Quanto sta accadendo in Russia con il quasi-golpe dei miliziani della Wagner, l’indebolimento della leadership di Putin, le sue incerte (disperate?) strategie, aggiungono nuovi timori e incognite sugli sviluppi della guerra russo-ucraina. Un conflitto iniziato, di fatto, nel febbraio 2014 con l’annessione della Crimea alla Russia, e divenuto esplicitamente guerra dal febbraio 2022. Uno scontro che ha già provocato numeri impressionanti di vittime, orfani, profughi, distruzioni, emergenze umanitarie, problemi economici. E dietro i numeri ci sono storie individuali e collettive che la guerra – come quando sventra case con missili e armi pesanti – mette a nudo riaprendo ferite, scompaginando memorie, scalzando radici. Può accadere così che le vicende dei singoli, delle famiglie, delle piccole comunità raccontino anche la storia di un Paese. Questo avviene nel romanzo “La Casa del Gallo” di Victoria Belim, pubblicato da La nave di Teseo con la traduzione di Tiziana Lo Porto. Vi si narra di Victoria che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica (1991), aveva lasciato l’Ucraina insieme ai genitori (padre russo, madre ucraina) per trasferirsi negli Stati Uniti, a Chicago. All’epoca era una quindicenne. Negli anni a seguire i suoi ritorni in patria si erano limitati a rare visite ai parenti. Una famiglia di variegate etnie (“alcuni dei nostri parenti parlavano azero, armeno, yiddish, polacco e bielorusso”) tanto che Victoria era cresciuta senza il bisogno di “definirsi” dal punto di vista etnico. Qualcosa si risveglia in lei allorché, nel 2014, la Russia annette la Crimea. Avverte il bisogno di rivedere i propri cari e soprattutto nonna Valentina verso la quale nutre un particolare affetto. Ulteriore motivo di un ritorno in patria lo trova a seguito di una accesa discussione, via Skype, intrapresa con lo zio Vladimir, fratello del padre, sostenitore di Putin e nostalgico dell’Unione Sovietica. Dopo la burrascosa telefonata con la nipote, Vladimir sparisce nel nulla. Victoria, dunque, raggiunge Kiev e poi l’est del paese dove vive la nonna, donna intelligente, di forte personalità, che coltiva patate e cura tenacemente il frutteto, metafora di amore alla propria terra. Una volta in patria, Victoria scopre in un vecchio diario l’esistenza di uno zio Nikodim, scomparso al tempo di Stalin “combattendo per un’Ucraina libera” e di cui in famiglia nessuno aveva mai parlato. Chiede notizie alla nonna che glissa dicendo di lasciar perdere il passato. Ma lei vuole sapere, e così intraprende due ricerche: quella dello zio Vladimir e dello zio Nikodim. Per avere informazioni su quest’ultimo occorre rintracciare testimoni dell’epoca, burocrati, carte da cui va rimossa la polvere della storia. Perciò conoscerà anche la temutissima Casa del Gallo, sede del KGB, che tutt’oggi incute paura agli abitanti del posto. Victoria Belim (il cui cognome è Frolova, ma firma il romanzo con quello della nonna Valentina) attraverso le vicende della sua famiglia racconta la storia di un popolo. E in questa sovrapposizione di sentimenti e riscoperta delle radici, sviluppa una intensa dichiarazione d’amore e di speranza verso il proprio paese d’origine.
***
[…]
Alla fine, non ho avuto scelta in merito, perché l’Ucraina è tornata da me. Il tempo si resetta da solo, riavvolgendo gli anni trascorsi in Belgio e in America come se non fossero mai accaduti. L’Ucraina che non ho mai rivendicato mi ha presa e ha riempito i miei pensieri e i miei vuoti con i suoi ricordi. I punti di riferimento familiari della mia infanzia – il nostro vecchio appartamento a Kiev, i castagni di Khreshchatyk e la casa color pesca dei miei bisnonni a Bereh – mi sono apparsi più lucidi degli edifici fuori dalla mia finestra a Bruxelles. Questi ricordi luminosi che balenavano contro la notizia della carneficina in Ucraina erano strazianti, ma io li cercavo, evocando i minimi dettagli, come quando si preme un livido che pulsa per vedere quanto dolore si può sopportare. La sparatoria di Maidan ha dissipato la mia illusione che l’Ucraina fosse lontana. Poi la decisione di Putin di usare la forza militare in Ucraina, sancita dal parlamento russo il 1° marzo 2014, ha mandato in frantumi le mie idee sbagliate sulla guerra. La guerra stava arrivando.
Come la maggior parte dei bambini sovietici, sono cresciuta con i ricordi dei miei nonni della seconda guerra mondiale. “Se solo non ci fosse la guerra,” era un mantra che ripetevano. Ogni altra catastrofe poteva essere superata, dicevano, ma sopravvivere alla guerra era peggio della morte.
La guerra sovietico-afghana mi aveva dato il primo indizio di ciò che intendevano i miei nonni. Per quanto lontane fossero le battaglie, i veterani che tornavano dalle montagne dell’Afghanistan portavano con sé la guerra. A volte li vedevamo accigliati, senza arti, suonare la fisarmonica per strada o parlare ad alta voce sull’autobus, pronunciare frasi confuse che mi spaventavano. I più terrificanti, tuttavia, erano persone come Danil, l’amico di mio padre. Era stato arruolato nel 1984 e congedato un anno dopo. Alto, dai capelli scuri e straordinariamente bello, si sedeva al nostro tavolo da pranzo con sua moglie Masha e scherzava, affrettandosi verso le battute finali delle sue barzellette e ridendo così forte che non si accorgeva del nostro silenzio. Poi si interrompeva a metà frase e si aggrappava al bordo del tavolo, con le nocche delle dita che diventavano bianche. Le mani e gli occhi di Masha non riuscivano a trovare un posto dove riposare. Mia madre lanciava un’occhiata a mio padre, che fissava implorante Danil. Dopo pochi secondi che duravano un’eternità, Danil si ricomponeva il viso e rideva, scoprendo i denti, ma sua moglie continuava a rispondere farfugliando qualcosa di sconclusionato e mia madre mi diceva di andare a giocare fuori. Non usavamo parole come depressione, ansia o disturbo da stress post-traumatico. Dicevamo solo una parola, guerra, e spiegava tutto.
Un giorno Danil e Masha ci hanno invitati a cena da loro. Quando siamo arrivati, siamo stati bloccati da una grande folla e da un’ambulanza. “Un uomo così bello,” ha detto qualcuno accanto a noi.
“Gli ex soldati hanno sempre pistole.”
“Molti di loro tornano turbati.”
“No, ha usato il fucile da caccia.”
“Lo ha fatto nella vasca da bagno.”
“La guerra...”
Mio padre ha spinto da parte la gente e si è affrettato verso la casa. Mia madre mi ha coperto le orecchie e ha premuto il mio viso contro la sua gonna. Le mani le tremavano con una tale violenza che l’anellino di perle che portava al dito mi tirava dolorosamente i capelli. Mi sono liberata dalla presa. Due medici trasportavano una barella coperta da un lenzuolo bianco. Il braccio di una bambola di pezza ondeggiava al ritmo dei loro passi. Masha se ne stava rigida sull’uscio di casa, ma quando ha visto mio padre si è accasciata a terra e ha ululato. Mia madre mi ha afferrato la mano ed è corsa fuori dal cortile, trascinandomi dietro di sé. Lo straziante grido animale di Masha ci ha seguite per il resto del nostro viaggio verso casa.
Avrò avuto appena sette anni quando Danil si è suicidato, ma nel 2014, leggendo della guerra in Ucraina, tremavo ancora al ricordo. L’ululato di Masha viveva in me, e più la guerra diventava reale, più lo sentivo in gola. La guerra è diventata reale ancor prima che venissero sparati i colpi, ma presto è accaduto anche quello e la gente è morta. Dopo che la Russia ha annesso la Crimea, diverse città dell’Ucraina orientale hanno dichiarato l’indipendenza dal governo di Kiev e hanno cercato il sostegno russo. Nuove repubbliche sono apparse dall’oggi al domani, così come nuovi campi di battaglia. Le prime pagine dei giornali erano piene di nomi di città in cui la gente aveva preso d’assalto gli edifici governativi e si era picchiata a vicenda: Kharkiv, Donetsk, Odessa, Mariupol.
Vedendo i punti di riferimento della mia geografia personale sprofondare nel tumulto, ho perso il senso del tempo. Mia madre è nata a Kharkiv, la metropoli più orientale dell’Ucraina, dove mia nonna Valentina studiava geografia. Mio padre una volta aveva portato un pezzo di carbone grezzo da Donetsk, dove aveva lavorato brevemente dopo un infruttuoso periodo di estrazione dell’oro in Siberia. Diceva che era un meteorite; mia madre diceva che era solo un sasso, ma la forma ruvida e luccicante mi affascinava comunque. A Odessa, ho perso il mio orsacchiotto preferito correndo giù per la famosa scalinata Potëmkin ed ero inconsolabile fino a quando più tardi, sulla spiaggia, mio padre mi ha mostrato come i paguri cambiano il loro guscio. A Mariupol, una città famosa per i suoi frutti, io e mia madre abbiamo comprato una sottile piantina di ciliegio per il giardino della mia bisnonna Asya. Gli eventi attuali in Ucraina hanno stemperato tutte le mie emozioni a parte la paura e il panico. Il luogo dove sono nata, dove sono cresciuta, e dove mia nonna ha vissuto, ha sofferto e ho sofferto anch’io. Ogni nuovo attacco di violenza che sconvolgeva l’Ucraina mi risuonava dentro, liberando una marea di immagini e ricordi.
[da La Casa del Gallo di Victoria Belim, trad. di Tiziana Lo Porto, La nave di Teseo, 2023]
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