Questi giorni tristi di dolore e sopportazione, di ansie e di riflessione, chiusi nelle nostre case siamo portati a cercare tra le cose del passato e rovistare tra gli scatoloni o dentro ai cassetti. Tutto quello che abbiamo sempre rimandato adesso finalmente possiamo farlo. Non ci difetta il tempo, la volontà semmai qualche volta. Ma se frughiamo poi spuntano cose interessanti che val la pena di condividere. Sarà per questo che in questi giorni di casalinghitudine forzata su uno dei principali Social impazza la sfida a pubblicare le foto di com’eravamo quando avevamo vent’anni. Un misto di nostalgia e orgoglio perché dal passato si possano trovare, anche solo per un momento, le energie per affrontare l’incerto futuro che ci attende.
E così anche io ho frugato, ho aperto e poi richiuso, ho tentato di riordinare anche se non posso dire di esserci riuscito. Qualcosa ho buttato, poco in verità. Ma qualcosa ho trovato. Come questo racconto finito in un cassetto, pubblicato oramai 25 anni fa sulla rivista “Donchisciotte” in due puntate e che ora mi va di condividere grazie all’iniziativa di Toscanalibri, cui hanno già partecipato in tanti tenendoci compagnia in queste giornate austere.
Si tratta dei racconti di vita della signora Rina Cartoni che, tra un esame e un altro, raccolsi dopo tanti incontri. In tarda mattinata veniva a trovarmi a casa, io interrompevo gli studi e iniziavo a registrarla. La lasciavo raccontare con quella bella parlata antica e al tempo tanto raffinata. Aveva un mondo da raccontarmi, un’intera epoca che alla fine degli anni ’90 già non esisteva più; luoghi e persone di cui si era persa la memoria. Dove c’era la macelleria Regoli, negli anni Venti era stato un Caffè importante e ben frequentato e tante erano le storie che vi si erano intrecciate. Con la chiusura di quel locale sarebbe anche sparita la ricetta del panforte che aveva reso Rapolano famosa in quegli anni. Era poi venuta l’epoca delle terme Antica Querciolaia, lo stabilimento che ancora oggi è meta di tanti visitatori. Divenne meta di famiglie aristocratiche che trasformarono la vita del paese e stravolsero anche la vita alla giovane Rina fino a portarla fuori dalla vita di paese in un mondo in cui nemmeno lei avrebbe immaginato di finire. E conobbe persino Sua Maestà che confidenzialmente la chiamava “la toscanina”. Ma poi il referendum del 1946 tra Repubblica e Monarchia cambiò tutto.
Quel racconto, per comodità, lo divido in due parti così come venne pubblicato nell’ottobre 1994 e aprile 1995, in quanto sono due tempi di una stessa vita molto diversi tra loro per paesaggi, protagonisti e storie raccontate. Se avrete pazienza di leggerle capirete il perché.
Le fotografie di questa prima parte dedicata a Rapolano Terme provengono dall'archivio di Guglielmo Lecchini
che ringrazio per la disponibilità. Buona lettura
PARTE I - La belle epoque e i panforti della “sora” Adele
Il Caffè Rossi, a Rapolano Terme, è stato per alcuni anni un centro importante della vita paesana. Affacciato nella piazza centrale, all’epoca piazza Dogali, era composto da una sala grande, una piccola dedicata al biliardo, un salottino e una cucina, aveva anche un secondo ingresso dell’altra parte dell’isolato. Sulla piazza, poi, alcuni tavoli erano circondati da piante verdi che davano un tocco di raffinatezza all’ambiente, rendendo così il locale il più elegante del paese. Nel periodo degli anni Venti del secolo scorso veniva frequentato dalle persone più in vista e altolocate, dagli impiegati del Comune, dall’ufficiale della Posta, dal Maresciallo dei Carabinieri, dal Magi, oltre, naturalmente, dai bagnanti “di classe” che in quell’epoca frequentavano le terme Antica Querciolaia ai Piani.
“Questo nuovo ed elegante Caffè è il principale ristoratore e il più gradito ritrovo del paese”, si legge in una guida di Rapolano dell’epoca. “I Signori concorrenti vi possono ritrovare
tout le confortable; giornali rossi, gialli e bigi come i gelati che dispensa; elegante sala da biliardo, e, quel che più monta, una batteria completa di vini vecchi e nuovi, forestieri e nazionali da far venire l’acquolina in bocca al più ostinato astemio: come sarebbe Olio di Venere, di Vaniglia, e Rhum, Crème di rosa rossa, di fior d’arancia e mille fiori: Elixir di Coca Boliviana e di China, Curacao d’Olanda rosa e bianco; Assenzio svizzero, Alchermes di Firenze, Cognac fino di Sciampagna, Wout russo, Estratti e Rosoli per tutti i gusti, sciroppi di frutti di tutti i colori, le magnese o il tamarindo e, a chi piacesse, anche il “Latte di vecchia”.
Naturalmente le consumazioni tipiche, soprattutto per i rapolanesi che lo frequentavano solo il sabato e la domenica dopo aver smesso gli abiti da lavoro, rimanevano il caffè preparato con la macchina espressa a carbone, la “Vittoria Arduino “ di Torino, e la mescita del vino, raro a bersi durante la settimana, semmai “colorato” con l’acqua. Ma il Caffè Rossi, appartenuto alla famiglia Rossi già dall’Ottocento, era famoso anche per la lavorazione del Panforte di Siena e di cavallucci e ricciarelli e torrone. Erano quelli i tempi della
sora Adele, la padrona, che possedeva una segretissima ricetta che ottenne persino una medaglia d’oro, proprio per la lavorazione del panforte. Il periodo più adatto era novembre-dicembre, ma i preparativi iniziano già al tempo dei meloni quando ne veniva acquistato un barroccio intero per fare i canditi. Quindi, i meloni venivano regalati alle massaie del paese affinché, una volta mangiati, riportassero le bucce che, bollite in una grande caldaia e messe in grandi orci insieme allo zucchero caramellato, divenissero canditi, in attesa della lavorazione vera e propria. Lo stesso avveniva anche per le noci, schiacciate nel retro bottega dai dipendenti del Caffe e dagli stessi clienti. Un’occasione per passare la serata in vegliatura e divertirsi a chiacchierare. Ma la lavorazione vera e propria si svolgeva con la preparazione di grossi teglioni con la pasta dei panforti e dei cavallucci, sapientemente dosati dalle mani esperte di
Brunetto Farnetani, del famoso “
Burasca” e di
Checco di Zaccheo, il capo, e che portavano a cuocere ai forni
Bartoni, giustamente in via del forno, e poi
Cesari. Il tutto avveniva nottetempo, poiché di giorno i forni erano occupati dalle donne per cuocere il pane. In questo modo si lavorava per notti e notti sino a produrre diversi quintali di cavallucci e panforte che sarebbero durati sino all’anno successivo.
Durante gli anni dell’Era Fascista, il figlio della sora Adele,
Gero Rossi, fu a Rapolano anche segretario politico del fascio, avendo stretto solida amicizia addirittura con l’onorevole Chiurco, potente gerarca delle nostre zone. Tuttavia, era un bravo ragazzo e chi non la pensava come lui trovava sempre un posto a casa sua dove nascondersi per evitare di essere picchiato o purgato. Una sera, addirittura, proprio dei fascisti spararono all’interno del locale perché nascondeva i “rossi”.
In ogni modo, fu un periodo molto florido e Rapolano visse intensamente la sua breve
belle epoque e molti forestieri venivano anche con le carrozze al Caffè Rossi. Infatti, alle Terme i bagnanti ci andavano o con il treno, e poi si facevano portare dal Pasqui o da Babino, gli unici a quel tempo ad avere i cavalli e a portare i bagnanti in paese dalle terme, oppure in carrozza, come il conte di Modanella, il conte Spannochi, che tutte le mattine puntuale veniva a prendere il caffè in paese. Lui, addirittura, che abitava per lungo tempo a Roma ma si fermava spesso e volentieri a Modanella, fu il primo a Rapolano ad avere la macchina e lo
chauffeur.
Naturalmente, a Rapolano a quell’epoca, c’erano anche altri locali, come “La Francesca” che durante il periodo delle fiere dava affettati, panini e formaggio, o il Caffè del Manzoni o il locale di Caterina del Minella, che c’aveva una trattoria con dei lunghi tavoli con la pietra di marmo e con delle panche e che, in occasione delle fiere, faceva la trippa e altri “mangiari poveri”. Infine, c’era il Guerrazzino, il locale di Gigino, e quello del famoso Baiocca, che lo gestiva per conto della sora Adele, la vera proprietaria, e poi ancora quello di Checcone. Ma il caffè più importante e raffinato rimaneva il Caffè Rossi.
Poi, intorno al 1940, l’attività della famiglia Rossi fu ceduta e dal quel momento sia il prestigio del locale che la produzione di panforte persero d’importanza anche perché, si dice, i nuovi gestori non ebbero mai la formula segreta che rese Rapolano famosa per il panforte.
In quegli anni vi era a lavorare una ragazzina,
Rina Cartoni, e tutte queste notizie possiamo ancora conoscerle proprio grazie a lei e alla sua vivace memoria. Rina era cresciuta a fare la cameriera in quel locale, e quando l’attività fu ceduta anche lei si trasferì e iniziò a fare la cameriera alle terme Antica Querciolaia che all’epoca appartenevano alla
famiglia Cencini. Vi rimase alcune stagioni e furono importanti per il futuro della sua vita. In quel periodo, infatti, le Terme erano frequentate da alcuni importanti aristocratici che si combinarono tutti per non essere soli: venne la
duchessa Massai, il
barone Ricasoli, il
conte Spalletti, e la
contessa Serristori. Le Terme avevano al primo piano i bagni per i fanghi e per i dolori, con l’Annetta e la Leontina addette a bollire l’argilla e poi metterla addosso ai malati. Il secondo piano, invece, era adibito a camere, diciotto per l’esattezza, per un totale di trenta posti letto. In tutto c’erano nove dipendenti, tre camerieri, quattro bagnini, una fangaia e una lavandaia.
«Erano tempi duri quelli e soprattutto la padrona era un aggeggio, un tipo grasso, una botticella insomma, ma faceva tutto lei. E lui, il Cencini, era un po’ succube della moglie, anche se era lui a fare le spese. La mattina, la sveglia era alle tre, e la padrona al posto del caffè ci passava l’orzo e così noi quando si portava in camera ai clienti il caffè, quello buono, visto che l’orzo non aiutava molto, se ne beveva un pochino di nascosto». Durante la stagione termale a Rapolano c’erano tanti bagnanti e la maggior parte venivano ospitati nelle case dei Piani. In due camere c’entravano anche dodici persone, che magari non si conoscevano nemmeno. Ma si sapevano arrangiare, a quell’epoca. Venivano con l’autobus dal Valdarno, addirittura coll’ocio, il pollo, i conigli vivi. Arrivavano la mattina alle nove, tutte le mattine, e quelli dei Piani li aspettavano per offrire loro una camera da affittare. Alle Terme, invece, le camere erano tutte frequentate dai signori che si prenotavano prima e arrivavano con la macchina e l’autista.
Racconta Rina: «Fu lì che conobbi la contessa Serristori, nel 1945. E, pur avendo lei la cameriera al seguito, voleva che fossi sempre io a pettinarla. Mi aveva preso in simpatia. E, una mattina, mi disse: “Mi si dovrebbe sposare la cameriera. Ci verrebbe lei, Rina, con me?”. Ma io, timida e impaurita, non seppi rispondere. Poi, finì la stagione e tutti quei nobili ripartirono, ma la signora contessa mi scrisse una lettera per l’ultimo dell’anno. Mi invitava qualche giorno a Roma, a palazzo Serristori. Me lo ricordo sempre come fosse ora perché stavo andando dai Piani, dove abitavo, al Fierone di fine anno a Rapolano e il postino, il famoso Leone, mi consegnò la lettera. Un po’ ci pensai ma poi decisi di partire, anche perché dovevo rimanere solo quindici giorni, il tempo che l’altra cameriera tornasse dal viaggio di nozze. Ma mi ricordo che piansi tanto lo stesso e anche la mia mamma. Infatti, i miei erano contrari a quell’avventura. E così, prima della partenza, piansi tutta la notte, senza farmi scorgere dai miei. In ogni modo avevo deciso di partire, anche solo per visitare Roma, e partii. Arrivata col treno fui ricevuta alla stazione dall’autista e dal cameriere che mi portarono al 35B di Corso Italia. Appena vidi solamente quell’ingresso di palazzo Serristori pensai: “Madonnina, ma che ci so’ venuta a fa’ io qui?”. Poi mi portarono dal maggiordomo il quale mi accompagnò dalle signore Contesse. C’era la contessina
Sofia Bossi Pucci Serristori, direttrice di corte, che avevo conosciuto alle terme Antica Querciolaia, sua mamma, la principessa Ortensia, principessa della Gandara e dama di palazzo (riceveva i reali quando venivano a Firenze) e poi la contessa Benedetta, figlia di Sofia e la piccola Sibilla, figlia di Benedetta. Io entro in questo bellissimo salone tutto arredato e trovo queste tre contesse. “Io, signore Contesse, so’ venuta ma in questa casa che ci fo’? Che volete, io non so’ fare niente”, dissi tutta emozionata. E lei, invece, mi rispose: “Ma no, che a Rapolano l’ho vista tanto correre”. E cosi rimasi e in pochi giorni mi attirai, in verità, la simpatia di tutti e la stessa contessa Sofia, che un giorno mi incontrò per le scale mi disse: “Rina, qualunque problema lei abbia lo riferisca a me, perché lei mi preme”. I miei compiti erano di cameriera personale della contessa, pensavo alla camera, preparavo i vestiti a seconda dell’occasione, se riceveva nobili, ambasciatori o altri signori. Ma non davo mai il cencio, per quello c’era il cameriere. In casa poi ci s’aveva anche la divisa: celeste la mattina e nera la sera, con certi polsini che si sembrava tutti dei generali. Fu così che rimasi il primo periodo a servizio della famiglia Serristori. Allo scadere dei quindici giorni, poi, tra me pensavo: “Certo, sarebbe bello rimanerci”. E così il quindicesimo giorno, fui fatta chiamare nel salone dalle signore Contesse. Perché, bisogna dirlo, quella gente là è precisa! Mi accompagnò il maggiordomo. E mi ricordo di aver esclamato: “Vai, ora ci siamo. È finita!” E andati nel salone. “Rina come si trova lei qui?” mi domandò la contessa Sofia. “Ma io bene, mi trovo”. “Allora senta, se noi si facesse per lei, lei farebbe per noi”. “Ma, se questo è, a me sta bene” risposi contenta. E fu così che rimasi con loro». [
CONTINUA]
Parte II:
Le signore contesse Serristori e quel pianto del Re sulle scale
Il
racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it
"Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus".