La carezza, storia di un amore perfetto

Luigi Oliveto

19/11/2020

Chi legge gli scritti di Elena Loewenthal avverte sempre un’autorevolezza di pensiero, di sentimenti, di rappresentazione della vita che lascia ammirati. Conferma questo suo carisma anche l’ultimo romanzo, “La carezza” (La nave di Teseo). Storia di un amore perfetto, come recita il sottotitolo, dove una donna e un uomo sperimentano in corpo e anima quanto assoluta possa essere l’appartenenza dell’uno all’altra (che è assai di più del possesso). I protagonisti sono Lea, una ricercatrice universitaria di paleografia, e Pietro, docente di filologia. Lei ha tre figli e un marito distratto; lui una moglie. Si incontrano in Calabria, in occasione di un convegno sul Codex purpureus rossanensis, splendido manoscritto bizantino che contiene parte dei Vangeli. Una reciproca attrazione dilaga presto in desiderio e, quindi, in una notte trascorsa insieme. Travolgente esperienza erotica, ma pervasa subito da un sentimento di reciprocità che potrebbe assomigliare molto all’amore: “E la forza e la gentilezza e quella distanza incommensurabile che sta fra chi entra e chi accoglie, chi possiede e chi è posseduto, e che solo la smisurata generosità del darsi insieme riesce a colmare e che ogni volta colmava.” Poi Pietro e Lea si perdono di vista per anni. Gli unici contatti sono epistolari, a volte cercano tracce dell’altro negli scritti e negli interventi scientifici, nelle tesi di laurea degli studenti. Le circostanze fanno sì che non riescano mai ad incontrarsi. Finché, dopo vent’anni e diverse occasioni mancate, l’incontro avviene e nulla sembra avere interrotto il loro legame. Non c’è stata cesura, interruzione, lacuna. È accaduto – dice l’autrice – come quando uno scriba trova due righe mancanti sul testo che sta copiando, ma trascrive di seguito, unendo la riga sopra a quella sotto: “Se il testo lacunoso sembra non aver perso nulla nella mancanza, nella dimenticanza di quella frase racchiusa fra una parola e l’altra – la stessa parola – il loro amore fa lo stesso.” Tale, dunque, è l’amore: un libro da rendere perfetto congiungendo parole mancanti, spazi vuoti, distanze, interruzioni di senso. E poi ri-trovarsi, continuamente, anche quando la vicinanza fisica possa far credere di non essersi mai perduti.
 
***
 
Le aveva lasciato un livido sul seno. Il seno sinistro, alla sinistra del capezzolo, in cui un poco si confondeva. Un pallido reticolo appena sottopelle, di un colore indefinibile che non era né verde né blu, forse vagamente giallo. Lei aveva sperato che non andasse più via, come fanno certi ricordi che magari cambiano colore, che diventano sogni e speranze e magari anche l’ansia di un arrivederci sospeso nel tempo, ma che restano lì e non spariscono mai più del tutto.
E invece era via via sbiadito, il livido.
Possibile che due corpi che si incontrano, si stanno addosso, vanno l’uno dentro l’altro, si incollano l’uno all’altro, sudano e gridano insieme e singhiozzano anche un po’ alla fine, possibile che il sesso lasci così poche tracce addosso? Passa davvero tutto così, come la polvere cosmica che per un pugno di giorni, in estate, diventa pioggia di stelle cadenti e poi sparisce nel buio del niente?
No? Macché. Sì.
Come i ricordi, il livido è sbiadito, scomparso sotto il tessuto della pelle e delle ghiandole, precipitato dentro la carne viva del corpo. È diventato il sogno di un ricordo, la malinconia di una speranza sempre più improbabile.
Tornerai? Forse. Chissà.
Sì. Macché. No.
“Ce l’ha una crema, una lozione, qualcosa per fissare i lividi?” aveva chiesto in farmacia.
“Nel senso di riassorbire, dice?”
“No, il contrario. Che resti lì dov’è.”
La farmacista aveva sgranato gli occhi per un attimo, piegando leggermente il capo verso destra, come fanno i cagnolini quando provano ad ascoltare un rumore nuovo per loro. “Fissare? No, mi dispiace, non abbiamo niente per quello. Ma...” e si era interrotta prima di porre la domanda.
Ma perché?
Così era uscita dalla farmacia con una scatola di Oki orosolubile. Non che ne avesse bisogno, anzi: spargeva per tutte le borse che usava quelle minuscole bustine rettangolari monodose, in caso di necessità. Non lo usava mai, perché in quel periodo stava benissimo: non un acciacco, non un dolorino, non un accenno di stanchezza. Niente mal di testa, la digestione perfetta. Ma come si fa a stare così bene, si domandava ogni tanto, ultimamente. A questa età, poi. Quando dovrebbero cominciare almeno i piccoli fastidi, le noie fisiche. E invece, niente.
Fissare i ricordi. Non rinunciare a nulla di quello che era stato.
Che peccato, sarebbe stato, perdere qualcosa, un solo istante. No.
Se il livido prima o poi sarebbe andato via, sparito sotto la pelle, dentro il tessuto morbido del seno, oltre la cassa toracica, in fondo ai polmoni e al cuore, il resto no. Non doveva andare via. Mai più.
Tutto, tenere. Ogni gemito – brevi quelli di lui, escono dal profondo della gola quasi con fatica, solo di labbra quelli di lei. La sua mano grande che le copre tutto il viso mentre lui entra dentro di lei. La sua figura in cima alle scale, che aspetta di veder salire anche lei: non chiama, È un’ombra. Guarda e aspetta, con quella miscela di ironia e nobiltà che è tutto, in lui. E lo schiaffo sul fianco. E i pizzicotti. I morsi. E la mano sul collo, che stringe un poco, ma neanche troppo poco, forse per estrarre un guaito, forse per salire su insieme lungo la scala dell’io sono te e tu sei me e io sono fuori da me ma dentro di te. E la carezza sull’angolo che l’osso del bacino le fa, quando è distesa con una certa inclinazione, apposta per quella carezza che non finisce più, leggera e monotona.
Ma no, non era quella, la carezza.
E i baci che diventano subito qualche cosa d’altro, strade umide lunghe lunghe. E la forza e la gentilezza e quella distanza incommensurabile che sta fra chi entra e chi accoglie, chi possiede e chi è posseduto, e che solo la smisurata generosità del darsi insieme riesce a colmare e che ogni volta colmava.
Ogni volta.
Sono fuori da me.
Sono dentro di te.
Darsi, così. Come non mai. Né prima né dopo.
 
[da La carezza di Elena Loewenthal, La nave di Teseo, 2020]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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