Disse Philip Roth che, in quanto romanziere, aveva dovuto sottoscrivere un patto in cui era previsto rivisitare in continuazione la memoria. Ha ottemperato a questo accordo anche Giulia Corsalini con il suo ultimo romanzo “La condizione della memoria” (Guanda). Pagine pervase dalla mestizia del ricordo, da quella memoria affettiva che scombina il tempo, ripristina cesure, squaderna infidi diari, fornisce nuovi argomenti alla comprensione del passato e di ciò che siamo oggi. A sperimentare un siffatto coacervo di tormento e di epifanie è Anna, la protagonista del romanzo, còlta in una fase particolare della sua vita, abbandonata dal marito, un figlio lontano che studia negli Stati Uniti. Una donna sola, salvo l’esistenza di sua madre che già incespica sulla soglia dell’evanescenza. Decide di far trascorrere alla madre alcuni giorni di vacanza nel paesino della Ciociaria dove l’anziana donna aveva vissuto parte della sua infanzia. Prende in affitto la casa un tempo appartenuta alla loro famiglia. All’epoca un bel palazzo con affaccio sul corso e di cui la mamma conserva un ricordo mitico. Sorge dirimpetto a quello ancora più pretenzioso di proprietà dei Russo, ora residenza di giovani migranti africani. Sarà proprio Luca Russo ad accogliere le due donne, a farsi loro tramite tra passato e presente, mentre Anna e la madre, ciascuna a proprio modo, si ritrovano a tu per tu con i fantasmi della memoria e con il disincanto di una realtà – quella odierna del paese – che nulla pare conoscere del passato e di chi lo ha vissuto, conservato, mitizzato dentro sé: “il momento incantato in cui il passato torna a vivere e la felicità di ritrovare un’immagine perduta che ci è stata familiare hanno purtroppo una fragile consistenza, basta poco e l’incantesimo si spezza: una strada è una strada, tanto più quando non ha nulla di attraente e non ci accoglie.” Nel corso di quella vacanza (giustappunto una vacatio, una sospensione di vita) poche cose sembrano succedere. L’autrice ha bene sorvegliato una trama che fosse soprattutto vicenda interiore. E molto, infatti, accade nel profondo di Anna, che cercava rifugio nel passato, ma che, in una sorta di bergsoniano tempo della coscienza che tutto svolge e riavvolge, non può prescindere dall’oggi e da quanto esso insinui già il futuro. È un romanzo intelligente, di pregevole dettato (può essere indicativo notare in esergo quali numi tutelari ne abbiano vegliato la scrittura: Brodskij, Nabokov, Sebald, Marker). Un memoir sincero e al contempo discreto. Dolore, confidenze, verità si raccontano con misurato contegno e notevole impronta letteraria.
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Così, per tutta l’estate e buona parte dell’autunno di quell’anno (con una coda che avrò modo di spiegare), prolungando quello che avrebbe dovuto essere un mese di vacanza, ho preso in affitto la casa che era stata della mia famiglia e di cui l’attrice romana, dopo averla acquistata, non aveva più voluto sapere (anche per ottenere quell’affitto avevo dovuto in realtà forzare un po’ le cose attraverso i nostri parenti che si erano a suo tempo occupati della vendita e con la nuova proprietaria avevamo stipulato, più che un contratto di locazione, un accordo di ospitalità) e ho abitato lì insieme a mia madre. La quale, in una tarda mattina di giugno, era dunque tornata a salire la grande scala di pietra logora che saliva da bambina e lo aveva fatto completamente frastornata più ancora che per la malattia che, senza che lo sapessimo, già le premeva sul cervello, per l’improvviso avvertimento del tempo vissuto lontano da quel luogo, i settant’anni di vita trascorsi altrove, separata dalla propria infanzia e da lì; un’intera esistenza che in quel momento doveva sembrarle smisurata e insieme breve come un soffio. E infatti, entrata nel soggiorno, s’era immediatamente seduta, carente di fiato e di forze, su una delle poltrone accostate alla porta finestra del balconcino – allora, per fare entrare l’aria e la luce e vincere l’odore di chiuso, che mia madre aborriva, avevo subito spalancato le persiane e, appoggiandomi alla balaustra, avevo salutato il ragazzo affacciato sull’omologo balcone, con parapetto in pietra, del palazzo dei Russo; che aveva, ora mi accorgevo, l’intonaco bianco della parete e avorio delle lesene e delle cornici in gesso molto macchiato e scrostato, e mostrava segni rilevanti di degrado e di abbandono. Quindi ero scesa a prendere le valigie che avevo fatto lasciare all’ingresso.
L’assetto della casa non era stato modificato: ai lati della scala in pietra, di cui mi pareva di ricordare persino il chiarore diffuso dalla mezzaluna del portone, nell’ingresso a botte, si aprivano le piccole porte delle due cantine; sul sottoscala, in una nicchia ad arco, era poggiato, forse come allora, un cassettone; sul pianerottolo, alla fine della prima rampa, una porta finestra apriva sulla zona più bassa di un orto: anche da lì, dagli sportelli non del tutto accostati, proveniva, come da una fonte senza tempo, la luce, s’intravedeva il verde di una vegetazione intricata e a ridosso; infine, arrivati in alto, sulla sinistra una porta conduceva alle camere, dove avevo appoggiato le due valigie senza avere il coraggio di guardare quale museo di estraneità avrebbe accolto le nostre notti. Nel grande salone a cui si accedeva sulla destra, mia madre stanca, seria, tesa, non si era ancora mossa dalla sua poltrona, né si guardava attorno.
«Il mobilio sembrerebbe quello delle zie» le avevo detto e lei, disattenta, aveva annuito – avrei voluto riportarla subito nella nostra città e nella sua casa ariosa, dove la morte, che pure s’era insinuata in ogni dove, veniva quotidianamente vinta da correnti d’aria e ondate di luce: per quale ragione avevo costretto quella donna anziana, scontrosa e inadatta alla nostalgia, a ritornare lì? E perché continuare a nascondersi che in quella sua nuova fragilità fisica ed emotiva – di cui negli ultimi tempi tutti ci eravamo accorti –, che metteva a repentaglio e dunque rendeva più indispettito e selvatico il suo bisogno di autonomia, lei aveva accolto la mia proposta solo perché, senza dovermelo chiedere, saremmo tornate a vivere insieme, almeno per quel periodo, e non avrebbe più dovuto dormire da sola, in compagnia di quello che a tutti gli effetti doveva essere il fantasma della morte? Entrambe c’eravamo ritrovate a guardare verso il fondo del salone in penombra, dove, oltre il profondo e basso architrave avorio di una porta aperta, s’intravedevano il frigorifero e una poltrona coperta da un drappo nell’ambiente giallo ocra della cucina rischiarata dalla luce della porticina a vetri che apriva sull’orto. «Andiamo a vedere» aveva detto mia madre, scuotendosi; «dovremo organizzarci per il pranzo.»
La stanza era ampia, rettangolare, e aveva sul fondo un grande camino; un ambiente vecchio in cui tutto era stato lasciato com’era: il lavandino a due vasche in marmo (in una si lavava, nell’altra si sciacquava, senza far scorrere acqua corrente per non consumarla), i fornelli sul piano di pietra, la madia; erano state aggiunte probabilmente solo le poltrone anni Settanta rivestite di velluto a coste marrone, sicuramente scarto del mobilio aggiornato della casa in città dell’attrice. Avevo aperto le due piccole finestre e la porta che conduceva nell’orto; di lì mi ero affacciata e mia madre mi si era messa a fianco e avevamo verificato, lei con lo sguardo freddo e la postura rigida e cadente del corpo affaticato, che ancora la montagna incombeva sulla casa con la sua selva respingente di piante di fichi d’India e rovi e fasce terrazzate di terreno e roccia – lungo quel pendio, un giorno, lei, bambina, s’era arrampicata per sfuggire al padre che voleva sculacciarla e la inseguiva minaccioso, fino a che, ormai senza scampo e senza fiato, si era voltata ad abbracciarlo, tanto da farlo commuovere (perché non era affatto felice la situazione di quelle sue due figlie orfane di madre). Storico episodio, forse neanche vero, con il quale mia madre, senza ammetterlo, credo senza esserne neanche consapevole, riabilitava nei suoi giorni migliori, e innanzitutto a favore della memoria della propria vita, un uomo sicuramente disgraziato ma dall’umanità controversa: un uomo difficile da amare e difficile anche da odiare.
[…]
La luce illuminava a riquadri irregolari e fiochi la carta da parati dai motivi damascati verde oliva e avorio mentre mia madre e io riposavamo sulle poltrone del salone nella penombra, in attesa che calasse il pomeriggio e ci venissero le forze per affrontare le camere (c’erano, sapevamo, lenzuola pulite nel comò e coperte quante ne volevamo; erano, potevamo immaginarlo, madide di umidità; avvolgersi in quella biancheria sarebbe stato e fu il momento più difficile), e anche per sfidare l’esterno, la strada, il paese, la spesa. Desideravamo il riposo perché tutto il resto sarebbe stato estraneo e inadeguato e probabilmente sciatto e muto per me; per lei, immaginavo, fastidioso.
E invece, quando finalmente eravamo uscite (lei si era cambiata d’abito e indossava una camicia verde a fiori che un po’ la ringiovaniva, e aveva qualche forza in più), avevamo deciso di scendere proprio verso l’origine, la fonte, il cuore di quell’antico fantasma del passato che ognuna di noi nelle prime ore del nostro arrivo aveva cercato di rifuggire: c’eravamo fatte strada nella densa calura della via, dove le case mostravano ognuna a suo modo e tutte similmente i segni dell’abbandono, sporgendosi vuote e sole nel prospetto deserto in cui una volta a quell’ora iniziava lo struscio, e dove per un tempo secolare avevano vagato, da dietro le persiane socchiuse, sguardi pieni di curiosità e pettegolezzi a non finire.
Nessuno, neanche i ragazzi della casa dei Russo, in quel momento era in giro.
Avevamo passeggiato lentamente fino al cimitero; ma di lì, invece di entrare attraverso l’ampio cancello spalancato, dove attendevano una sua visita da decenni i nostri famigliari, mia madre aveva voluto prendere una stradina laterale che passava ai margini del muraglione del camposanto e poi il sentiero un po’ scosceso, che, come ricordava, conduceva al mulino del nonno; appoggiandosi al mio braccio, insisteva nel voler scendere, sebbene instabile, rinvigorita d’un tratto, così come capitava a lei, per forza di determinazione, mentre io la esortavo a tornare indietro. Ci eravamo a poco a poco addentrate in una selva di piante incolte e piuttosto intricate, resa percorribile dal sentiero che diventava di terra battuta, in un ambiente sempre più umido e scuro; giù verso il torrente e il mulino. Lei, dopo tanti anni, aveva ritrovato quel posto senza difficoltà: un rudere coperto poeticamente e selvaggiamente di edera e di altra vegetazione rampicante e alberi abbarbicati sulla vecchia struttura di pietra e mattoni, un luogo che un tempo doveva essere intronato dal flusso tumultuoso dell’acqua e ora riposava su un ruscelletto appena gorgogliante. C’eravamo sedute su uno scalino, appoggiandoci alla grata di legno che copriva un accesso – lì, sapevo, perché tante volte mia madre me lo aveva raccontato, la mia bisnonna aveva sorpreso il proprietario del mulino, suo marito, abbracciato con un’altra, li aveva visti senza che quelli si accorgessero di lei e aveva girato sui tacchi senza mai riferirglielo; storie vere eppure stereotipiche, il mugnaio che bacia la bella contadina, delle quali ormai per me contavano solo il largo volto sorridente della mia giovane madre, che un tempo le ricordava, e la consapevolezza che lei, che era stata fino a poco prima gratuita e ripetitiva come nessun altro nel narrare pochi episodi che potevano divertire, ora non aveva quasi più voglia di raccontare nulla.
[da La condizione della memoria di Giulia Corsalini, Guanda, 2024]
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