Non che io non avessi capito che mio fratello per ora si rifiutava di scendere, ma facevo finta di non capire per obbligarlo a pronunciarsi, a dire: «sì, voglio restare sugli alberi fino all’ora di merenda, o fino al tramonto, o all’ora di cena, o finché non è buio», qualcosa che insomma segnasse un limite, una proporzione al suo atto di protesta. Invece non diceva nulla di simile, e io ne provavo un po’ paura.
È nulla più di una suggestione immaginare che Italo Calvino, quando plasma il “barone rampante”, vuole instillarvi una goccia di obiettore di coscienza. Al momento della pubblicazione era trascorsa una manciata di anni da quando i suoi concittadini Libereso Guglielmi, Pietro Ferrua e Angelo Nurra avevano pagato con il carcere il rifiuto di prestare il servizio militare. Tutti e tre avevano maturato il loro antimilitarismo nel gruppo anarchico Alba dei liberi, costituitosi nella Sanremo in cui Calvino era nato e cresciuto. Due lavoravano come giardinieri presso la villa del padre Mario. Guglielmi, dal quale lo scrittore avrebbe tratto il protagonista del racconto Un pomeriggio Adamo, è in realtà più renitente che obiettore: nella sua mancanza alla chiamata le intime ragioni politiche si confondono con motivi famigliari. Ferrua è il primo obiettore anarchico: in questa forma di lotta individua un’opportunità per l’anarchismo di aggiornare la propria tradizione antimilitarista. Nurra rimane a mezza via tra i due: al momento dell’arrivo della cartolina precetto attende l’arresto, continuando il suo lavoro alla luce del sole, ma conferisce all’atto una valenza esclusivamente politica. Durante la sua prigionia a Torino, Calvino, ormai da anni nel capoluogo piemontese, si reca spesso a visitarlo, portandogli libri e caramelle, e assiste al suo processo.Ma vi è una secondo sottilissimo filo che lega il barone Cosimo e i primi obiettori. Circa un anno prima del gesto di Ferrua, l’obiezione di un giovane di Ferrara si era imposta all’attenzione del paese. Pietro Pinna non è il primo obiettore italiano, ma è il primo a definire il suo rifiuto del servizio militare come “obiezione di coscienza” e a conferirgli un rilievo pubblico.
Nel dibattito che percorre l’Italia, negli stessi comandi militari, in molti attendono che il suo gesto duri «fino all’ora di merenda o fino al tramonto, o all’ora di cena, o finché non è buio». Egli invece gli attribuisce una radicalità illimitata: avrebbe continuato a rigettare tutte le cartoline precetto che lo Stato gli avesse inviato. Dopo due condanne, il sistema militare, intimorito da questa assenza di misura, lo avrebbe liberato, riformandolo per un’inesistente nevrosi cardiaca. L’obiezione di coscienza si afferma nello spazio politico e sociale dell’Occidente nel corso del Novecento. Da prerogativa dei consacrati, o di alcuni movimenti minori nati dalla riforma protestante, la richiesta di esonero del servizio militare per motivi di coscienza si allarga a tutta l’opinione pubblica, includendo alcuni elementi portanti della modernità: la soggettività dei diritti, il rispetto dell’interiorità, il sogno del bando perpetuo di tutte le guerre. Inizialmente la sua diffusione è limitata ai paesi a maggioranza protestante, dove la coscienza ha giocato un ruolo decisivo nella maturazione religiosa. Nel primo, drammatico dopoguerra l’istanza si estende anche ad alcune aree progressiste del cattolicesimo, in particolare in Francia e Belgio. Intanto, nel 1921, nasce il primo organismo sovranazionale impegnato nell’assistenza degli obiettori di vari stati, la War Resisters’ International. Nell’Italia fascista l’obiezione non può entrarvi.
Casi di obiettori ve n’erano stati già nella prima guerra mondiale, ma l’espressione era così poco familiare che nessuno l’aveva utilizzata per qualificare in questo modo il proprio atto. Sembra esistere solo sui vocabolari: nel 1937 nell’opera Elementi di un’esperienza religiosa, sfuggita miracolosamente alla censura, il filosofo Aldo Capitini, che nei decenni successivi avrebbe legato il suo nome a questa battaglia, aveva preferito l’espressione “non collaborazione”. Il primo documento della cultura pacifista in cui ho riscontrato la formula “obiezione di coscienza” è una lettera del 1941 di don Primo Mazzolari a un aviatore, destinata a una limitata diffusione, ma rimasta sconosciuta fino alla morte del sacerdote. La vicenda pubblica dell’obiezione in Italia è dunque tutta interna alla storia repubblicana. Germoglia anch’essa dall’intrico di «paure e speranze» della società del dopoguerra. Prima che come esperienza si afferma come cultura, sogno «dei costruttori, degli inventori», che guardano il mondo «come un mucchio di rovine» da ricreare. Si tratta dei pacifisti che Capitini raccoglie attorno a sé, i primi a definirsi, in un convegno del 1948, obiettori di coscienza.
Il significato è più ampio del concreto rifiuto dell’obbligo militare: è l’autorappresentazione di un gruppo che afferma la propria indisponibilità a «partecipare alla guerra e alla sua preparazione». Il riconoscimento dell’obiezione appare una risposta dalla logica elementare alla conservazione della pace: per evitare un nuovo conflitto è sufficiente mantenere la coerenza tra mezzi e fini, cessando di armarsi. In Italia il discorso sull’obiezione sorge dentro questa duplice aporia: i primi obiettori non possiedono una formula linguistica che li definisca. Quando l’espressione matura nel dibattito pubblico è un’istanza intellettuale-filosofica, sostenuta in circoli dalla forte tensione spirituale, che non inquadra figure concrete di obiettori. Pinna colma lo iato tra significante e significato. Quella dell’obiezione di coscienza rimane tuttavia storia di un piccolo numero. Fino al suo riconoscimento nel 1972 gli obiettori sono 706: se si escludono però dal conto i testimoni di Geova se ne contano appena 84. Ma la sua valenza prescinde dalla consistenza numerica. Fin dal momento in cui appare nel dibattito pubblico interagisce con nervi esposti della situazione politica italiana. Come ha osservato Giorgio Vecchio, quelli in cui De Gasperi governa l’Italia non sono solo gli anni delle «grandi scelte costituenti», della «ricostruzione», dello «scontro frontale tra la Chiesa cattolica e le sinistre nel quadro drammatico della guerra fredda», ma anche gli anni in cui «per la prima volta, la questione della pace e dei mezzi per assicurarla» è posta al centro «delle discussioni e delle preoccupazioni tanto degli uomini politici quanto degli uomini della strada».
Nessuna “nostalgia del fango” risorge nel secondo dopoguerra: i dolori e terrori condivisi dalla popolazione civile hanno innescato una familiarità tale tra l’uomo e la morte di massa da spazzare via l’attrazione verso la lotta all’ultimo sangue, la visione salutare della guerra, il culto della morte in battaglia. L’obiezione è uno dei frutti di questa nuova temperie. Alla “moda della pace” si sovrappone però la “contesa della pace”: la sua salvaguardia non unisce le folle, ma le divide lungo la linea di faglia del nuovo mondo bipolare. Prende corpo un pacifismo che Maurice Vaïsse ha definito «de circonstance», dominato dalle emozioni, incline a trasformarsi in un «pacifismo della paura» che chiede sicurezza. Un’indagine Gallup, condotta in nove paesi europei nel 1947, rileva come in Italia il timore di un nuovo conflitto fosse più diffuso che altrove. L’esperienza della seconda guerra mondiale non ha rivelato infatti solo l’orrore della guerra moderna, ma anche la sua indifferibilità di fronte all’offensiva di un progetto biopolitico universale come quello nazista. La guerra fredda ripropone il dilemma dell’indugio. Se la prospettiva di un conflitto, che può essere spaventoso, non va precipitata, neppure può essere rimossa in nome di una pace precaria. Per entrambi i fronti la prevenzione comporta la necessità di armarsi. L’obiezione di coscienza nega tali assunti securitari, abbracciando una neutralità assoluta, risolutamente estranea ai blocchi. La nuova dualità del mondo non le concede spazio. Per Democrazia cristiana e Partito comunista rappresenta un pericolo da gettare nel campo avverso: cavallo di Troia del comunismo che destabilizza il sistema di difesa nazionale o espressione di un pacifismo borghese, irriducibilmente individualista, che provocando la professionalizzazione dell’esercito e il suo collocamento in una sfera separata, incoraggia involuzioni autoritarie.
I giovani che obiettano testimoniano un’altra logica. Le loro diverse ispirazioni ideali condividono un’adolescenza vissuta interamente dentro il conflitto. Non hanno avuto l’età per partecipare alla Resistenza, ma hanno avvertito, in tutta la sua potenza, il quotidiano contatto con la morte: sia quella che scendeva dal cielo, sia quella inflitta, con disinvolta ferocia, dalle rappresaglie nazifasciste. La loro solitaria protesta ricorda allo Stato moderno come uno dei suoi fondamenti, il principio di autorità, sia stato irrimediabilmente minato dalle atrocità del recente conflitto e dal potenziale distruttivo dei nuovi armamenti: l’aggressione nazista, la shoah, il lancio della bomba atomica sono stati possibili perché gli automatismi della catena del comando non hanno trovato un inciampo nella coscienza dell’individuo. Al tempo stesso, negli anni dell’occupazione tedesca, si era stabilito un legame ineludibile tra Resistenza e renitenza: come avrebbe domandato qualche anno più tardi don Milani ai cappellani militari, non avevano forse difeso la patria proprio quei soldati che avevano obiettato? Il processo di Norimberga aveva ulteriormente ribadito la centralità del foro interno, non concedendo valore assolutorio all’obbedienza a un comando.
A questa riscossa della coscienza le istituzioni repubblicane sembrano voler mettere un argine, rifugiandosi dietro secolari categorie politiche e religiose, come la dottrina della guerra giusta e il principio di presunzione. In esse possono essere anestetizzate le responsabilità dello stato maggiore nella destabilizzazione dell’ordine mondiale e nell’abbandono vergognoso delle truppe italiane l’8 settembre. Quel giorno l’esercito fondato sull’autorità indiscussa è morto. Alla volontà di riesumarlo gli obiettori appaiono un intollerabile inciampo. La loro repressione è affidata a pezzi del passato regime, ancora presenti nei codici e nelle istituzioni. Anch’essa partecipa al passaggio da una costituzione formale incardinata sull’antifascismo a una costituzione materiale che poggia sull’anticomunismo. La battaglia per il riconoscimento dell’odc sarebbe durata oltre vent’anni. Si tratta di una nicchia, ma investita dalla stessa «malinconia» che pervade altre lotte: come avrebbe riconosciuto anche il «Corriere della Sera», ancora a distanza di molti lustri dalla caduta del fascismo, l’Italia scontava un ritardo congenito nella tutela dei diritti, rispetto alle grandi democrazie occidentali. Per quanto periferico, il discorso sull’obiezione di coscienza rappresenta un angolo privilegiato dal quale osservare il rapporto tra società civile e istituzioni. Da un lato è estremamente suscettibile alle trasformazioni del paese, dall’altro vi partecipa, stimolando la riflessione sul rapporto tra autorità legittima e principi di coscienza, sull’illimitata potenzialità di morte della guerra contemporanea, sull’allargamento degli spazi democratici dell’individuo. Le scansioni interne della sua vicenda movimentista seguono i principali tornanti della storia repubblicana: i riflessi interni della guerra di Corea, il rinnovamento cattolico del papato giovanneo, il Sessantotto e la contestazione rappresentano inequivocabili cesure.
Le istituzioni si muovono invece in un orizzonte temporale più statico: quella dell’obiezione di coscienza diventa storia della pervicace sopravvivenza di una lacuna normativa. Nei codici non è prevista nemmeno come reato. L’autorità militare ritualizza questa assenza in una messa in scena atemporale che traduce il gesto in un atto contemplato dalla legge: la divisa piegata su una sedia o le stellette strappate, la convocazione di due testimoni, l’ordine impartito tre volte, il triplice rifiuto servono a convertire l’obiezione in disobbedienza semplice o continuata. Gli obiettori si muovono in un aggregato di luoghi senza tempo, separati dall’ordinamento democratico, disciplinati da regolamenti immutabili: la caserma, il carcere, il tribunale militare.
All’immobilità dell’ambiente militare si affianca la compassata motilità di governi e parlamenti, che alla maniera di un trasformatore di energia abbassano drasticamente il voltaggio delle sollecitazioni della società civile. Non mancano nei partiti socialisti o nella sinistra democristiana singoli esponenti che, in tempi diversi, sostengono il riconoscimento dell’obiezione, ma nessuno di questi intacca sensibilmente l’equilibrio instaurato tra esercito ed esecutivo. I progetti di legge sono destinati a impantanarsi tra le secche della sede referente della commissione Difesa, mentre gli atti di sindacato ispettivo non provocano nulla più di un lento traccheggio. Il carattere di fondo rimane la procrastinazione: alla legge si giunge per estenuazione, quando, di fronte alla crescente mobilitazione degli obiettori, lo Stato maggiore dell’esercito ritiene preferibile un avallo molto restrittivo. All’indolenza delle istituzioni politiche si affianca la solerzia di questure, prefetture e alcune preture nell’opporre all’obiezione di coscienza «il ferro di leggi […] fasciste che non siamo ancora stati capaci di abrogare», come scrive Umberto Segre sul «Giorno», pochi giorni dopo l’arresto di alcuni radicali e anarchici per un volantino antimilitarista. Differimento della legge e repressione appaiono le due facce di un carsico partito d’ordine, che, spalmato tra i poteri politico, militare, poliziesco e giudiziario, frena l’espansione dei diritti. La legge che riconosce l’obiezione, 772 nella nomenclatura parlamentare, «truffa» negli slogan degli obiettori, viene approvata il 14 dicembre 1972, sotto la pressione di un digiuno di 39 giorni attuato dai radicali Pannella e Gardin. Si colloca in mezzo a due cicli riformistici, in un momento di riposizionamento a destra dell’asse politico del paese, dopo la definitiva sepoltura dell’esperimento di centro-sinistra. Tale peculiarità trasuda nella duplice anima del provvedimento: momento di apertura della legislazione italiana a una nuova prerogativa individuale e formula restrittiva che persegue l’obiettivo di contenere più che disciplinare il servizio civile. L’obiezione di coscienza non è riconosciuta come diritto soggettivo, ma come interesse legittimo a cui è concessa un’ammissibilità condizionata, dipendente dalla valutazione di una commissione sulla sincerità delle motivazioni.
Nonostante i molti limiti a cui è sottoposto, il riconoscimento dell’obiezione rappresenta una cesura. Non solo modifica l’organizzazione dei movimenti antimilitaristi e nonviolenti che si devono rapportare al nuovo spazio aperto dal servizio civile, ma, come avvenuto anche in altri paesi, muta il significato dell’espressione stessa. “Obiezione di coscienza” non definisce più l’atto di chi si oppone in modo manifesto a una legge ritenuta intimamente ingiusta, senza sottrarsi alle conseguenze penali, ma configura l’esercizio di un’opzione che l’ordine legale riconosce. L’obiezione tradizionale tuttavia non si esaurisce, ma rimane un percorso residuale, intrapreso da chi rifiuta ogni forma di servizio presso lo Stato o il giudizio sfavorevole della commissione; o ancora da chi opta per un’autoriduzione del servizio prestato, sostenendone la pari dignità con quello militare. In questo volume ho cercato di raccontare la lunga lotta per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, guardandola come un fuso attorno al quale si raccolgono le culture politiche e le dinamiche istituzionali della contraddittoria democratizzazione del paese. È una delle molte vicende che si agitano nel ventre dell’Italia repubblicana e aiutano a capirla. Questo non significa conferirle una centralità che non le è mai appartenuta. Una storia dell’obiezione di coscienza è anche narrazione della fatica che avrebbe incontrato per uscire da una collocazione laterale. Perifericità non significa tuttavia irrilevanza. La lotta per il suo riconoscimento partecipa a quel vasto movimento che allarga gli spazi delle libertà nell’Italia repubblicana.
Perciò, in fin dei conti, questo lavoro è anche un omaggio. Il metodo storiografico è stata l’ancora a cui ho cercato di tenermi saldamente per non sdrucciolare in una prospettiva di parte. Ma l’imparzialità storiografica che deve presiedere il vaglio delle fonti non significa l’adesione a una neutralità valoriale tra chi chiedeva di servire la patria senza armi e chi per questo li metteva in prigione. I ragazzi che a cavallo dei loro vent’anni, per un ideale, hanno affrontato il carcere militare, sono stati a loro modo degli eroi. Eroi feriali, spesso ritornati a una quotidianità riposta, nella quale hanno riportato valori intensamente vissuti. Eppure anche dalla difesa di uno spazio di coscienza, scontata sulla pelle, è passato il processo di emancipazione della democrazia italiana dai residui del ventennio fascista.
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