Una monca ortografia veicola ormai messaggi d’ogni sorta. Tutto quel barbugliare attinge a un depauperato vocabolario e a un altrettanto immiserito pensiero. Non sappiamo più scrivere. Anche nel senso stretto del termine: tracciare parole su carta con un gesto in cui mente e corpo facciano tutt’uno. Ne sanno qualcosa in Giappone, dove la calligrafia è tradizionalmente arte, e assai di più. Perché – suggerisce il pensiero zen – scrivere è unione di mente ed anima, tanto che il pennello non deve mai staccarsi dalla carta. Proprio questa affascinante arte – inscindibile da una concezione di vita, da una postura dell’animo – è raccontata da Ito Ogawa nel romanzo “La cartoleria Tsubaki”, edito da Neri Pozza con la traduzione di Gianluca Coci. Racconta della venticinquenne Hatoko, ultima discendente di una famiglia di illustri calligrafe che svolgevano il mestiere di scrivane pubbliche. A insegnarle quell’arte è stata la nonna. Lei l’ha cresciuta, le ha dato il nome che porta e che significa la “bambina dei colombi”, in riferimento ai colombi del santuario Tsurugaoka Hachimangū di Kamakura.
Era molto piccola quando la nonna iniziò la sua educazione di scrivana: ad un anno e mezzo già recitava a memoria l’Iroha, l’antica poesia composta da tutte le sillabe dell’alfabeto hiragana; a tre anni sapeva scriverla in hiragana e a quattro e mezzo in katakana. A sei anni strinse per la prima volta in mano il pennello da calligrafia: “È un ricordo indelebile: il 6 giugno dell’anno del mio sesto compleanno, in una data considerata fausta per i progressi nell’apprendimento delle arti tradizionali, ho impugnato il pennello destinato esclusivamente a me e ho tracciato i miei primi caratteri. Le setole del pennello erano fatte con i miei capelli di neonata”. E poi tanti esercizi sotto la severa sorveglianza della nonna. Ha ereditato da lei anche una piccola cartoleria a Kamakura, città a una cinquantina di chilometri da Tokyo. Vende articoli di cancelleria, ma gli abitanti del quartiere sanno che possono rivolgersi a lei anche come scrivana. Certo, dice la protagonista, “a differenza di un tempo, oggi il nostro mestiere consiste – nella migliore delle ipotesi – nel tracciare in bella grafia un nome sulla busta per un dono in denaro, un’epigrafe in memoria di un defunto o il nome di un nuovo nato, ma assai più spesso si limita all’insegna di un negozio, al motto di un’azienda o a una semplice dedica”.
Un lavoro che talvolta può coinvolgere in situazioni bizzarre, come quando le capita di comporre un messaggio di condoglianze per la morte di una scimmia o comunicare la fine di un amore. Importante – come le ha insegnato la nonna – è la discrezione e, al contempo, la capacità di cogliere gli stati d’animo altrui, sapergli dare forma. Così da rendere felici, sollevati, i portatori di quei sentimenti. La routine della giovane scrivana avrà un sussulto il giorno in cui si presenta in cartoleria un giovane sconosciuto. Parla faticosamente il giapponese e reca con sé un sacchetto pieno di lettere con indirizzo italiano, stilato con l’inconfondibile grafia della nonna di Hatoko. Lettere che le riveleranno cose a lei sconosciute sul suo passato e sulla cartoleria Tsubaki. È un romanzo che fa pensare a quanta vita sia racchiusa nelle parole. Perciò ne va curata la bellezza, la scelta, il suono, la declinazione. La forma, che mai dovrebbe disgiungersi dalla sostanza.
***
La cartoleria Tsubaki è aperta dalle nove e mezzo del mattino fino al calar del sole. Verso il tramonto, quando mi apprestavo a chiudere, ho sentito il campanello suonare debolmente. Sono corsa in negozio e mi sono imbattuta in una donna che dimostrava a occhio e croce tra i sessantacinque e i settant’anni, ben vestita e dall’aria gentile. A giudicare dall’aspetto, sembrava appartenere alla borghesia locale, ma non ricordavo di averla mai vista prima di allora.
Esile e minuta, indossava un vestito blu a pois bianchi, con le maniche a sbuffo, e teneva in mano un ombrellino dello stesso colore e fantasia. Aveva anche uno splendido cappello di paglia decorato con un grande fiore di stoffa, e guanti di pizzo bianco. Faceva venire in mente una bottiglia di Calpis.
«Il povero Gonnosuke della famiglia Sunada è morto... L’ho saputo stamattina» mi ha detto dopo che ci siamo scambiate un rapido saluto.
Un lutto. Era un potenziale lavoro per uno scrivano pubblico. Quella donna non sembrava venuta per acquistare articoli di cancelleria. Quando si tratta di questioni del genere, ho un ottimo istinto, né più né meno come la nonna.
La cartoleria Tsubaki è un negozietto di articoli di cancelleria, e il servizio speciale di scrivano pubblico non è mai stato pubblicizzato in via ufficiale. Eppure, grazie al passaparola, spesso la gente del quartiere e vecchi clienti si sono rivolti a noi chiedendo di redigere lettere, messaggi, cartoline d’auguri e quant’altro, tutto rigorosamente scritto a mano.
«Sunada... Gonnosuke?» ho bisbigliato con un filo di voce. Né il nome proprio né quello di famiglia mi dicevano niente.
«Non lo conosceva?» ha replicato Madame Calpis. «Eppure da queste parti era abbastanza noto».
«No, mi dispiace».
Non so perché, ma avevo la netta sensazione che quella conversazione potesse trascinarsi per le lunghe. Ho atteso il momento opportuno e ho fatto cenno alla donna di prendere posto su uno sgabello. Lei è avanzata con passo leggermente claudicante e si è seduta con molta grazia. Dopodiché sono andata a prendere un bicchiere di mugicha freddo, che tenevo sempre in frigorifero, e gliel’ho servito su un vassoio.
«Sapevo già da un po’ che soffriva di una grave malattia al cuore» ha continuato Madame Calpis. «Il caldo torrido di questi ultimi giorni deve avergli dato il colpo di grazia, poverino. La veglia funebre si terrà domani, e la cremazione dopodomani».
«Ah, sì...» ho risposto dispiaciuta, abbassando lo sguardo. Non riuscivo ad afferrare bene la situazione, non mi era giunta voce di alcun decesso nel quartiere.
«Ormai ho una certa età e, come avrà notato, le gambe non mi sorreggono più come una volta... Avrei preferito andarci di persona, ma è impossibile, e allora mi piacerebbe fare almeno un’offerta accompagnata da una lettera di condoglianze».
A ben vedere, Madame Calpis portava una fasciatura alla caviglia sinistra. Ecco perché camminava con passo malfermo.
«Certo, sono a sua disposizione» ho detto convinta, in tono professionale.
«Potrebbe occuparsi lei della lettera? Mi scusi, ma avrei una certa urgenza».
«Va bene» ho risposto laconica, gli occhi rivolti alle mani inguantate della mia interlocutrice.
La nonna mi ha insegnato che bisogna evitare di fissare i clienti che chiedono la redazione di una lettera. Diceva che ciascuno ha le sue buone ragioni per fare richiesta di un servizio del genere. E così, quando ascolto le parole di un cliente, sto attenta a dirigere lo sguardo verso le sue mani. Le braccia di Madame Calpis erano abbronzate, oltre che sorprendentemente toniche e muscolose.
«Povera signora Sunada, sarà distrutta...» ha mormorato sottovoce.
Stava piangendo o sudando? Impossibile indovinarlo. Ha preso un fazzoletto dalla borsa e si è asciugata le guance con delicatezza. Anche il fazzoletto era a pois, come il vestito e l’ombrello.
«Le andrebbe di dirmi qualcosa su Gonnosuke? Un ricordo, un pensiero...» le ho chiesto con molto garbo.
Lei ha sollevato il bicchiere di mugicha con tutt’e due le mani e lo ha vuotato in un sorso. Erano già le sei passate, ma il termometro segnava ancora quasi trenta gradi. Per scrivere una lettera di condoglianze avevo bisogno di informazioni sul defunto.
«Gonnosuke era molto vivace e intelligente» ha esordito Madame Calpis in tono fiero. «Come forse sa, i Sunada non potevano avere figli, e per questo avevano deciso di prenderlo con loro. I parenti erano contrari, ma i Sunada sono andati avanti lo stesso».
«Quindi lo avevano adottato ufficialmente? O era solo in affidamento?»
Un legame insperato che si era spezzato all’improvviso: i signori Sunada dovevano aver provato un dolore straziante.
«Sì, forse...» ha risposto molto evasivamente Madame Calpis. Poi ha preso il cellulare e ha digitato qualcosa. «Ecco» ha aggiunto illuminandosi in viso e mostrandomi lo schermo, «questo è Gonnosuke».
La fotografia era un po’ sfocata. Sulle prime non sono riuscita a distinguere bene l’immagine, ma di certo non si trattava di un essere umano.
«È una... scimmia?» ho chiesto con molta esitazione.
Madame Calpis si è limitata a un cenno affermativo del capo e ha messo via il cellulare.
«Aveva perso il padrone, e la signora Sunada l’ha trovato tutto solo e impaurito in un rifugio per animali abbandonati» ha detto, mentre tirava fuori dalla borsa una busta per le offerte funerarie e la metteva sul bancone. Sulla busta era attaccato un post-it con il suo nome. «Mi perdoni se insisto» ha aggiunto, due solchi profondi tra le sopracciglia, «ma la prego di fare il più in fretta possibile».
«D’accordo, non si preoccupi».
«Mi prepari una ricevuta, per favore. Salderò nei prossimi giorni».
Appoggiandosi all’ombrello, che usava a mo’ di bastone, Madame Calpis si è tirata su ed è andata via. Forse era solo una mia impressione, ma aveva un passo molto più leggero rispetto a quando era arrivata.
Ho chiuso la cartoleria e mi sono messa subito all’opera. Le lettere di condoglianze sono soggette a numerose regole e convenzioni, perciò prima di tutto ho dato una scorsa all’apposito vademecum che mi ha lasciato la nonna. Poi ho fatto un respiro profondo e ho cominciato a preparare l’inchiostro.
Nel caso delle condoglianze, la regola vuole che il bastoncino d’inchiostro venga sciolto all’inverso, ossia con un movimento da destra verso sinistra. A dire il vero, mi trovavo un po’ a disagio, visto che sono abituata a farlo in senso orario. Prestando attenzione a non strofinare con troppa forza, ho lasciato colare l’inchiostro a poco a poco nella parte concava della pietra. L’inchiostro, in base a un’altra norma in materia di occasioni funebri, deve essere più diluito del solito.
Riguardo al contenuto e allo stile del messaggio, bisogna fare in modo da non ricorrere a termini ed espressioni quali: «ancora una volta», «di nuovo», «spesso», «di continuo» e così via, considerati in questo caso di cattivo augurio in quanto evocherebbero il ripetersi di eventi luttuosi. Inoltre, per lo stesso motivo di natura scaramantica, non si usa mai aggiungere un post scriptum. E si possono tranquillamente evitare appellativi oltremodo onorifici e formule di cortesia.
Ho impugnato il pennello e l’ho sollevato con estrema calma. In un istante, ho accolto in me tutta la tristezza del mondo, come se le mie ghiandole lacrimali fossero delle calamite.
Quell’immensa tristezza includeva anche il mio dolore per la morte di zia Sushiko e per quella del mio adorato pesciolino rosso negli anni dell’infanzia.
La notizia della scomparsa improvvisa di Gonnosuke mi ha lasciata sgomenta, non ho potuto fare altro che alzare gli occhi al cielo.
Provo una tristezza indicibile.
Ero al corrente del fatto che fosse malato, ma non avrei mai immaginato che potesse lasciarci così presto.
Non mi sembra vero, stento a crederci.
Mi ricordo di lui, il suo sguardo radioso e gentile, e la serenità con cui sempre mi accoglieva.
Prego affinché la sua anima possa riposare in pace.
So che il vostro dolore è straziante e inimmaginabile, ma, vi prego, siate forti.
Avrei voluto esprimervi di persona tutta la mia vicinanza, ma le mie precarie condizioni di salute me lo impediscono, e perciò vi chiedo di accettare questa mia umile offerta.
Vi sarei molto grata se poteste porla accanto alla sua bara.
Vogliate accettare le mie più sincere condoglianze.
Ho scritto questa lettera con un inchiostro molto più pallido e sbiadito del solito. Diluire l’inchiostro è segno di profonda tristezza, e le lacrime che cadono sulla pietra contribuiscono a renderlo ancora più sfumato.
Mentre scrivevo, l’immagine di Madame Calpis mi è affiorata più volte alla mente. Per un breve istante, mi è sembrato addirittura di sentire la sua mano sovrapporsi alla mia e di stringere il pennello insieme a lei.
Dopo aver finito di stilare la lettera, ho piegato il foglio al contrario, di modo che il lato scritto fosse visibile. In genere, nel caso di una corrispondenza formale, si utilizza una busta foderata, ma per i messaggi di condoglianze si preferisce una busta semplice, così da alleggerire simbolicamente il dolore. Inutile dire che deve essere di un bianco immacolato, al pari della carta da lettere, per lo stesso motivo in base al quale ci si astiene dal partecipare a un funerale con trucco e accessori troppo appariscenti.
Una volta che l’inchiostro sbiadito con cui ho scritto l’indirizzo e il nome del destinatario al centro della busta si è asciugato, ho infilato dentro con cura il messaggio di condoglianze e appoggiato il tutto in un posto speciale e ben protetto sull’altarino buddhista, accanto alle fotografie della nonna e di zia Sushiko. In questo modo avrebbe evitato di sporcarsi, conservando la sua purezza. Naturalmente ho lasciato la busta aperta, perché la regola vuole che la lettera sia sigillata in via definitiva il giorno seguente, anche nel caso di un contenuto molto semplice e convenzionale. Ciò permette di rileggerla per un’ultima volta a mente fresca, dopo una notte di sonno ristoratore.
«I demoni si nascondono spesso nelle missive notturne» ripeteva di tanto in tanto la nonna. Ecco forse perché evitava il più possibile di dedicarsi ai lavori di calligrafia dopo il tramonto.
Quando ho finito, le lancette dell’orologio indicavano quasi le nove. Fuori era buio e le cicale tacevano, dopo l’intera giornata trascorsa a cantare. Regnava una calma assoluta. Il silenzio era tale che sembrava di essere in mezzo alle montagne. Ma faceva ancora un gran caldo, non si respirava. ...
[da La cartoleria Tsubaki di Ito Ogawa, trad. di Gianluca Coci, Neri Pozza, 2023]
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