Corre veloce come le auto della targa Florio, emblema del successo, ma come le auto che schizzano sulle Madonie fa presto a schiantarsi. Il senso di insicurezza, di dubbio, di sgretolamento delle certezze. “L’inverno dei leoni” (Nord Edizioni) di Stefania Auci non è un libro che parla della decadenza, ma che ti trascina dentro le vicende. Il fascino del romanzo sta proprio in questo, nel senso di ineluttabile rovina che si intuisce, ma precipita inesorabilmente. L’inverno appunto, quando tutto tace e si copre di bianco. Il gelo del paesaggio. “Di quel giardino lussureggiante si salverà ben poco. Due palme, chiuse in un fazzoletto di terra, su cui si affacciano le finestre di una clinica. Un’aiuola, là dove c’era il salotto affacciato sul giardino. L’olivo accanto all’entrata, quello particolarmente caro al senatore Ignazio, costretto in una vasca di cemento all’interno di un parcheggio. Ultimo, muto testimone di una storia meravigliosa e terribile”.
Siamo di fronte a una saga familiare ambientata nella seconda metà dell’Ottocento, che ci fa rivivere le vicende dei Florio, una famiglia di commercianti di spezie che da pirocchi arrinisciuti diventano prima molto ricchi e poi si trasformano in una potenza, dando vita a una vera e propria leggenda che tuttavia così rapida come si era formata va inesorabilmente incontro alla decadenza. Questo romanzo è un vero e proprio affresco della società siciliana dell’epoca. L’autrice costruisce un ritratto dettagliato di quella famiglia apparentemente in pieno splendore, ma destinata ad una rovina lenta, inesorabile e assoluta. Avevo letto il primo volume della saga e non mi aveva convinto in pieno, forse perché racconta l’ascesa e il successo e ha il sapore di una favola lieta. Ho apprezzato il secondo volume per la lingua più elaborata e perché si nota una maggiore attenzione al contesto storico-sociale. È evidente che la Auci si è documentata a fondo sulle vicende dei Florio, gli affari, le questioni private, le frequentazioni, le case che hanno abitato, perfino i gioielli di Franca, descritti con precisione. “Quei gioielli sono stati il suo scudo per tutta la vita. L’hanno difesa, hanno dimostrato al mondo la sua forza, la sua bellezza. E adesso, dove sono? Chi si prenderà cura di loro?”.
Seguiamo la storia di due generazioni, i cui primogeniti si impegnano nella società di famiglia per mantenerla proficua e grande, ma che è destinata a scomparire, per una serie di eventi storici e anche incapacità dell’ultimo rappresentante, o forse inadatto ai tempi e agli intrighi. “L’inverno dei leoni” è un romanzo che deve essere letto per comprendere le traversie economiche e politiche dell’Italia, una scrittura scorrevole, un ritmo sostenuto mai lento, pur mantenendo viva l’attenzione per i dettagli e le sfumature della lingua, con riflessioni profonde e mai banali. Ogni componente della famiglia è riconoscibile e indimenticabile per il suo modo di essere, estremamente particolare, direi unico, soprattutto le donne, come Franca e la baronessa Giovanna D'Ondes Trigona, la donna che Ignazio ha sposato per essere accolto definitivamente nell’aristocrazia siciliana. Una scalata sociale che giungerà a compimento con la nomina a senatore del Regno nel 1883. Come non ripensare al “ciclo dei vinti” di verghiana memoria, che l’autore dei Malvoglia non completò, forse perché il suo allievo e amico Federico De Roberto lo precedette con “I Viceré” che prese il posto dell’incompiuta Duchessa di Leyra. A cui non fecero mai seguito “L’onorevole Scipioni” e “L’Uomo di lusso”. Ecco ai Florio manca l’ultimo anello, l’artista o meglio la realizzazione artistica. Per il resto tutto si compie mettendo ancora una volta in risalto le tragiche conseguenze della fiumana del progresso.
Ma se non furono toccati dalle muse, si circondarono sempre di opere bellissime, case da sogno, quadri, suppellettili, giardini lussureggianti, tutto ciò che perderanno, l’effimero che domina. Se i nobili palermitani non sentivano il bisogno di rivalsa, consapevoli di essere superiori agli altri per lignaggio, educazione, eleganza, i Gattopardo avvertivano comunque il crollo del loro mondo, coltivando la disillusione, nei Florio c’è ancora l’illusione. E Franca Jacona di San Giuliano “si era assunta il compito di costruire un ponte tra quei due mondi così diversi e, con grazia e tenacia, ci era riuscita”. E se Franca non fu un’artista si può dire che fece della sua vita un’opera d’arte, per parafrasare D’Annunzio che l’ammirò e ne cantò le lodi. Tuttavia Franca Florio “ha avuto la ricchezza, ma i suoi gioielli più belli, i suoi bambini, le sono stati strappati”. È stata corteggiata, ammirata e invidiata, e poi vista solo con pietà e rammarico. Cu avi dinari campa felici e cu unn’avi perdi l’amici (Chi ha soldi vive felice e chi non ne ha perde gli amici). “È destino degli uomini essere felici e non rendersi conto di esserlo. È la loro maledizione sprecare il tempo della gioia senza rendersi conto che è tanto raro quanto irripetibile. Che la memoria non può ridarti ciò che hai provato perché ti restituirà invece la misura di ciò che hai perduto, riflette Franca”.
Il primo volume terminava con la morte di Vincenzo e la nascita dell’erede Ignazio. Il secondo volume riparte proprio da qui: "Muriu! Don Vincenzo, ora ora". Chi lascia questo mondo e chi ci arriva: nelle stesse ore nasce il nipote Ignazziddu, secondogenito di Ignazio. Pare quasi che il nonno gli lasci spazio, perché prenda il suo posto nella casata, perché la parabola dei Florio prosegua”. Ma è chiaro che la parabola è ormai in discesa con la morte di Ignazio, nel 1891. Circa le motivazioni del crollo familiare l’autrice si sofferma sugli aspetti di carattere storico politico. I problemi postunitari, tasse, obbligo della leva, funzionari piemontesi che non conoscevano la lingua e nemmeno le consuetudini. Troppo alti i costi di produzione, e scomodi i trasporti delle merci e delle materie prime. L’unico modo per continuare a lavorare è tenere i salari bassi, è contare ogni lira, senza innovare la tecnologia, solo per stare al passo con gli industriali del Nord, che ormai sono anni luce lontani.
Dopo la crisi economica internazionale del 1907 – superata grazie a un’azione di concerto tra il governo e la Banca d’Italia – Giolitti deve affrontare una delle più grandi tragedie della storia italiana: il 28 dicembre 1908, alle 5.20 del mattino, il terremoto distrugge Messina e Reggio Calabria provocando quasi centomila vittime. Mentre il governo viene accusato di eccessiva lentezza nei soccorsi, Gaetano Salvemini accusa Giolitti definendolo ministro della mala vita, secondo lui, l’arretratezza del Sud Italia nasce infatti da una precisa volontà di Giolitti che, in tal modo, può contare su brogli e su violenze elettorali per mantenere il potere. “Reggio Calabria era stata devastata, molti paesi – anche Bagnara – erano stati ridotti a un cumulo di macerie, Messina era diventata polvere e pietre in poco meno di due minuti. Poi lo spirito del terremoto si era impossessato del mare, sollevandolo, e onde altissime si erano abbattute su ciò che restava della città e su quanti si trovavano in strada. Erano scoppiati incendi, c’erano state fughe di gas ed esplosioni. Infine era arrivata la pioggia a impastare la polvere, sporcando invece di lavare, accecando i sopravvissuti che vagavano, inebetiti, tra le rovine”. Molto efficace e precisa la descrizione del terremoto e poi pagine più avanti ecco farsi strada la guerra, l’influenza Spagnola “dopo quattro giorni di febbre fortissima, Tanino ha cominciato a tossire sangue e la mattina dopo non c’era più”. E poi il colera che sale ai piani superiori, si allarga dal centro verso la periferia, fino alle ville e niente e nessuno può fermarlo, e arriva anche a casa Florio.
Motivazioni del declino legate all’incapacità di Ignazio: Ignazio si chiede il perché. Convinto che “le capacità imprenditoriali fossero lì, nel suo sangue, impastate con le ossa e i muscoli. E invece c’era qualcosa di più, qualcosa che lui non aveva avuto: il desiderio di riscatto? La volontà di riuscire? Il senso del dovere? La capacità di leggere nell’animo degli uomini, d’intuirne i desideri? Ma il suo nome ormai suscitava compassione, disprezzo e, talvolta, addirittura scherno. Ignazio Florio aveva fatto crollare un impero. Ignazio Florio era stato incapace di amministrare il suo patrimonio. Ignazio Florio era un incosciente, un fallito. E se ne "I Buddenbrook" l'ultimo discendente dimostra in nuce tutta la sua inadeguatezza e la sua ritrosia a volersi adeguare al modello paterno, Ignazio si era adeguato. Mentre la primavera fa il suo timido esordio, Ignazio sente la vita staccarsi dalla pelle e dalle ossa, come un abito di cui è costretto a disfarsi”. Un libro importante, per riflettere sull’oggi, come ogni buon romanzo storico.
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