuori dallo steccato colorato, il bastione che separa, non solo loro ma qualsiasi passante, dall’industriosa comunità di mamme nonnine e mocciosi alle prese con una mattinata primaverile. Mi scambio un cenno di saluto con Arcimboldo, la cui faccia composta di frutta lo costringerebbe al mondo delle favole e invece esiste davvero e sorseggia con metodo dal cartone, in attesa della catatonia che lo cullerà per il resto del giorno. Ora sta osservando – con mente ancora lucida, temo – il parossismo agli scivoli, tutto quel bianco negli occhi furiosi dei bambini, tutto quel concentrato nonnesco di premura e apprensione contrapposto all’isteria delle figlie, appesantite dagli strascichi del parto o semplicemente bulimiche, e alla noia e in fondo all’istinto di fuga delle altre giovani donne sedute accanto ai passeggini, un istinto sacrosanto, l’unico vero tesoro tenuto nascosto negli sguardi sempre bassi sui telefoni.
Risalendo verso ponte Milvio incrocio altri due che corrono, sessantenni smilzi e anchilosati che discutono di obbligazioni a un passo poco più rapido di una marcetta. Una donna invece è inchiodata sul marciapiede, lo sguardo nel vuoto, una mano che tiene il microfono degli auricolari vicino alla bocca. Colgo: “Quindi gli asportano solo il diverticolo?”
Negli spazi erbosi del viale, a tenere compagnia alle bottiglie, alle lattine, ai cartoni delle pizze dei tifosi diretti allo stadio, sono spuntate quelle margheritone gialle di cui ignoro il nome. Sotto l’arcata che porta all’Acqua Acetosa è in servizio l’anziana prostituta automunita che opera solo nelle ore diurne, in perfetta alternanza ai trans sudamericani, un paio dei quali, una volta, mi è capitato di veder mimare una rissa con le loro forti braccia e i parrucconi scompigliati, mentre si dirigevano al supermercato alle tre di notte – un’ora in cui, detto per inciso, non siamo gli unici a fare la spesa.
Cerco di godermi le acacie, gli olmi, gli eucalipti, anche solo riconoscendoli nell’universo alieno dei vegetali, cerco di tenere lo sguardo lontano dall’orologio, che segna la distanza, l’andatura, le calorie, la frequenza con cui insiste a battere il mio grosso cuore difettoso. Niente allarmismi, a quanto pare nessuno qui è in preda a una sincope, mi dico come per ritrovare un po’ di scioltezza, mentre percorro via degli Olimpionici e la prospettiva di via Olanda si spalanca alla sinistra del mio campo visivo e vedo l’erboristeria e poi la vecchia scritta COIFFEUR e poi, totale in campo lungo, il pratone con gli alberi di Giuda, le loro chiome fiorite, piccole mongolfiere fucsia ancorate al suolo. A segnare l’ideale confine del mio territorio, la striscia di guano sulla carreggiata in corrispondenza del platano che affaccia sull’incrocio di ponte Milvio, l’albero diventato casa dei pappagalli verde follia, scappati dallo zoo di Villa Borghese e riprodottisi a migliaia, forse milioni, in questo quartiere che sembra una provocazione avanguardista contro i parnassiani in golfino di cachemire e le loro signore a culo stretto, residenti nelle palazzine piene di banani e palme e portieri peruviani del limitrofo abitato dei Parioli.
Perdere i sensi. “Non ho detto che succederà, ho detto che potrebbe succedere. Sotto sforzo l’aritmia è una possibilità. Nel tuo caso, un’aritmia ventricolare. Googla pure ipertrofia cardiaca e sincope, vedrai da solo.” Ancora le parole di Alberto, per spaventarmi. Al momento utilizzo un rimedio tratto da un mio vecchio racconto. Un ragazzo – un ragazzo di Sarajevo che ora, chissà perché, penso con la faccia del liceale morto nell’albergo di Milano – si ostina ad attraversare la città sotto assedio pur di raggiungere i suoi amici al campo di pallacanestro. Né i mortai delle divisioni accampate sulle alture né i cecchini nelle case evacuate possono nulla contro la sua volontà, così la madre si rassegna a infilargli di nascosto un bigliettino nella tasca dei jeans con su scritto il nome e il cognome.
 
[da Di chi è questo cuore di Mauro Covacich, La nave di Teseo, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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