Dici sud e pensi emigrare. Un’equazione, uno stigma che ha segnato la vita di intere generazioni. Ne è scaturita anche una letteratura (una retorica) dai motivi ricorrenti: terra avara senza orizzonti di futuro, radici identitarie al contempo orgoglio e prigionia, eroiche resistenze a rimanere, partenze di sola andata, spaesamenti e umiliazioni, nostalgie pagate a prezzo del rimorso. Tra gli autori contemporanei che a questi temi ha dedicato la sua opera si distingue Carmine Abate, la cui biografia già costituisce titolo in materia. Nasce in Calabria da una famiglia arbëreschë (minoranza etno-linguistica albanese storicamente insediata nel sud d’Italia). Dopo la laurea in lettere all’Università di Bari, raggiunge il padre emigrato in Germania e insegna in una scuola per figli di emigranti. Successivamente torna in Italia, in Trentino, dove tutt’oggi vive, scrive e insegna. Racconta della sua terra d’origine anche nell’ultimo romanzo, “L’olivo bianco”, edito da Aboca. Siamo a Spillace, paese immaginario delle campagne calabresi, negli anni Settanta del secolo scorso. Tre ragazzi, freschi di maturità, trascorrono le notti estive a parlare dei loro progetti futuri (in verità non poi così esaltanti). Riccardo e Marco, sulla scia di una secolare rassegnazione, pensano di emigrare in Germania. Antonio appare il più restio a un distacco così netto, ma pure lui ha in programma una partenza per frequentare l’università. Peraltro a tenerlo legato al paese ci sono, al momento, due buone ragioni: il suo sentimento per Elena e un podere “di famiglia chiamato Olivo di Luca, dal nome di un parente misterioso, che solo nonna Sofia aveva conosciuto”. Un terreno così accidentato che giusto un paccio (un pazzo) come quel Luca era riuscito a rendere mirabilmente fertile con alberi da frutto e con tutte le varietà di olivi della Calabria, compresa una rara pianta che fa le olive bianche. È proprio qui che ogni anno, a Pasquetta, la famiglia di Antonio si riunisce; ed è in questo luogo che diviene ancora più pervasivo il mistero di Luca, della cui storia è unica detentrice nonna Sofia, la quale, probabilmente, sa verità che mai ha voluto dire. Lei ha sempre raccontato come Luca avesse in paese molti invidiosi, e che quando era scomparso nel nulla si erano uditi, nottetempo, degli spari. Dunque, morto ammazzato? O era stato lui il micidiante (l’omicida)? E davvero sarebbe partito per l’America? E, ancora, perché avrebbe lasciato la sua eredità a nonna Sofia? È una storia che Antonio vuole fare uscire dal mistero. Così, mentre aiuta il padre a liberare i rovi che, negli anni, hanno invaso l’oliveto, prova a districare anche quanto nasconde quella verità. Di metafora in metafora, anche l’olivo bianco sarà liberato dalle spine, e l’animo di Antonio dalle sue legittime inquietudini giovanili. Se non altro perverrà a una verità su sé stesso: su cosa, come e dove intenda spendere la propria vita.
***
L’uomo scende lungo il bosco di Crisma a passi veloci. Nei tratti più ripidi si afferra ai rami dei lecci o dei corbezzoli per non precipitare nel burrone sottostante. In una mano tiene una piantina di olivo che gli ha regalato un amico di Strongoli. Davanti a lui scodinzola Solerò, uno spinone che sembra un cespuglio in movimento, tanti sono i rametti, le foglie, i fili d’erba impigliati nel suo pelo rosso. L’uomo lo segue senza nessun timore di perdersi nel bosco, di lui si fida ciecamente. Porta a tracolla un fucile, che non gli serve per andare a caccia, ma per difendersi dai maiali selvatici o dai lupi e pure da chi gli vuole male. Ha quasi trent’anni e l’idea di andarsene da Spillace e sparire per sempre non gli è mai balenata. Non ancora.
Quando arriva in fondo alla scarpata, bagna le radici della piantina nel ruscello e beve assieme a Solerò avide sorsate d’acqua fresca. Poi attraversa il ponte di legno e raggiunge il suo podere, un terreno in salita così aspro e malagevole che solo un paccio come Luca, dicono in paese, può mettersi in testa di trasformare in oliveto. L’unico spicchio fertile si trova lungo il ruscello, dove in primavera coltiva l’orto all’ombra di quattro olivi secolari.
Si fermano in cima al pianoro.
Lo spinone annusa l’erba umida e si mette a scavare con la perizia di un cane da tartufo. Dopo si acciambella, soddisfatto e stanco, sul ciglio del pendio.
“Bravo Solerò” dice Luca mentre con una mano a pettine gli fa una ruvida carezza e gli leva una manciata di foglie e rametti spinosi dal pelo. Poi va a prendere la zappa nella casella di pietra che ha costruito al ritorno dalla Grande guerra.
Al centro dell’area annusata e sterrata dal cane scava una buca profonda e vi pianta, emozionato, il primo albero del suo futuro oliveto.
Stavamo trascorrendo la Pasquetta nel terreno di famiglia chiamato Olivo di Luca, dal nome di un parente misterioso, che solo mia nonna Sofia aveva conosciuto.
La mamma serviva i piatti di pasta piena, mio padre beveva il suo vino Gaglioppo brindando alla nostra salute e nonna Sofia raccontava di Luca, adagiata sul tronco ricurvo del primo olivo come una regina sul trono.
Io non mi perdevo mai una parola.
Da bambino ascoltavo la storia sull’altalena che penzolava tra i due rami più robusti dell’olivo, a pochi passi da un burrone spaventoso. Chiudevo gli occhi e, volando, immaginavo le scene come se le vedessi in TV.
Papà mi spingeva sempre più in alto e la mamma lo sgridava, temendo che la corda dell’altalena o i due rami si spezzassero e io affogassi nel roveto che copriva il burrone. “Ma va’, fifona, l’olivo è sanizzo, non si sgalla di sicuro, e se per caso Antonuzzo cade nel rovettaro si fa qualche graffio e basta” la rimbeccava lui, mentre io per pochi secondi mi allontanavo dalla storia e di nuovo mi immergevo nei suoi segreti, inseguito dalla voce della nonna. Riaprivo gli occhi e, nel passaggio dal buio alla luce, vedevo Luca che spariva nel bosco di Crisma.
Anche adesso che ero troppo grande per l’altalena e frequentavo l’ultimo anno del liceo scientifico a Crotone, mi capitava di seguire la storia a occhi chiusi.
Le parole di nonna Sofia risuonavano melodiose e urgenti, fino a trasformarsi in un canto su Luca e per Luca, che magari l’ascoltava nascosto nel bosco o in fondo al roveto.
Luca, sì. Testardo e faticatore più di un mulo, diceva la nonna. Un uomo così sperto che nei primi decenni del Novecento sapeva guardare lontano nel tempo, fino a oggi. E anche oltre, fino a domani.
Per cinque anni Luca si procura alberelli d’olivo a Strongoli, a Rossano e a Melissa. Ogni inverno, dopo le prime piogge, ne pianta dieci della stessa varietà nei terrazzamenti che lui stesso ha predisposto, utilizzando le pietre piatte del ruscello. Una fatica davvero da paccio, sì, ma è l’unico sistema se si vuole evitare che in futuro le olive, cadendo, si perdano nel burrone.
In paese dicono che quel fondo timpòso, cedutogli dal fattore del marchese in cambio di giornate di lavoro, non lo vorrebbero manco regalato: è così duro che al massimo ci puoi piantare chiodi. Altro che tutte le varietà di olivi della Calabria, come vorrebbe Luca! Addirittura sta cercando una rara pianta con le olive bianche, dicono, che nessuno in paese ha mai visto e che esiste solo nella sua testa paccìsca. Ma si sa che i paesani parlano per invidia: quasi nessuno di loro possiede un fazzoletto di terra né fertile, né asprigna come la sua, faticano tutti nei campi del marchese, sfruttati come schiavi. E quando vedono gli alberelli di Luca che crescono rigogliosi e la sua proprietà che si trasforma in un oliveto acrobatico, sì, ma più che dignitoso per numero di piante e qualità di olive, non credono ai propri occhi. Persino il fattore del marchese si stupisce e forse si pente di avergli venduto quel terreno che in apparenza non valeva niente.
Gli sgarbi cominciano in primavera, quando il corso del ruscello viene deviato nel burrone.
Luca lo riporta nell’alveo in tre giorni di dura fatica e riprende ad annaffiare il suo orto e gli alberelli più giovani, Solerò sempre accanto a lui, come a volerlo proteggere dai fantasmi malignitòsi che lo circondano.
Poi una sera d’estate un’ombra attraversa il ponte e appiccia il fuoco davanti alla casella.
Se ne accorge per primo Solerò, che comincia ad abbaiare precipitandosi furibondo lungo la scarpata, il pelo sollevato dal vento in una miriade di serpentelli rossi, simili ai raggi del sole disegnati da un bambino.
Luca è appostato con il fucile in cima alla scarpata. Non aspetta che Solerò arrivi alla casella. Prende la mira e spara contro l’ombra.
Mangiammo infine il dolce pasquale, le cuzzupe con al centro le uova colorate di rosso, e io chiesi alla mamma di mettermene una da parte. L’indomani a scuola l’avrei offerta a Elena, la mia ragazza di Crotone. Mi ero invaghito dei suoi occhi inquieti e luminosi fin dalla prima classe, trovando la forza di dichiararmi, dopo mille tentennamenti, solo all’inizio della quinta. Curiosa com’era, le avrei raccontato pure l’incredibile storia di Luca, di cui ancora non conoscevo il finale.
La nonna però non parlava più. Si era incupita.
“Che tieni?” le chiese mio padre preoccupato.
E lei: “Niente. Questa è l’ultima Pasquetta della vita mia, e mi dispiace assai. Sono vecchia, figlio!”
La mamma non sopportava le lamentele della suocera: “Dite così da quando vi conosco. Mo’ avete novantadue anni, state bene di corpo e di testa, e tenete pure il coraggio di lagnarvi? Io ci metterei la firma per invecchiare come voi!”
La nonna la fulminò con un’occhiataccia ironica. Poi si rivolse a me: “Mi accompagni a casa, gioia mia? Sei l’unico che mi crede veramente quando parlo. Sono stanca, Antonù. Però un’ultima cosa te la devo dire: dopo lo sparo, Luca mi lascia un foglio pieno di sgorbi e un giorno d’autunno sparisce per sempre.”
[da L’olivo bianco di Carmine Abate, Aboca, 2024]
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