Con i giorni freddi di gennaio giunge, come ogni anno, il Giorno della Memoria. Che sempre più si accompagna a un senso di scoramento, non solo perché ricorda in quale abisso sia stata capace di precipitare la storia, ma anche per un fondato timore che quella memoria possa svanire nell’indifferenza di un mondo che malamente sa vivere il presente, immagina un futuro a discapito di pensiero e umanesimo, sta perdendo la cognizione del passato e di come il peggio possa sempre e ovunque riproporsi. Hanno scarsa audience quanti ci rammentano come il male sia banale, l’odio un sentimento facilissimo, la dimenticanza il primo segno della sciagura. A proposito della Shoah, Primo Levi ammoniva: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto”. Mai dimenticare, dunque. All’editoria va riconosciuto l’impegno a far sì che il racconto della Shoah – per quanto difficile sia ‘decorarlo’ di parole’ – trovi continue pagine. Tra i libri pubblicati recentemente abbiamo il romanzo “La bestia di Auschwitz” (Piemme) della giornalista e scrittrice spagnola Reyes Monforte. Opera – avverte l’autrice – “basata su fatti reali accaduti in circostanze reali e vissuti da persone reali”. Protagonista è la giovane Ella, deportata nel campo di concentramento di Auschwitz, comandato da Maria Mandel, personaggio realmente esistito, nota per la sua spietatezza e non a caso soprannominata “la Bestia” (nel primo processo di Auschwitz, tenutosi a Cracovia nel novembre 1947, sarebbe stata condannata a morte per impiccagione). Appassionata di musica classica aveva organizzato ad Auschwitz un’orchestra formata da sole donne prigioniere. Oltre che per allietare le SS, dovevano suonare in occasione dei nuovi arrivi al campo, quando gli internati venivano inviati alle camere a gas, durante le selezioni che separavano i sani dai malati, mentre si svolgevano le esecuzioni dei prigionieri. Proprio in ragione di questa crudele attività, Ella potrà considerarsi una ‘privilegiata’, poiché la Mandel, che nota la grafia nitida ed elegante della ragazza, dispone il suo trasferimento al Blocco Kanada per svolgere il lavoro di copista degli spartiti musicali (schreiberin) destinati all’orchestra del campo. Da una tale posizione di minore controllo, ma rischiando comunque la vita, Ella decide di darsi una missione: salvare dall’oblio oggetti e ricordi rinvenuti nel bagaglio dei prigionieri. E così salvare una memoria di persone, di esistenze, di affetti. Conservare i segni di una storia che, per quanto assurda e terribile, è accaduta veramente.
***
Tra le dita di Ella volteggiava una cartolina. Venticinque parole, contando il destinatario e l’indirizzo. Non permettevano di scriverne di più. «Dite loro che state bene. Non fornite informazioni sul campo. E intestate la vostra cartolina a Waldsee.» Erano questi gli ordini delle SS, le stesse istruzioni che le blokove e i kapò – a capo delle singole baracche e dei commando, le squadre di lavoro del campo, anche loro prigionieri ma investiti di una certa autorità dalle SS per supervisionare gli altri – ripetevano agli internati sotto la loro sorveglianza che erano stati selezionati per scrivere ai propri famigliari.
Cosa si può dire in venticinque parole? Da dove cominciare quando, dopo aver eseguito i perentori ordini dei militari in divisa, ne restavano a malapena dieci? Quella sensazione non era nuova, aveva già affrontato un dilemma simile.
La prima volta che aveva dovuto scrivere una cartolina senza conoscere il destinatario era stata all’interno del vagone del treno che la trasferiva dal campo di internamento di Drancy, a soli quindici chilometri da Parigi, al campo di Auschwitz-Birkenau, nella Polonia occupata dalla Germania nazista. La giovane accanto a lei a malapena si reggeva in piedi, e cercava di sedersi su un monticello di paglia collocato in un angolo del vagone, che aveva fatto le veci di latrina per i deportati nel corso dei quattro giorni di tragitto. La Gestapo l’aveva arrestata nella città di Brest mentre, come tutte le mattine, stava andando a comprare il giornale per il padre. L’avevano accusata di appartenere alla resistenza francese. Era stato inutile tentare di spiegare ai suoi inquisitori che non distribuiva il quotidiano della resistenza nella sua città e non partecipava neppure alla trasmissione di comunicati segreti come staffetta, che non aveva mai collaborato alla liberazione di aviatori inglesi che si presentavano sulla costa francese, che non li aiutava a disfarsi dell’uniforme né forniva loro abiti civili per la fuga, né tantomeno sapeva nulla di alcun sottomarino alleato diretto in Inghilterra.
Durante l’interrogatorio l’avevano brutalmente torturata. Le avevano spaccato le mani a martellate, dopo averle infilato degli aghi sotto le unghie. I suoi sequestratori sapevano che prendeva lezioni di pianoforte tre volte alla settimana e avevano sfruttato quell’informazione. Lo stato delle sue dita le impediva di scrivere la cartolina che teneva nascosta tra i vestiti e che aveva intenzione di gettare attraverso una delle fessure del vagone prima di superare la frontiera francese, sperando che qualcuno la trovasse e accettasse di correre il rischio di inviarla all’indirizzo indicato.
«Scrivila tu al posto mio», chiese a Ella.
In seguito, scoprì che la giovane si chiamava Odette, che proprio quel giorno compiva sedici anni e che, prima della guerra, sognava di diventare una pianista di fama mondiale. Ma in quel momento non fece domande: si limitò a trascrivere ciò che le dettava quella ragazza sulla quale il destino si era accanito prematuramente. Per la prima volta, la propria grafia le risultò estranea, adulterata, come se non le appartenesse.
Alla mia cara famiglia. Vi voglio molto bene. Grazie per esservi presi cura di me e avermi amata tanto.
Molto probabilmente, questa sarà l’ultima lettera che riceverete da parte mia. Non so se vi rivedrò.
Per favore, non dimenticatemi.
Non la rivide, né all’interno del campo, né nel bosco, nelle latrine, durante le ispezioni, nei processi di disinfezione, all’esterno delle baracche, vicino ai reticolati, nelle fabbriche, neppure in ospedale; in nessun posto. Quando lei stessa gettò la cartolina dal treno, il volto di Odette finalmente si rilassò, come se si fosse liberata di un pesante carico e la sua coscienza riposasse tranquilla.
Quel giorno e per la prima volta, Ella pensò a quali parole avrebbe scelto se avesse dovuto inviare quell’ultima lettera a uno dei suoi cari. Per un attimo, si sentì rincuorata di non dover fare congetture a riguardo, perché i suoi genitori viaggiavano nel vagone attiguo, e il suo promesso sposo, Joska, insieme a lei. Non c’era nessuno della famiglia a cui inviare una lettera, dato che a sua sorella Mia non intendeva scrivere nulla perché l’avrebbe messa in pericolo, nonostante la Svizzera,
dove era riuscita a fuggire grazie all’aiuto di alcuni amici di famiglia, sembrasse un luogo sicuro. Per di più, suo padre le aveva già detto tutto ciò che doveva sapere prima che li conducessero tutti, tranne lei, al campo di Drancy. «Tu devi salvarti, Mia. Vattene. Scompari. Non lasciare che ti trovino. Menti se devi farlo per sopravvivere, non importa in che modo. Rinnega tutto e tutti.» Quest’ultimo consiglio lo aveva esteso all’intera famiglia.
Ma in quel momento, ad Auschwitz-Birkenau, era diverso. Non aveva niente a che fare con Odette né con la sua cartolina. Era lei il mittente, erano le sue venticinque parole.
Sapeva che tutto nella vita, il bene e il male, iniziava con una parola. Una semplice lettera poteva dare più informazioni del suo mero tratto.
Quando aveva visto la lettera B della parola ARBEIT posizionata sottosopra nell’insegna saldata in ferro che sovrastava l’entrata del campo – ARBEIT MACHT FREI –, aveva compreso che la sua vita sarebbe cambiata radicalmente, che qualcuno stava per metterla sottosopra e che avrebbe potuto fare poco per evitarlo. Successivamente, un gruppo di prigioniere le aveva confidato che quella lettera forgiata alla rovescia non era frutto di un errore, ma un segno di ribellione dei primi prigionieri polacchi giunti al campo nel settembre del 1939, che erano stati obbligati a impiombare quell’insegna contro la propria volontà. Ma avevano lasciato la loro impronta e un giorno il mondo lo avrebbe capito.
Da qualche settimana, Ella stava facendo lo stesso, benché nessuno lo sapesse. Doveva assicurarsi che rimanesse un segreto, se voleva sopravvivere.
Quel ruvido cartoncino dai toni grigi che le bruciava tra le mani avrebbe finito per ucciderla se fosse rimasto immacolato come venti minuti prima, quando le era stato consegnato dalla temibile e onnipotente SS-Lagerführerin Maria Mandel, la capa del campo. «Scrivi una lettera alla tua famiglia. Mi occuperò io di inviarla.» La donna più potente, crudele e sanguinaria della macchina nazista le aveva dato un ordine e, se voleva sopravvivere ad Auschwitz-Birkenau, doveva obbedirle, benché neanche quello rappresentasse una solida garanzia.
Aveva paura della propria grafia, delle proprie venticinque parole, specialmente di quelle che avrebbero composto l’indirizzo e il destinatario. Quello era un regalo avvelenato, come tutto ciò che proveniva dalle SS, e possedeva un triplice fine nascosto: conoscere il domicilio di altri ebrei che ancora non erano stati arrestati né deportati nei campi di concentramento e sterminio istituiti dal Terzo Reich; tradire coloro che risiedevano nei ghetti, che si tranquillizzavano vedendo che i loro famigliari e amici potevano scrivere loro una cartolina, nella quale leggevano che stavano lavorando in Germania ed erano in buone condizioni di salute; e sollecitare l’invio al campo di pacchi di viveri, denaro e qualsiasi altro prodotto di valore, che sarebbe finito direttamente nelle mani, se non nei portafogli, delle SS. Bugie con annullo, ecco cos’erano quelle cartoline.
Indirizzo e destinatario, si ripeteva Ella. Indirizzo e destinatario. Tornò a guardare il biglietto, ma si soffermò sulle sue mani. Ad Auschwitz, le domeniche erano destinate a guardarsi le mani perché i piedi erano ormai distrutti dalla mancanza di scarpe o dalla loro inadeguatezza.
[da La bestia di Auschwitz di Reyes Monforte, traduzione di Elisabetta Giamporcaro, Piemme, 2023]
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