E’ il tema delle radici e del ricordo a sostenere la trama del romanzo di Lorenzo Marone “Tutto sarà perfetto” (Feltrinelli). Radici e ricordi sono ciò che ritrova il protagonista, Andrea Scotto, un quarantenne non del tutto cresciuto, single, fotografo precario, che ha (ir)risolto i suoi legami di famiglia standone il più possibile lontano. Deve però riavvicinarcisi quando l’ansiosa sorella Marina, sposata, con due figlie, gli chiede di trascorrere un fine settimana con il padre ottantenne gravemente malato, perché lei deve partire con marito e prole. Il padre, Libero Scotto, è un ex comandante di navi (il Capitano), vedovo da molti anni (la moglie soffriva di depressione) ora rassegnato a dover morire di cancro. Ecco così che Andrea si ritrova catapultato in una dimensione che gli è completamente estranea, quella del ‘prendersi cura’. Peraltro di una persona con cui aveva sempre avuto un rapporto conflittuale o, comunque, di distanza. La sorella Marina – un’apprensiva maniacale che gli telefona in continuazione – gli ha lasciato addirittura un decalogo di regole e incombenze (è una delle parti spassose del romanzo) cui deve attenersi: nei confronti del padre, del cane bassotto, della badante a ore e persino degli arredi. Il primo veto su cui Andrea ritiene di dover fare una concessione è quello del fumo. Il Capitano aveva una gran voglia di fumarsi un sigaro, che avrebbe compromesso ben poco dei mesi di vita che gli restavano. Ma la richiesta più spiazzante per Andrea è quando il padre gli chiede di portarlo a Procida, l’isola in cui era nato e che, giunto alla fine della sua vita, desidera rivedere. Così da Napoli si imbarcano alla volta dell’isola. Anche per Andrea è il luogo dell’infanzia, dei primi amori adolescenziali (“Procida è come una casa antica che tiene botta di generazione in generazione portando sulle pareti le marachelle dei suoi bambini.”). Avvolto da quella luce, dai colori, dagli odori, Andrea recupera tutte le frettolose cesure, le amnesie, le rimozioni. Certe ferite bruciano ancora, ma le lenisce la dolcezza del ricordo. Così si avvia in lui un ricongiungimento, una pacificazione – con il padre, il ricordo della mamma, il passato – forse una maturazione che finalmente renderà ragione ai suoi quarant’anni. Se non proprio perfetto, tutto si avvierà ad essere per lo meno più equilibrato.
***
[…]
Riattacco e torno a curiosare nel frigo per controllare se per un incredibile colpo di fortuna dietro il contenitore dei formaggi ci fosse una birra ghiacciata. Sono ancora con la testa infilata per metà nel fichissimo frigo rosso quando mi giunge una folgorazione, ed è ancora peggiore della consapevolezza di non avere birre a sostenermi.
“Le sigarette...” sussurro con voce gutturale portandomi la mano al taschino della camicia.
Come preso da un irrefrenabile raptus che non saprei e che, in ogni caso, non oserei contrastare, inizio ad aprire tutte le ante della cucina, i cassetti, poi passo al soggiorno, ispeziono la credenza, la libreria, il tavolino della televisione, butto giù il bassotto dal divano e sollevo i cuscini, infine mi dirigo come un folle nelle stanze da letto, alla ricerca di un pacchetto lasciato da non si sa chi, dato che in famiglia nessuno fuma, ahimè.
Il cane mi segue ringhiando e abbaiando.
La camera di mia sorella e del marito è perfetta, ordinata e profumata come se dovesse essere immortalata su una rivista d’arredamento. Troppo profumata per i miei gusti. Infatti mi giro d’istinto e sulla destra noto uno di quegli arnesi infernali che ogni tanto nebulizzano nell’aria il loro aroma dolciastro; che se fosse solo per l’odore potrei anche passarci sopra, il problema è quando ’sti dannati cosi si mettono a spruzzare in piena notte facendoti venire un mezzo infarto. Perciò decido di sfilarlo dalla presa con un gesto repentino, troppo repentino a detta di Augusto, che fa un salto e mi azzanna l’indice.
Augusto, se non si fosse capito, è un bassotto di cinque anni viziato e prepotente, re incontrastato della famiglia (che comanda a bacchetta), che si aggira per le stanze con aria di superiorità lanciando occhiate di disprezzo ai malcapitati che hanno la sventura di passargli davanti. Il nome che si porta dietro rispecchia tutta la sua autorità e a volte, per non incorrere in pesanti sanzioni, mi è anche capitato di doverlo salutare con un “Ave, Imperator Augustus” e un cenno della mano. In realtà, più che cattivo è proprio pazzo, ha qualche rotella fuori posto, così tempo fa mi venne istintivo chiamarlo Cane pazzo Tannen, il soprannome affibbiato all’avo di Biff Tannen nella trilogia di Ritorno al futuro. Alla fine, Augusto per me è diventato semplicemente Tannen.
“Cazzo, Tannen!” grido, e per cercare di liberarmi dalla sua morsa urto l’indossatore di Fiorenzo, che finisce dritto nello specchio a muro. Il boato conseguente all’impatto per fortuna terrorizza il mio nemico, il quale lascia la presa e fugge in salotto con un guaito e la coda fra le gambe.
“Ma che succede?”
Diamine, in questo parapiglia ci mancava solo papà.
Calpesto quel che rimane dello specchio e lascio svolazzare una bestemmia nel corridoio mentre mi avvio in bagno per mettere la mano sotto il rubinetto.
“Andrea, che hai combinato?”
Mio padre in vestaglia, le mani intrecciate dietro la schiena e lo sguardo da ramanzina, è fermo sulla porta.
“Niente, pà, niente. Torna a letto, è successo un casino con la belva.”
Lui si accosta con calma serafica, apre l’armadietto, tira fuori l’acqua ossigenata e l’ovatta, quindi mi afferra il dito e inizia a disinfettarmi la ferita. Lo lascio fare mentre lo scruto, era una vita che non mi capitava di guardarlo così da vicino. I volti degli anziani in generale mi piacciono, hanno il vissuto attaccato alla pelle e gli occhi pieni di storie; nei dettagli, però, le cose iniziano a complicarsi, nella pelle martoriata di macchie, rughe e punti neri, e nei peli che escono come cespugli di rovi dal naso e dalle orecchie. Distolgo lo sguardo.
“Non è che mi attacca la rabbia?”
“Ma figurati,” ribatte lui con gli occhi al mio dito. “Marina non gli fa saltare un vaccino, questo poveretto passa la vita dal veterinario.”
“Poveretto sì...”
Dopo avermi imbavagliato l’indice con due cerotti, papà fa: “Ecco qua, ma stai attento la prossima volta. Meno male che tua sorella è una donna diligente...”. E mi sembra che gli scappi un sorriso.
“Già, che fortuna...”
Poi torna a intrecciare le mani dietro la schiena e se ne va strascicando le pantofole sulle piastrelle.
“Pà?”
“Che c’è?”
“Non è che per caso ti avanza una sigaretta?”
“Una sigaretta?”
“Eh.”
Resta a squadrarmi immobile, le spalle incurvate come mai gli ho visto, sfidando il mio sguardo, quasi volesse costringermi a rivelare l’astuto piano.
“Sai bene che mi è vietato fumare...” ammette alla fine.
“Va be’,” replico, “potresti avere qualcosa comprato al mercato nero e sfuggito al controllo asfissiante di Marina...” E faccio un risolino.
Pensavo che se la prendesse, invece ci riflette e poi mi invita a seguirlo nella sua stanza grigia che puzza di disinfettante e farmaci. Apre il cassetto del comodino, infila la mano sotto alcune scatole di medicinali e tira fuori un sigaro, un toscano per la precisione. Quindi me lo porge soddisfatto.
“E questo da dove viene?”
“Ho corrotto Gina.” Stavolta è lui a sorridere. “Ma non ti azzardare a dirlo a tua sorella!”
“Per carità.” Allargo le braccia in segno di resa. “Non le ho mai confessato nulla, figurati se inizio dopo i quaranta. Solo che i sigari non mi piacciono, mi fanno venire mal di stomaco.”
“La solita femminuccia...” commenta lui, e si infila il toscano in bocca. Prende anche uno zippo, si siede sul bordo del letto e accende il sigaro con un paio di boccate poderose che gli avvolgono il volto in una nube di fumo denso e giallastro.
Dovrei ribattere sul fatto della femminuccia, ma sta morendo, che senso avrebbe? È la risposta che mi do da un anno a questa parte, la replica alla mia voglia di tenergli testa a ogni frase, come ho sempre fatto. È mezzo morto, mi dico, che senso ha?
“Vado a comprare le sigarette, il sigaro mi fa venire mal di stomaco,” ripeto, ed esco dalla stanza contrariato. Questo vecchio è l’unico essere sulla faccia della terra capace di modificarmi l’umore con una frase.
“Andrea?”
Torno indietro. “Che c’è?”
“Già che ci sei, prendimi una confezione di Garibaldi.”
“Senti, non è che adesso devi approfittarne. Una cosa è non dire a Marina della merce sottobanco, altra è diventare complice a tutti gli effetti,” rispondo con voce ferma.
Lui però non arretra. “Lo sai quanto mi resta da vivere?”
Socchiudo gli occhi. “Ora non fare il pietoso.”
“Se fra qualche mese sarò comunque in una cassa, mi dici tu un toscano come cambia le cose?”
“Marina non vuole.”
“È scritto in quelle stupide raccomandazioni che ti ha lasciato?”
Appoggio la mano allo stipite della porta e mi lascio andare a un sorriso. “Le conosci pure tu?”
“E certo. È ossessionata dalle regole, dagli elenchi.” Tira una labile boccata.
“Stai impuzzolentendo tutta la casa.”
“Fammi campare...”
Resto a fissarlo, ma lui torna al discorso sulle regole. “Mi gioco quel po’ di senno che mi è rimasto e ti dico che fumare, in quell’elenco, non c’è!”
Ha lo sguardo acuto, le labbra secche socchiuse in una smorfia di disgusto, una sfoglia di barba bianca sfilacciata che ricorda lo zucchero filato.
“Che c’entra? Se non c’è, è perché Marina non ritiene possibile nemmeno l’idea,” rispondo.
Lui sembra sgonfiarsi di botto di fronte alla mia resistenza. “Come non detto, la discussione mi ha già stancato. Fate come vi pare, tanto avete deciso di farmi morire da prigioniero.” E mi manda a quel paese con un gesto della mano.
Sospiro e mi costringo a non rispondere, anche perché, a essere sincero, tutti i torti non mi sembra li abbia. Forse potrei davvero tentare di parlare con Marina: papà ha due metastasi in corpo e pochi mesi di vita, quale danno irreparabile potrebbe mai creargli un sigaro? Sbuco in cucina e afferro il telefono. Il cellulare ha già fatto due squilli quando l’occhio mi cade sul foglietto stropicciato abbandonato sul tavolo: in effetti non si fa cenno al fumo. In alternativa, la raccomandazione numero dieci recita testuale: Non spostare Augusto dal divano quando dorme.
Si arrabbia e può morderti, aggiungerei.
Due giorni possono essere un tempo infinito.
[da Tutto sarà perfetto di Lorenzo Marone, Feltrinelli, 2019]
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